Vino italiano,
la resa dei conti:
i piccoli produttori pagano la crisi
Il calo dei consumi interni, il rallentamento dell’export e l’inerzia del sistema stanno spingendo il settore verso un punto di non ritorno. Le grandi aziende resistono, i piccoli rischiano di saltare. E la poesia del vigneto non basta più a salvarli. Serve ridurre le etichette, prezzi accessibili e convivialità
Il vino italiano non è “in difficoltà”: è in una crisi vera, profonda e cominciata ben prima della pandemia. Da almeno sette anni, i segnali erano chiari: calo dei consumi interni, stagnazione nei mercati esteri maturi e una governance di filiera troppo impegnata a fare brindisi per accorgersene. Oggi il settore è seduto su una bomba a orologeria e far finta che basti qualche sconto o una campagna social per salvarsi è, semplicemente, suicida. I segnali forti di una evidente e pericolosa difficoltà ci sono da tempo, ma cause sono state spesso avventatamente e sdegnosamente ignorate. Eppure il vino costituisce uno dei pilastri del sistema agroalimentare nazionale e la sua produzione, la sua commercializzazione e tutto quanto a ciò collaterale, costituiscono quel wine business vanto del made in Italy che non possiamo permetterci di mettere a rischio, magari solo per ignavia.
Il vino, pilastro del made in Italy
La produzione vitivinicola è eterogenea, formata da un variegato panorama di realtà produttive che esitano prodotti, diciamo “bottiglie” tra loro molto diverse sia in termini di caratteristiche intrinseche, sia in termini di reputazione. Tutto ciò posto in premessa, proviamo a proseguire mediante highlights allo scopo di tracciare uno scenario dal quale far scaturire, posto che ci sia volontà, spunti di riflessione.

La caduta tendenziale dei consumi è strutturale
Non vorremmo apparire pignoli (!), ma se non ci esprimiamo esattamente così: “caduta tendenziale del consumo di vino”, non rendiamo con il necessario rigore il fenomeno al cui cospetto ci troviamo. Che nel nostro Paese il consumo pro-capite sia in decremento da decenni, è fatto noto. Praticamente ciò è in essere sin dalla fine del dopoguerra, da quando, per dirla bene, il vino cessava di essere alimento (il fiasco da portarsi in campagna quando si lavorava la terra con la fatica contadina di un tempo che fu) e cominciava a diventare bevanda edonistica.
Poi il big bang del metanolo, e poi... lo sappiamo quel “poi” a cosa ci ha portato! I decenni aurei del wine business sono dovuti all’enorme espansione del mercato world wide: Europa e USA innanzitutto. I problemi si evidenziano quando anche in questi mercati, la cui espansione sembrava essere senza fine, hanno cominciato a dare segni di (attenzione !): decremento della crescita. Perché “attenzione”? Perché, anche qui dobbiamo essere rigorosi, il decremento della crescita che in tutta ovvietà non significa “decrescita”, ovvero non significa “riduzione dei consumi” è già un significativo early warning (segnale precoce). Il top management del wine business, se solo avesse voluto adempiere alle sue responsabilità, non avrebbe dovuto colposamente ignorare questo early warning. Insomma, che il calo del consumo pro-capite e, insieme ad esso, il decremento della crescita dei consumi world wide, fosse fenomeno evidente e praticamente consolidato, ha data certa di inizio nell’anno 2018.
Sfide economiche del settore vitivinicolo
“Fare” il vino, questo processo le cui più vistose ed importanti macrofasi contemplano due “ambienti” tanto distinti quanto in evidente interdipendenza: il vigneto e la cantina, sta diventando cosa sempre più complessa a fronte dei cambiamenti climatici.

Ciò comporta la necessità di nuovi investimenti, non solo in tecnologia ma anche in nuove competenze, nuove professionalità. In altre parole: portare in casa expertise e know-how che difficilmente sono già in casa solo perché... quello lì è della famiglia (!). Non a caso, va detto, le big company del vino soffrono meno dei piccoli produttori, abituati ad una conduzione familiare dove il sapere è semplicemente quello accumulato di generazione in generazione e non quello acquisito mediante studi specifici.
I mercati esteri non sono più la terra promessa
Anche l’export, che per anni ha drogato i numeri e tenuto in piedi le cantine, mostra segni di rallentamento: non è decrescita, è decremento della crescita. E chi fa business sa bene che quello è il campanello d’allarme più pericoloso.
Piccoli produttori: l'anello debole della filiera
E allora, ma stai a vedere, si capisce anche il motivo per il quale le vendite dei vini più economici sono crollate, mentre quelli di fascia alta resistono meglio? Detta diversamente: sia come sia, oggi il gusto della domanda, a sua volta da indirizzi dell’offerta pilotato, desidera vini fatti bene. E stai a vedere che oggi un vino fatto bene lo si ottiene solo attuando quel sapere specifico apportato da nuove e aggiornate competenze? Le grandi aziende sono più resilienti grazie alla diversificazione e ai capitali. I piccoli produttori saranno anche custodi della tradizione, pur non esimendosi dall’innovare, ma ahinoi sono vulnerabili alle crisi economiche e ambientali. Se non si interviene, il “Bel Paese tutto un vigneto” diventa una mappa di brand, non più di territori... Mentre le big company investono in know-how, tecnologia e diversificazione, i piccoli restano aggrappati a modelli familiari e tradizionali. Bellissimi da raccontare, fragili da sostenere. Basta una vendemmia difficile o un mercato in stallo e saltano.
L’influenza della salute sui consumi
Quando c’è la salute! Le preoccupazioni legate al consumo di alcol influenzano le abitudini dei consumatori. È palese, è pacifico, e... si vede ! Lo vedono tutti tranne quelli che non lo “vogliono vedere”. E allora bisogna fare i conti con i low alcol e i no alcol. Dura lex, sed lex! La questione low e no alcol non è un “effetto collaterale”: è una delle faglie sismiche principali del settore. Se l’Italia non guida questa transizione, altri lo faranno, e il rischio è finire a inseguire i trend invece che crearli. Serve parlarne non con fatalismo, ma con strategia: sperimentazione, comunicazione intelligente, posizionamento attivo.
Tre mosse minime per non morire di lentezza
E allora? Tre piccoli accorgimenti: solo tre, davvero piccoli, davvero accorgimenti e giammai comandamenti.
- Primo piccolo accorgimento: semplificare l’offerta. Ridurre la numerica delle etichette (che si debba ridurre anche la numerica delle bottiglie è discorso altro anch’esso di cogente attualità) concentrando l’offering su vini autentici e ben fatti. In pratica significa anche avere il coraggio di “uccidere” etichette inutili.
- Secondo piccolo accorgimento: abbassare i prezzi. Rendere il vino più accessibile, soprattutto ai giovani, non tanto a scaffale della GDO e del dettaglio specializzato, quanto soprattutto e prioritariamente al ristorante.E ciò va fatto non con sconti spot, ma con un ripensamento radicale dei canali distributivi e delle marginalità.
- Terzo piccolo accorgimento: eliminare lo snobismo. Rendere il vino più friendly, evitando l’approccio liturgico / sacerdotale, puntando nettamente sul piacere edonistico e sulla schietta convivialità. In pratica si devono formare ambasciatori del vino “pop” (sommelier inclusi), non solo catechisti del terroir.
Una visione strategica per il wine business
Sovente si dice, e l’affermazione è tutto sommato veritiera, che il nostro Bel Paese è tutto un vigneto (ci sono anche gli uliveti!). E allora, si sproni una gioiosa visione e si pensi ad un wine business che sappia mettere insieme capitale umano, connessioni tra le aziende vitivinicole (ci sarebbero i Consorzi!), densità imprenditoriale, finanza e università.

Quanta poesia nel vigneto, quale atmosfera introvabile altrove nelle bottaie, quei suoi profumi, quelle sue penombre. E però, il wine business, in momenti in cui il mare non è calmo e la tempesta è già qui, la soluzione germoglia da un contesto che unisce cultura, economia, infrastrutture, istituzioni locali (Consorzi inclusi) e, last but not least, il mercato.
Low e no alcol: la rivoluzione che molti fingono di non vedere
Il cambio di abitudini legato alla salute non è un dettaglio: è un terremoto. Mentre il mondo si attrezza per intercettare la domanda di prodotti low e no alcol, l’Italia guarda il cielo e cita la poesia del vigneto. Così, però, si perde la partita.
Quattro suggerimenti aggiuntivi
A quei tre piccoli accorgimenti, si aggiungono quattro piccoli suggerimenti:
- Favorire la crescita dimensionale
- Migliorare l’accesso ai servizi ad alta intensità di conoscenza
- Rafforzare le reti tra imprese e ricerca
- Sostenere la mobilità del capitale umano
Il vino simbolo di gioia e cultura
Il vino deve tornare a essere simbolo di gioia, condivisione e cultura, senza pretenziosità. Solo così può riconquistare il suo posto egemone sulle nostre tavole. Il vino non si salva però con i festival, le campagne romantiche o le degustazioni da templari del terroir. Si salva con una strategia industriale moderna, con reti, finanza, università e un marketing capace di parlare ai consumatori di oggi, non a quelli di 30 anni fa. Perché, diciamolo: la poesia non paga le bollette. O il vino diventa un business contemporaneo, o resterà un racconto nostalgico per le sagre di paese.


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