In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno
Negli ultimi 10 anni hanno abbassato la serranda oltre 21mila bar, ma continuare a parlare solo di bollette e rincari è un alibi. Il vero nodo è culturale: un sistema che trasforma il locale in un pacchetto chiavi in mano (con il comodato d’uso delle attrezzature per il caffè), svuotando il mestiere di competenze e conoscenza del prodotto, che dovrebbe rappresentare l’Italia
Negli ultimi dieci anni più di 21mila bar italiani hanno cessato l'attività (più o meno, sei al giorno) e nel solo primo semestre del 2025 il saldo tra aperture e chiusure è stato negativo per 706 unità. E poi: quasi il 50% dei bar aperti in Italia non sopravvive nemmeno a cinque anni dall’inaugurazione. Sono alcuni degli elementi emersi durante l'evento "Il futuro del bar italiano", promosso il 20 ottobre scorso da Fipe-Confcommercio nell'ambito di “Host”, la fiera internazionale dell'accoglienza e della ristorazione di Milano. I dati resi pubblici sono allarmanti e drammatici.

E come spesso accade in questi casi la maggior parte degli addetti ai lavori non è riuscita ad andare oltre a un’analisi superficiale e a qualche frase di rito, di quelle che si dicono in questi casi: serve un cambio di marcia; bisogna lavorare sulla formazione; urge fare più attenzione ai costi sempre più alti. Servirebbe, però, anche far presente che, dopo anni nei quali ci si è limitati ad analisi e titoli allarmati, è tempo di guardare in faccia la realtà per dire una volta per tutte che la crisi dei bar italiani non è figlia soltanto dei rincari, delle bollette o delle materie prime più costose. Questi fattori pesano, ma non bastano a spiegare un settore che perde ogni anno migliaia di attività. La vera questione sta altrove, e riguarda - nella stragrande maggioranza dei casi - il modo in cui i bar vengono aperti, gestiti e sostenuti.
Il comodato d’uso gratuito è un cancro
per la qualità del caffè
Negli ultimi decenni si è assistito a una trasformazione silenziosa, ma profonda: aprire un bar è diventato quasi facile. Complice un sistema che, di fatto, abbassa le barriere d’ingresso al punto da svuotare di senso la parola “imprenditore”. Molte torrefazioni industriali - quasi tutte, ormai - offrono pacchetti completi: comodato d’uso gratuito per macchinari e attrezzature, accessori, arredi, perfino finanziamenti per ristrutturare il locale. Il tutto in cambio di un contratto pluriennale che obbliga il barista di turno ad acquistare almeno tot caffè di quella torrefazione ogni anno. Si tratta di una strategia commerciale legale - è bene dirlo - ed efficace per spingere la diffusione del proprio marchio, ma che ha avuto un effetto collaterale devastante: negli ultimi 50-60 anni ha trasformato il bar in un prodotto “chiavi in mano”, un’impresa senza imprenditorialità.

Oggi chiunque può aprire un locale senza dover investire cifre rilevanti né possedere competenze specifiche. Basta firmare un contratto con la torrefazione giusta, ricevere la macchina da espresso, il macinacaffè, i tavolini con l’ombrellone, e iniziare a servire tazzine. Peccato che dietro quei due tasti della macchina (che vengono velocemente spiegati dall’istruttore di turno al novello barista) ci sia un mondo intero che molti non conoscono. Gran parte dei nuovi gestori non ha formazione, non conosce la materia prima che tratta quotidianamente. Non sa distinguere un caffè colombiano da uno brasiliano (a volte non sa nemmeno che esistono provenienze diverse), ignora cosa significhi un’arabica etiope o un robusta indonesiana, non ha idea di cosa comporti una tostatura chiara o scura. Si limita a replicare gesti, a premere pulsanti, a versare liquido nero in una tazzina che spesso il cliente giudica solo in base all’amarezza. Eppure il caffè, quello vero, non è sinonimo di amaro né di forza, ma di equilibrio, profumo, aromi. È cultura e non routine.
Un problema che riguarda anche il consumatore finale
Questo vuoto di conoscenza non riguarda solo i baristi. È un problema che attraversa la filiera e tocca anche il consumatore medio, che continua a pensare che “l’espresso italiano” sia per definizione il migliore del mondo. Una convinzione comoda, ma non più vera (se mai lo è stata). Negli ultimi anni, mentre in Australia, Stati Uniti, Scandinavia, Asia o Canada si sperimentavano metodi di estrazione, nuove tostature e filiere trasparenti, in Italia ci si è seduti sul mito dell’espresso perfetto, smettendo di studiare, di innovare, di raccontare la materia prima.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: attività che cadono come mosche e un tasso di chiusura del 47% entro i primi cinque anni di attività. Eppure quasi nessuno si chiede quanti di quei bar erano nati su basi fragili, gestiti da persone che non avevano mai toccato un portafiltro prima di firmare un contratto di comodato. Come se un contabile, dopo una vita passata tra numeri e bilanci, decidesse di aprire una pizzeria senza aver mai creato un impasto, senza conoscere il mondo delle farine, senza saper accendere un forno: che futuro potrebbe avere la sua attività? È troppo comodo ridurre tutto a bollette e inflazione. Se un locale nasce senza conoscenza, senza visione, senza cultura del prodotto, prima o poi va a sbattere. Non (solo) per il caro energia, ma per assenza di valore.
Esistono anche torrefazioni che puntano sulla qualità
Attenzione: le eccezioni esistono, e vanno riconosciute. Ci sono torrefazioni industriali serie, che non offrono il comodato d’uso, che investono in formazione, che propongono caffè selezionati e trasparenti per origine e qualità. Realtà che lavorano bene, spesso in silenzio, puntando a educare il cliente e a crescere insieme ai propri partner. E anche grandi caffetterie che studiano, ricercano e offrono grandi caffè, estratti anche con metodi alternativi. Ma, inutile nasconderlo, sono mosche bianche in un mercato dove conta di più piazzare macchine e kg di caffè piuttosto che diffondere cultura.
Il paradosso più facile da vedere si è manifestato proprio in questi giorni. Durante “Host” si è svolto anche il World Barista Championship, la competizione che ogni anno incorona il miglior barista del mondo. Un evento che, in qualunque altro Paese, trova titoli di giornali e dirette social. In Italia è passato quasi inosservato. Chi si aggirava tra gli stand di MilanoFiera non ha perso il pizzaiolo che lanciava l’impasto o il pasticcere che presentava il primo panettone dell’anno, ma davanti ai campioni del caffè, australiani, cinesi, danesi, malesiani, canadesi e giapponesi, i visitatori erano piuttosto pochi.

Così, martedì 21 ottobre è stato incoronato Jack Simpson, australiano, nuovo campione del mondo della categoria baristi. E quasi nessuno, nemmeno tra gli addetti ai lavori italiani, se n’è accorto. Questo silenzio è emblematico: racconta un Paese che considera il caffè un’abitudine, non una cultura. Un Paese che ne ha fatto un simbolo identitario, ma non sa più cosa c’è dentro quella tazzina. E così, mentre nel resto del mondo si studia, si sperimenta, si investe nella qualità, in Italia si continua a confondere la tradizione con l’immobilismo.
Basta analizzare le chiusure, chiediamoci
come si apre un bar
Forse è arrivato il momento di smettere di analizzare superficialmente le statistiche delle chiusure e di interrogarsi su come e perché si aprono i bar. Perché la crisi del settore non si risolverà finché continueremo a considerare il bar come un’attività per tutti, alla portata di chiunque, sostenuta da contratti comodi e scorciatoie commerciali. Una caffetteria - perché è bene anche chiamarla col suo nome ogni tanto - non è una slot machine dove sperare che esca il numero giusto. È un’azienda vera e propria che diventa mestiere, responsabilità, anche presidio culturale. Il problema, insomma, non è che i bar chiudono. Il problema è come vengono aperti. E finché non affronteremo questa verità scomoda, mettendo le vere cause sul tavolo degli imputati, continueremo a confondere la quantità con la qualità, l’espresso con il caffè, e la sopravvivenza con il successo.


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