sabato 25 ottobre 2014
BITTO DI ANTICA MEMORIA
Bitto, il formaggio “perenne”
Un valtellinese di antica memoria
Il nome Bitto deriva dal celtico “bitu”, ovverosia “perenne”, probabilmente perché
il formaggio si conservava per lungo tempo e permetteva di usarlo come “scorta” alimentare, al di là della pura sussistenza quotidiana
Raccontano che il Bitto nacque tra le popolazioni celtiche le quali, scacciate dalla Pianura Padana ad opera dei Romani, popolarono la Valtellina, territorio montuoso e quindi più “difficile” da sfruttare da un punto di vista alimentare, ma anche rifugio sicuro, fertile e abbondante di pascoli. “Bitto” deriva infatti dal celtico “bitu”, ovverosia “perenne”. Forse perché la lavorazione del latte permetteva alle popolazioni dell’epoca di andare oltre la pura sussistenza quotidiana, grazie alla possibilità di conservare il formaggio per lungo tempo, e di utilizzarlo come “scorta” alimentare.
E, in verità, il nome di battesimo “perenne” si è rivelato nei secoli più che un augurio, se pensiamo che il Bitto è arrivato fino a noi, grazie all’esperienza dei maestri casari che, di padre in figlio, ci hanno tramandato gli antichi metodi di produzione.
Alle 5 del mattino e verso le 17, durante i mesi estivi, è possibile fermarsi presso uno dei tanti alpeggi montani della Valtellina, per assistere alla nascita... del Bitto!
Quando infatti il sole non è troppo caldo, il casaro, responsabile della lavorazione del formaggio, aiutato dai cascii (pastorelli), in genere figli o parenti del casaro, inizia la mungitura delle vacche e delle capre, perché il Bitto è fatto con latte di mucca ed un’aggiunta massima del 10% di latte di capra.
Il latte appena munto viene subito lavorato col caglio nelle caldaie di rame a campana rovesciata (le “culdère”) alla temperatura di 35-37°C, mentre il casaro (casèr) rimescola l’ammasso.
La cagliata, così ottenuta, progressivamente indurisce, finché il casaro, secondo la propria esperienza ed abilità, non decida di sottoporla alla “rottura”: dopo aver ripulito il composto dallo strato superficiale di caseina e grasso (la “pannetta”), con movimenti lenti e delicati la cagliata viene divisa in grosse fette, dalle quali comincia a separarsi il siero. Infine, la massa viene ulteriormente tagliata con la “lira” o “chitarra” e quindi frantumata con lo “spino”, fino a ridurla in grumi, che andranno cotti alla temperatura di 48-52°C continuando a rimestarli perché non si aggreghino.
Al termine di questa seconda cottura, i granuli si adageranno sul fondo della caldaia addensandosi e legandosi: la cagliata rimasta viene depositata sullo spersore, all’interno delle fascere dalle quali il Bitto prenderà forma grazie alla pressatura di 24 ore. La fase della salagione, che può avvenire “a secco” o per immersione in salamoia, oltre a conferire gusto al formaggio, consente la creazione della crosta, che isolerà la forma dall’ambiente esterno per favorire un certo grado di asetticità. Il ciclo di lavorazione termina all’interno delle casere, tipici locali da stagionatura, alla temperatura di circa 12-16°C e umidità relativa intorno all’80-90%.
In questa fase delicata, in cui il Bitto acquista consistenza e gusto, il casaro, oltre a garantire le migliori condizioni di temperatura ed umidità, ogni giorno rivolta le forme, le pulisce e ne controlla l’integrità per favorire la maturazione del formaggio.
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