IL
RECUPERO E LE POTENZIALITÀ
DEL
PATRIMONIO VARIETALE
Secondo
l’indagine del Comitato Centrale Ampelografico, istituito nel 1872, alla fine
dell’Ottocento i vitigni ad uva da vino che venivano coltivati in Italia erano
diverse centinaia per ogni regione. Si trattava quindi di un patrimonio genetico
vastissimo, ma anche un po’ disordinato e mal conosciuto per le possibili
sinonimie o diverse denominazioni con le quali gli stessi vitigni venivano
riconosciuti in aree diverse. Attualmente nel Registro Nazionale delle
Varietà di Vite sono iscritti solo 320 vitigni da vino, dei quali non più
di 200 realmente coltivati.
Questa
“perdita” varietale si è verificata per una serie di cause tra le quali: i
processi di selezione operati dai viticoltori, l’introduzione di varietà
importate da altre zone a scapito di quelle autoctone e le gravissime malattie
giunte verso la fine dell’Ottocento, inizi del Novecento da altre parti del
mondo e che hanno provocato una grossissima selezione eliminando buona parte
delle varietà preesistenti.
La nuova
viticoltura è stata ricostituita in maniera molto più semplice, basata su poche
varietà molte delle quali importate da altre nazioni (soprattutto dalla
Francia): ciò, se da un lato ha portato sicuramente a un miglioramento
qualitativo delle produzioni enologiche, dall’altro può portare a una loro
eccessiva standardizzazione con perdita di quella tipicità che per i
nostri vini rappresenta l’elemento fondamentale e insostituibile della
valorizzazione.
Per
questi motivi assume un grande valore non solo storico e scientifico ma anche
pratico l’opera di recupero, conservazione e caratterizzazione del
germoplasma viticolo nazionale che in Italia si sta attuando fin
dagli anni ’70 a opera di numerose istituzioni (prima fra tutte l’Istituto
Sperimentale per la Viticoltura e poi il C.N.R.-centro nazionale ricerche-,
università, enti regionali e provinciali, ecc.) e che sono tuttora in corso.
Complessivamente
fino a oggi sono state recuperate quasi 2000 presunte varietà diverse,
molte delle quali sono ancora da identificare e studiare.
Per
quanto concerne in particolare il Veneto, l’opera di recupero ha consentito al
momento di recuperare oltre 100 biotipi; le zone maggiormente interessate sono
state quelle di Breganze e Asolo, i Colli Euganei e i Berici.
Ma
quali sono le potenzialità enologiche e quali le reali possibilità di utilizzo
di questi vitigni?
A questo
punto è indispensabile fare una distinzione.
Esiste un
gruppo di vitigni (poche decine) che a noi piace definire “italici
tradizionali”, alcuni coltivati da lungo tempo in ambienti vocati e che danno
origine a grandi e famosi vini (es. nebbiolo, barbera, sangiovese,
verdicchio, prosecco, refosco, ecc.), altri di fama più
recente (anche se, quasi sempre di origine antica) che la ricerca e la
lungimiranza di alcuni produttori in questi ultimi anni ha contribuito a
caratterizzare e valorizzare, come ad esempio greci, fiano, falangina,
aglianico, nero d’Avola, vermentino, primitivo, negroamaro,
ecc.
Questi
vitigni costituiscono un patrimonio genetico eccezionale che consente
all’Italia di produrre una gamma di vini originali e tipici come nessuna
altra nazione al mondo.
Accanto a
questi però sono stati recuperati un numero elevatissimo di vecchi vitigni
locali che sulla base dei primi risultati dei numerosi lavori di
caratterizzazione sia viticola che enologica hanno dimostrato spesso mediocri
potenzialità enologiche e per questo motivo solo una percentuale modesta ha
trovato o potrà trovare uno spazio di un certo interesse nel panorama viticolo
italiano.
I
possibili utilizzi potrebbero essere:
- In produzioni di vini di qualità come unico vitigno o comunque come vitigno principale e caratterizzante il prodotto. Possiamo ricordare ad esempio il prosecco lungo, il pignolo, lo schioppettino, il tazzelenghe, il piculit neri del Friuli, l’uva Longanesi dell’Emilia Romagna, il casavecchia in Campania, il pugnitello in Toscana, l’antinello in Puglia e nel secondo la boschera nel Doc di Fregona, la pedevenda nel Torcolato di Breganze, lo scimiscià del Piemonte, il malbo gentile in Emilia Romagna, ecc.
- Come vitigno secondario con lo scopo di caratterizzare in modo più significativo una determinata produzione tipica. E’ il caso ad esempio dell’ oseleta nell’Amarone, del foglia tonda in Toscana, dello zagarese in Puglia, ecc.
- In conclusione i numerosi e importanti lavori di sperimentazione condotti in quest’ultimo trentennio hanno confermato alcuni fondamentali principi e hanno rafforzato alcune nostre convinzioni:
- o l’importanza del vitigno (sia esso internazionale, nazionale o locale) nel caratterizzare le produzioni enologiche;
o l’esistenza di un importante
gruppo di vitigni “italici” in grado di dare origine a produzioni enologiche
tipiche di elevata qualità;
o la presenza di alcuni vecchi
vitigni locali minori degni di interesse che potranno giocare un loro ruolo se
opportunamente controllati e sperimentati.
In questa visione diventa
quindi fondamentale l’opera del mondo della ricerca che è da tempo
particolarmente sensi
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