domenica 26 ottobre 2025

In Italia i bar muoiono perché...

 

In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno

Negli ultimi 10 anni hanno abbassato la serranda oltre 21mila bar, ma continuare a parlare solo di bollette e rincari è un alibi. Il vero nodo è culturale: un sistema che trasforma il locale in un pacchetto chiavi in mano (con il comodato d’uso delle attrezzature per il caffè), svuotando il mestiere di competenze e conoscenza del prodotto, che dovrebbe rappresentare l’Italia

di Luca Bassi
24 ottobre 2025 | 14:38
In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno

Negli ultimi dieci anni più di 21mila bar italiani hanno cessato l'attività (più o meno, sei al giorno) e nel solo primo semestre del 2025 il saldo tra aperture e chiusure è stato negativo per 706 unità. E poiquasi il 50% dei bar aperti in Italia non sopravvive nemmeno a cinque anni dall’inaugurazione. Sono alcuni degli elementi emersi durante l'evento "Il futuro del bar italiano", promosso il 20 ottobre scorso da Fipe-Confcommercio nell'ambito di “Host”, la fiera internazionale dell'accoglienza e della ristorazione di Milano. I dati resi pubblici sono allarmanti e drammatici.

In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno

Negli ultimi dieci anni più di 21mila bar italiani hanno cessato l'attività

come spesso accade in questi casi la maggior parte degli addetti ai lavori non è riuscita ad andare oltre a un’analisi superficiale e a qualche frase di ritodi quelle che si dicono in questi casi: serve un cambio di marciabisogna lavorare sulla formazioneurge fare più attenzione ai costi sempre più altiServirebbe, però, anche far presente che, dopo anni nei quali ci si è limitati ad analisi e titoli allarmati, è tempo di guardare in faccia la realtà per dire una volta per tutte che la crisi dei bar italiani non è figlia soltanto dei rincaridelle bollette o delle materie prime più costose. Questi fattori pesano, ma non bastano a spiegare un settore che perde ogni anno migliaia di attività. La vera questione sta altrove, e riguarda - nella stragrande maggioranza dei casi - il modo in cui i bar vengono apertigestiti e sostenuti.

Il comodato d’uso gratuito è un cancro 

per la qualità del caffè

Negli ultimi decenni si è assistito a una trasformazione silenziosama profondaaprire un bar è diventato quasi facileComplice un sistema che, di fatto, abbassa le barriere d’ingresso al punto da svuotare di senso la parola “imprenditore”. Molte torrefazioni industriali - quasi tutte, ormai - offrono pacchetti completicomodato d’uso gratuito per macchinari e attrezzatureaccessoriarrediperfino finanziamenti per ristrutturare il localeIl tutto in cambio di un contratto pluriennale che obbliga il barista di turno ad acquistare almeno tot caffè di quella torrefazione ogni annoSi tratta di una strategia commerciale legale - è bene dirlo - ed efficace per spingere la diffusione del proprio marchioma che ha avuto un effetto collaterale devastantenegli ultimi 50-60 anni ha trasformato il bar in un prodotto “chiavi in mano”, un’impresa senza imprenditorialità.

In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno

Il comodato d’uso ha ucciso la cultura del caffè.

Oggi chiunque può aprire un locale senza dover investire cifre rilevanti né possedere competenze specificheBasta firmare un contratto con la torrefazione giustaricevere la macchina da espresso, il macinacaffè, i tavolini con l’ombrellone, e iniziare a servire tazzinePeccato che dietro quei due tasti della macchina (che vengono velocemente spiegati dall’istruttore di turno al novello barista) ci sia un mondo intero che molti non conosconoGran parte dei nuovi gestori non ha formazionenon conosce la materia prima che tratta quotidianamenteNon sa distinguere un caffè colombiano da uno brasiliano (a volte non sa nemmeno che esistono provenienze diverse), ignora cosa significhi un’arabica etiope o un robusta indonesiananon ha idea di cosa comporti una tostatura chiara o scuraSi limita a replicare gestia premere pulsantia versare liquido nero in una tazzina che spesso il cliente giudica solo in base all’amarezza. Eppure il caffè, quello vero, non è sinonimo di amaro né di forzama di equilibrioprofumoaromiÈ cultura e non routine.

Un problema che riguarda anche il consumatore finale

Questo vuoto di conoscenza non riguarda solo i baristiÈ un problema che attraversa la filiera e tocca anche il consumatore medioche continua a pensare che “l’espresso italiano” sia per definizione il migliore del mondoUna convinzione comodama non più vera (se mai lo è stata). Negli ultimi annimentre in AustraliaStati UnitiScandinaviaAsia o Canada si sperimentavano metodi di estrazionenuove tostature e filiere trasparentiin Italia ci si è seduti sul mito dell’espresso perfettosmettendo di studiaredi innovaredi raccontare la materia prima.

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Il mito dell’espresso perfetto ci ha resi ignoranti.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tuttiattività che cadono come mosche e un tasso di chiusura del 47% entro i primi cinque anni di attivitàEppure quasi nessuno si chiede quanti di quei bar erano nati su basi fragiligestiti da persone che non avevano mai toccato un portafiltro prima di firmare un contratto di comodato. Come se un contabile, dopo una vita passata tra numeri e bilanci, decidesse di aprire una pizzeria senza aver mai creato un impasto, senza conoscere il mondo delle farine, senza saper accendere un forno: che futuro potrebbe avere la sua attività? È troppo comodo ridurre tutto a bollette e inflazioneSe un locale nasce senza conoscenzasenza visionesenza cultura del prodottoprima o poi va a sbattereNon (solo) per il caro energiama per assenza di valore.

Esistono anche torrefazioni che puntano sulla qualità

Attenzionele eccezioni esistonoe vanno riconosciuteCi sono torrefazioni industriali serieche non offrono il comodato d’usoche investono in formazioneche propongono caffè selezionati e trasparenti per origine e qualitàRealtà che lavorano bene, spesso in silenzio, puntando a educare il cliente e a crescere insieme ai propri partner. E anche grandi caffetterie che studiano, ricercano e offrono grandi caffè, estratti anche con metodi alternativi. Ma, inutile nasconderlo, sono mosche bianche in un mercato dove conta di più piazzare macchine e kg di caffè piuttosto che diffondere cultura.

Il paradosso più facile da vedere si è manifestato proprio in questi giorniDurante “Host” si è svolto anche il World Barista Championshipla competizione che ogni anno incorona il miglior barista del mondo. Un evento che, in qualunque altro Paese, trova titoli di giornali e dirette socialIn Italia è passato quasi inosservatoChi si aggirava tra gli stand di MilanoFiera non ha perso il pizzaiolo che lanciava l’impasto il pasticcere che presentava il primo panettone dell’anno, ma davanti ai campioni del caffèaustralianicinesidanesimalesianicanadesi e giapponesii visitatori erano piuttosto pochi.

In Italia i bar muoiono perché ormai chiunque può aprirne uno

In Italia il caffè è un rito, non una cultura.

Cosìmartedì 21 ottobre è stato incoronato Jack Simpson, australiano, nuovo campione del mondo della categoria baristi. E quasi nessunonemmeno tra gli addetti ai lavori italianise n’è accortoQuesto silenzio è emblematicoracconta un Paese che considera il caffè un’abitudinenon una culturaUn Paese che ne ha fatto un simbolo identitarioma non sa più cosa c’è dentro quella tazzina. E cosìmentre nel resto del mondo si studiasi sperimentasi investe nella qualitàin Italia si continua a confondere la tradizione con l’immobilismo.

Basta analizzare le chiusure, chiediamoci 

come si apre un bar

Forse è arrivato il momento di smettere di analizzare superficialmente le statistiche delle chiusure e di interrogarsi su come e perché si aprono i barPerché la crisi del settore non si risolverà finché continueremo a considerare il bar come un’attività per tuttialla portata di chiunquesostenuta da contratti comodi e scorciatoie commercialiUna caffetteria - perché è bene anche chiamarla col suo nome ogni tanto - non è una slot machine dove sperare che esca il numero giustoÈ un’azienda vera e propria che diventa mestiereresponsabilitàanche presidio culturale. Il problema, insomma, non è che i bar chiudono. Il problema è come vengono aperti. E finché non affronteremo questa verità scomoda, mettendo le vere cause sul tavolo degli imputati, continueremo a confondere la quantità con la qualità, l’espresso con il caffè, e la sopravvivenza con il successo.

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