Il caffè in Italia
fa davvero schifo?
La denuncia
che ha fatto rumore
(e dato fastidio)
Alla fiera Host di Milano, la divulgatrice Valentina Palange ha visto sparire la sua pagina Instagram proprio nel giorno in cui presentava la versione inglese del suo libro “Il caffè in Italia fa schifo”. Un segnale, dice lei, di quanto certe verità diano fastidio. Oggi chiede più coraggio, formazione e rispetto per chi il caffè lo produce e lo beve davvero
Redattore
Certe volte dire la verità può dare fastidio. Soprattutto quando quella verità tocca un sistema che da anni si racconta perfetto, ma che perfetto non è. È quello che è successo a Valentina Palange, divulgatrice del caffè, consulente e autrice del libro "Il caffè in Italia fa schifo", una denuncia frontale contro la diffusa mediocrità che domina la filiera italiana, dal chicco alla tazzina. Il 17 ottobre, mentre a Milano si apriva la fiera internazionale Host, qualcuno ha provato a farla tacere.
Proprio mentre era pronta a presentare la versione inglese del suo saggio, la sua pagina Instagram “Specialty PaL” - seguita da migliaia di persone e punto di riferimento per chi vuole capire davvero cosa c’è dietro un espresso - è stata infatti hackerata e cancellata. «Primo giorno di fiera, lancio del libro in inglese, e mi buttano giù la pagina. Non mi pare una coincidenza» racconta con amarezza a Italia a Tavola. «È stato un colpo, certo, ma non mi sono fermata. Se pensavano di farmi tacere, hanno sbagliato persona».
Una voce libera che dà fastidio
Valentina, nata a Taranto e ormai di casa a Milano, ha incontrato il caffè per caso: prima nelle vendite, poi dietro al bancone, dove ha imparato a conoscerlo davvero. Oggi è una delle voci più seguite del comparto, campionessa italiana di AeroPress 2024 e quarta classificata ai campionati barista della Specialty Coffee Association. Ma più di tutto è una voce libera, e questo dà fastidio: «Il mio libro racconta quello che tanti nel comparto non vogliono sentirsi dire. In Italia, nella maggior parte dei bar, beviamo caffè mediocre. E il problema non è solo nei baristi, ma in tutta la filiera: materie prime scadenti, tostature sbagliate, disinformazione e mancanza di formazione. È un sistema che si regge sull’abitudine, non sulla qualità».

L’attacco al suo profilo è arrivato nel momento più visibile della sua carriera, proprio quando il libro tradotto in inglese stava per raggiungere un pubblico internazionale: «Ho parlato con Meta, mi hanno confermato che non si tratta di un errore tecnico né di segnalazioni di massa. È stato un attacco mirato. E sì, penso che c’entri con quello che scrivo. Il caffè in Italia fa schifo è un titolo che molti non perdonano». Nonostante tutto, Palange non ha arretrato di un millimetro. Ha riaperto un profilo nuovo e ha continuato a denunciare: «Mi hanno tolto un account, non la voce. E se qualcuno crede di potermi spaventare, dovrà provarci meglio».
Nel caffè si fa disinformazione da anni
Il suo libro, uscito lo scorso maggio, è una fotografia cruda del sistema italiano del caffè: una filiera spesso opaca, che si regge sulla retorica dell’espresso perfetto ma offre, nella maggior parte dei casi, un prodotto di scarsa qualità: «Oggi in gran parte dei bar italiani beviamo caffè mediocre. L’aumento dei costi della materia prima ha peggiorato ancora di più la situazione: si risparmia sul chicco, e il risultato si sente in tazza». Le reazioni al libro sono state immediate. C’è chi l’ha accusata di essere anti-italiana, e chi l’ha ringraziata: «Molti mi hanno detto: finalmente qualcuno lo dice. Perché è così: nel caffè si fa disinformazione da anni, e la gente non sa nemmeno cosa sta bevendo».

«Le torrefazioni - prosegue - comprano spesso caffè verde di bassissima qualità per risparmiare, e i bar non sanno gestire i conti. C’è chi oggi vende una tazzina a 50 centesimi: è follia pura. Non si fa del bene né alla filiera né al proprio business». I dati dicono tutto: in dieci anni, in Italia, hanno chiuso più di 20mila bar. «E continueranno a chiudere. Se non si fanno i conti per davvero, se non si pianifica con un business plan serio, non si va da nessuna parte. Il futuro sarà dei locali che puntano sulla qualità, non sul prezzo». E respinge un’etichetta che le è stata spesso affibbiata: «Non sono contro la miscela italiana, anzi. Mi piace. Ma voglio che sia fatta bene, con materia prima selezionata e tostatura corretta. La miscela non è il problema: lo è chi la rovina».
Il cambiamento deve partire dal basso
Per lei il nodo è anche culturale: «Molti dicono che la formazione deve partire dalle aziende. Io credo il contrario: deve partire dal basso, dal consumatore. È lui che deve smettere di accettare un espresso bruciato o amaro. Come mandiamo indietro una pizza mal fatta, dovremmo fare lo stesso con il caffè». È un gesto piccolo, ma rivoluzionario: «Se il cliente comincia a pretendere qualità, allora il barista e la torrefazione sono costretti a cambiare. Ma se non c’è attenzione, nessuno ha interesse a migliorare. Per questo dico che il caffè è politica: riguarda tutti, ogni giorno».
Gli italiani, aggiunge, hanno smesso di interrogarsi su ciò che bevono: «Beviamo il caffè solo per svegliarci. Siamo abituati a quel sapore amaro e bruciato e pensiamo che sia normale. Ma non lo è. Il caffè entra nel nostro corpo e merita rispetto, come qualsiasi altro alimento. Dietro una tazzina ci sono mani, fatica, raccolta, processi di lavorazione che quasi nessuno conosce».
Come riconoscere un buon caffè
Per chi vuole imparare a distinguere la qualità, Palange parte dalle basi: «La prima cosa da guardare è la macchina del bar: se è sporca, se la lancia a vapore è incrostata, scappa. Quella ti dice tutto sul tipo di caffè che ti serviranno». Poi, informarsi: «Chiedere che miscela viene utilizzata, da dove arriva. Se non sanno rispondere, è già una risposta. Anche a casa, al supermercato, scegliete caffè tracciabili: sapere da dove viene è il primo passo verso la qualità».

E sul gusto: «Un espresso non deve essere solo amaro. Deve essere equilibrato, con un minimo di dolcezza e un po’ di acidità. In Italia confondiamo l’acido con il rancido: il caffè bruciato è quello che ti lascia tachicardia e bruciore di stomaco, ma continuiamo a chiamarlo "buono"».
Una voce che non si spegne
Il problema, alla fine, è sempre lo stesso: abbiamo trasformato il caffè in un’abitudine e smesso di considerarlo un prodotto da conoscere, studiare e rispettare. Eppure basterebbe poco per invertire la rotta, come ricorda Valentina Palange: imparare a guardare, chiedere, riconoscere. Il caffè, in Italia, non è solo una bevanda: è un gesto collettivo, un rito quotidiano, quasi un simbolo nazionale. Ma un simbolo, se svuotato di significato, perde valore.
Continuare a ripeterci che «l’espresso italiano è il migliore del mondo» mentre in molti servono caffè bruciati e privi di identità è un’illusione comoda, ma pericolosa. Le parole di Palange non sono un attacco, sono uno specchio: mostrano un Paese che ha smesso di interrogarsi sulla qualità, rifugiandosi nella nostalgia di un mito. Guardarsi dentro può far male, ma è l’unico modo per cambiare davvero. Perché quando si smette di accettare la mediocrità, non migliora solo una tazzina: cresce un’intera cultura.


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