lunedì 8 aprile 2019

LA NASCITA DELL’ESPRESSO ITALIANO


LA NASCITA

DELL’ESPRESSO 
ITALIANO 

L’Espresso Italiano nacque dalla povertà e dall’ingegno per donare piacere all’umanità e rappresentò una vera rivoluzione nel settore del caffè 


Da noi la povertà ha sposato sovente l’ingegno per offrire un’innovazione di buon gusto. Detto così si rasenta la retorica, ma mai come nel caso dell’Espresso Italiano questo è veritiero. 

In altri numeri di questa rivista abbiamo trattato di come per tre secoli il mondo abbia cercato il metodo per fare un caffè potente, rapido e piacevole. 
Alla rapidità ci si arrivò ben presto: bastava mettere acqua bollente su polvere di caffè ed ecco la bevanda. Ma il risultato era tutt’altro che piacevole. Anche la potenza fu raggiunta senza troppa difficoltà: già nell’Ottocento Brillat Savarin la codificò mediante la regola della ribollitura. Ma anche qui non si poteva certo parlare di un caffè piacevole. L’obiettivo della piacevolezza si raggiunse mediante diversi tipi di caffettiere che vennero messe a punto tra il 1600 e il 1900, però a scapito della potenza e della rapidità. L’invenzione dell’espresso è quindi da considerarsi una vera rivoluzione nel campo del caffè, ma non bisogna pensare che si perda nella notte dei tempi. Se è vero che, nel 1857, compare all’esposizione di Brescia la caffettiera a pressione di vapore di Giovanni Maria Loggia in grado di erogare un caffè decisamente potente e che nel 1884 Angelo Moriondo brevetta, utilizzando lo stesso principio, una macchina ben più grande, adatta ai pubblici esercizi, il profilo del caffè che si otteneva era decisamente diverso dall’attuale. L’uso della pressione si presentava come la soluzione ottimale per raggiungere la rapidità di esecuzione, ma anche e soprattutto consentiva di esaurire meglio il caffè, con conseguente forte riduzione dei consumi di polvere che, in una nazione povera con me la nostra, costituiva un fatto di estremo interesse. Il risultato in tazza non era però dei migliori: la bevanda si presentava nera e senza crema, di corpo modesto e di aroma confinato nel tostato in quanto i caratteri più delicati venivano azzerati dalla temperatura elevata. 
Fino qui possiamo quindi parlare di proto-espresso: era chiaro che la pressione andava bene, ma occorreva trovare un’altra forza per generarla. Nel 1935 Illy ebbe l’idea dell’aria compressa, confermando così la tesi. Ma per trovare al bar una tazzina che si avvicina sensorialmente a quella di oggi, apprezzata in tutto il mondo, dobbiamo attendere il dopoguerra con la nascita della macchina a leva di Achille Gaggia e, definitivamente, il 1960 con l’applicazione della pressione idraulica continua che portò alla costruzione della E61 della Faema. 
Per comprendere le origini dell’Espresso Italiano è però necessario fare un passo indietro di un secolo. Infatti, se trovare una forza capace di imprimere una certa pressione all’acqua non fu facile, non da meno fu la creazione di un panello di polvere in grado di resistervi senza lacerarsi consentendo all’acqua vie preferenziali che le permettono di attraversarlo senza fare bottino dei preziosi costituenti contenuti nella polvere. È forse qui che entra in ballo, ancor più che nella meccanica, la genialità e il buon gusto italiano, perché quando si trovò la forma di pressione giusta ad attenderla c’era già la miscela, elemento cardine dell’Espresso Italiano. Nel suo manuale del 1845 il medico Antonio Picardi tratta con dovizia di particolari della miscela come sistema inderogabile per migliorare la qualità del prodotto in tazza, delle caratteristiche delle diverse origini e di come si migliorano a vicenda, e persino dell’utilità di tostare le medesime separatamente con livelli di cottura differenti. Non essendoci ancora le macchine a pressione non poteva prevedere che la miscela avrebbe anche risolto il problema della tenuta in quanto in macinatura i diversi tipi di caffè creano fibre differenti per forma e dimensione, costituendo un intreccio che dona robustezza. All’epoca del Picardi le miscele si ottenevano dalla sola specie Arabica in quanto la Robusta fece la sua comparsa sul mercato solo nel 1925. Costituì di fatto una nuova riduzione della qualità della tazzina, già compromessa dalle modalità di preparazione sempre più rivolte a alla riduzione della dose di polvere per risparmiare sull’uso del coloniale reso meno reperibile anche dall’autarchia. Si presume quindi che nei primi decenni del secolo scorso la qualità abbia avuto un decadimento, ma l’avvento delle macchine di cui abbiamo parlato e la successiva liberalizzazione dei mercati, unitamente all’aumento della ricchezza, portò all’attuale risultato. Un contributo non indifferente al miglioramento della qualità lo diede anche il perfezionamento dei macinadosatori che consentivano via via di standardizzare curve granulometriche sempre più precise e la conseguente riduzione della polvere ai 7 grammi attuali. Davvero un bel risparmio rispetto ai 13/15 grammi necessari per la preparazione del proto-espresso. L’Espresso Italiano può considerarsi a tutti gli effetti un’opera di ingegno in quanto nasce in una nazione in cui scarseggiano tutti gli elementi per la sua produzione: i metalli per le attrezzature, le risorse finanziarie per l’acquisto della materia prima e persino le fonti energetiche indispensabili per la tostatura. Mancando di carbone, i nostri torrefattori dovevano aggiustarsi con la legna, nonostante neppure i boschi fossero abbondanti. Fino a metà degli anni Sessanta dobbiamo quindi immaginarci veri virtuosismi nella tostatura per evitare che vampate improvvise producessero note empireumatiche con conseguenti note di fumo e di bruciato in tazza. La questione era ben più critica al Nord dove si continuava a propendere per le tostature chiare e l’Arabica che, come si sa, è molto più sensibile al calore rispetto alla Robusta. In effetti se l’espresso era amato dall’Italia intera, non tutta l’Italia amava lo stesso espresso. La cultura gastronomica delle diverse regioni si rifletteva anche sulla tazzina inducendo i torrefattori a proporre miscele ad hoc per accontentare la clientela. 

Ecco perché i tentativi della fine degli anni Ottanta (e successivi) di normare l’italica tazzina attraverso la ricetta della miscela e le regole della tostatura fallirono. Ma nel 1993 nacque l’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè che cominciò a studiare l’espresso sotto il profilo sensoriale attraverso tecniche scientifiche relazionando le attese del consumatore al profilo oggettivo del caffè in tazza. 
Questo consentì all’Istituto Nazionale Espresso italiano, fondato nel 1998, di giungere a una certificazione di prodotto sulla base di un profilo di conformità capace di garantire il piacere all’utente finale. L’impresa risultava di riuscita improbabile perché, come abbiamo detto, non si trattava di un prodotto omogeneo, bensì di caffè con profili sensoriali molto distanti tra loro in quanto figli di un’Italia che si estende per 10 paralleli (dal 37° al 47°) e, in senso longitudinale, per 11 meridiani (dal 7° al 18°). Un’Italia in cui l’identità dei singoli stati che l’avevano composta - non di rado affetti da cronica autarchia e quindi abituati a generare cucine in funzione di quello che trovano nell’orto, nel cortile e nella stalla - si rifletteva pesantemente sui gusti della rispettiva gente. L’Inei raccolse la sfida, con l’intento di non ridurre questa enorme ricchezza prodotta dalle culture locali, ma addirittura di enfatizzarla. Ed ecco che il profilo di conformità generato permette di avere molti volti della qualità, tazzine diverse, ma sempre capaci di donare piacere.  
da L'ASSAGGIO 

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