Delivery nei ristoranti stellati, Gennaro Esposito:
«Non possiamo
permettercela»
Fa il punto, dopo un anno di pandemia, lo chef bistellato de La Torre del Saracino. Parlando per sé, scarta la possibilità della consegna a domicilio: «Io devo deliziare il cliente che viene qui». Poi, sulle stelle verdi della Rossa, dice: «La sostenibilità dovrebbe essere un prerequisito per l'assegnazione delle stelle».
Vico Equense è il gate d’ingresso alla Penisola Sorrentina, borgo molto grazioso consta di frazioncine che vanno dagli oltre mille metri sopra il livello del mare del Villaggio Monte Faito, un selvoso frammento di Alpi con panorama tra i più belli del Creato, al "metro zero" della Marina di Seiano. Convivere lietamente con le onde del mare che lambiscono il vivere quotidiano è quanto accade a Gennaro Esposito, patron e chef bistellato de La Torre del Saracino, candidato al sondaggio Personaggio dell'anno di Italia a Tavola (clicca qui per votare). È sempre piacevole ed interessante conversare con Gennaro.
V: Ciao, caro Gennaro. Conosciuto nel mondo come chef, in quanti sanno che sei essere anfibio?
G: Ciao, Vincenzo. Sono un essere anfibio in momentaneo periodo sabatico ma conto di riprendere al più presto questa sana abitudine: la quotidiana nuotata mattutina a mare, il mare prospiciente La Torre del Saracino, al più presto.
V: Durante il primo lockdown, sia perché sospinto dalla base, ovvero dai tuoi colleghi, e sia perché cooptato anche dalle istituzioni locali, ti facesti diligente portavoce delle istanze del mondo della ristorazione campano. Cosa è cambiato da quel periodo, parliamo della primavera 2020, ad oggi, inverno 2020-2021?
G: Il primo lockdown ci portò al cospetto di qualcosa di inimmaginabile. Mica sapevamo, se non dalla storia, cosa significava nel concreto una pandemia! Pertanto aleggiava una grande preoccupazione per il presente e per il futuro e si cominciava a delineare l’esigenza di ricorrere ad aiuti atti a sopperire le difficoltà del momento ed il reddito dei nostri collaboratori. Mi assunsi responsabilmente il ruolo di chi cerca di mettere ordine, e qui intendo ordine nelle idee: capire cosa stesse accadendo e come porre le basi della ripartenza. Non abbiamo mai ostacolato i provvedimenti presi allora, corretti e doverosi. Parlo del rafforzamento delle misure igieniche e del distanziamento tra i tavoli, innanzitutto. Ma poi ti ricordi, Vincenzo, cosa accadde con l’estate? Noi in estate - perché negarlo? - abbiamo lavorato bene. Qui in Penisola Sorrentina non vi fu, come in tutta Italia, afflusso di turismo straniero, ma lavorammo molto con i nostri connazionali. Nel contempo, mi duole dirlo ma purtroppo è così, in accadde che alcuni ristoratori invece di perseguire il comportamento innescato dalla pandemia e quindi adempiere alle prescrizioni, a momenti stavano diventando balere e discoteche! A voler intendere, capiamoci, che accolsero i grandi numeri. Nuovo incremento dei contagi, adesso questo scacchiere delle zone arancioni, gialle e rosse, mettici che da noi l’inverno è comunque bassa stagione e puoi comprendere come stiamo vivendo una situazione grave.
V: La mia opinione, più volte espressa, è che la pandemia abbia catalizzato dei fenomeni che comunque sarebbero emersi. Nel caso di specie mi riferisco in particolare a questa tendenza della cucina a fungere anche da dark kitchen ovvero, vista diversamente, al ristorante che a fronte di un unico centro di produzione (la cucina, appunto) amplia i canali di vendita: oltre alla sala, anche il take out e la delivery. Cosa ne pensi?
G: Che piacere, Vincenzo, per amore del dialogo e del dibattito, dirti che non sono d’accordo. Però, aspetta che devo dirla bene! Dunque, ben vengano altre piattaforme di servizio come l’asporto e la delivery, ma queste possono essere attuate solo dalla ristorazione media, dalla “trattoria” vorrei dire e qui intendo dare alla “trattoria” la sua enfasi massima: quella ristorazione che ti fa da mangiare proprio bene, in contesto adeguato, piatti della vera tradizione locale. Diverso è il discorso per la ristorazione ad alto livello. Io, con due stelle Michelin, fare delivery non posso permettermelo: non sarebbe nelle mie corde. Io devo pensare a deliziare i clienti che arrivano fin qui, offrendo loro un’esperienza che dovrà divenire memorabile. Le pizzerie, le nostre care pizzerie di cui noi tutti siamo clienti, già facevano asporto ed in alcuni casi anche delivery. Ecco, si tratta di cogliere l’occasione, per loro, per farlo ancora meglio!
V: A proposito della “rossa” (la guida Michelin), hai visto che adesso dà anche le stelle verdi? Come la pensi?
G: Sai Vincenzo, che l’autorevolezza della Michelin è tale che un nuovo indicatore di qualità è bene accetto. E sai che la stella verde, detta in poche parole, segnala quelle realtà che prestano particolare attenzione ai temi della sostenibilità. Tutto bene, per carità. Però, a dirtela come la penso io, io vedrei il perseguimento della sostenibilità più come un prerequisito per assegnare le stelle che non come un distintivo ulteriore elemento di merito.
V: Credo di capire, ma onde fugare dubbi caro Gennaro, ci spieghi meglio?
G: Volentieri, stavo per farlo! Rispettare l’ambiente è questione di sensibilità. Nella civiltà contadina, io vengo da quella cultura, non è che non esisteva la parola “spreco”, caro Vincenzo. No, ascoltami: non esisteva proprio il concetto di “spreco”. Ma cosa vuoi sprecare? Ma che senso avrebbe? La natura, riflettiamoci insieme, non è che nell’offrirti un suo prodotto, ti dice “questa parte qui la scarti e quest’altra te la mangi”. È tutto più o meno direttamente edibile. Siamo stati noi ad inventarci delittuosamente il concetto scellerato dello “scarto”. Chi ha deciso, ti porto a caso emblematico la lattuga, il prodotto primigenio dell’orto, chi ha deciso, dicevo, cosa della lattuga è scarto e cosa è da mangiare? All’origine, credimi, nulla è scarto. E difatti, grazie alla civiltà contadina, si faceva cucina di riuso e cucina di recupero, senza che la si chiamasse così! Per non parlare di scarti che generano delizie culinarie e magari molti avventori neanche lo sanno. Pensa, ma è solo il primo esempio che mi viene a mente, ai carapaci dei gamberi e pensa alla bisque che ne deriva.
V: Vico Equense è la porta d’ingresso della Penisola Sorrentina. In Penisola Sorrentina abbiamo una considerevole presenza di ristoranti stellati dove, inutile dirlo, si mangia in maniera eccellente. Poi c’è una ristorazione media dove si mangia mediamente bene e si potrebbe dire che fa notizia scovare il locale dove si mangia male!
G: Eh, ma qui il discorso è lungo e complesso. Quella che adesso è ristorazione di eccellenza, è la conseguenza di un comportamento forte e consapevole che avemmo noi, parlo della mia generazione. Sapemmo e volemmo salire sulle spalle dei giganti, per dirla con Newton, per guardare lontano. Giganti, bada bene, che non sono solo i nomi (il nome!) famosi, ma anche altri cuochi altrettanto bravi che non assursero all’onore delle cronache semplicemente perché allora il circuito mediatico era debole per non dire del tutto inesistente. Noi, anche grazie a questi Maestri, abbiamo coltivato ed oramai abbiamo in noi la cosiddetta “tensione al miglioramento continuo”. Questo concetto forte di “tensione al miglioramento continuo” te lo spiego così: voler fare sempre meglio, ma proprio sempre meglio, giorno dopo giorno, gli spaghetti al pomodoro e voler fare al contempo anche sperimentazione seria, che sottende studio e ricerca, umiltà, pazienza e tenacia, per esitare un piatto nuovo che costituisca nuova delizia per i clienti. Ecco, qui sono un pò preoccupato per la tenuta della cosiddetta ristorazione media. Sai bene, caro Vincenzo, che la ristorazione di qualità è fatta “anche” di prodotti di qualità ma è fatta, ancor prima, di persone di qualità. E qui mi riferisco soprattutto alle persone di sala. Sapere accogliere il cliente, capire non solo i bisogni, che è cosa tutto sommato facile in quanto in genere il bisogno è palesemente espresso, ma captare i desideri, quelli inespressi, appena bisbigliati, magari comunicati con mimica, con linguaggio del corpo, con omissioni, persino. Saper raccontare un piatto non come mera elencazione di ingredienti, bensì la storia che c’è dietro a quel piatto. E credimi, ce n’è da raccontare con la nostra cucina. Nostra qui intendo “nostra” italiana, non solo sorrentina. Oggi ci si accontenta di “conoscere”, ma non può essere così! Conoscere è step 2 dove lo step 1, quello fondamentale, caro Vincenzo, è “sapere”! E qui taccio dell’insostituibilità della cosiddetta “gavetta”. Quante conseguenze nefaste nella ristorazione, questo voler saltare la “gavetta”. Ma quanti sanno ancora pulire il pesce a regola d’arte? Sfilettarlo? Sappiamo pulire i calamari? Sappiamo disossare pollame, ovini? È la tradizione complessiva che ci dovrà salvare. Ma la tradizione nel suo vero significato: tenere vivo il fuoco sapendo alimentarlo, non custodirne vanamente le ceneri.
V: Consentimi di dirtelo, caro Gennaro, ci hai tenuto una lezione e te ne siamo riconoscenti. Chiudiamo con il tuo augurio per questo anno appena principiato.
G: Nessuna lezione, innanzitutto. Al più una conversazione amicale con spunti di riflessione per chi vorrà. Il mio augurio nasce da una constatazione: questa pandemia sta rendendo non propriamente felice, per non dire proprio infelice, la generazione più preziosa che abbiamo: l’infanzia. Ti rendi conto? Gliela stiamo sottraendo: le bambine ed i bambini non giocano insieme tra loro, non vanno a scuola, non vedono i nonni. È un disastro silente di cui vedremo i tristi effetti tra qualche anno. Ecco, allora il mio augurio è che noi adulti ci si prodighi tutti insieme, ciascuno assumendoci responsabilità che ci compete affinché al più presto l’infanzia torni ad essere il momento sereno e felice che deve essere. Stiamo finalmente imparando, noi adulti, che nulla è scontato neanche più il benessere dei nostri figli e stiamo imparando a tornare a dare valore alle piccole cose.
V: Ciao, caro Gennaro. Conosciuto nel mondo come chef, in quanti sanno che sei essere anfibio?
G: Ciao, Vincenzo. Sono un essere anfibio in momentaneo periodo sabatico ma conto di riprendere al più presto questa sana abitudine: la quotidiana nuotata mattutina a mare, il mare prospiciente La Torre del Saracino, al più presto.
V: Durante il primo lockdown, sia perché sospinto dalla base, ovvero dai tuoi colleghi, e sia perché cooptato anche dalle istituzioni locali, ti facesti diligente portavoce delle istanze del mondo della ristorazione campano. Cosa è cambiato da quel periodo, parliamo della primavera 2020, ad oggi, inverno 2020-2021?
G: Il primo lockdown ci portò al cospetto di qualcosa di inimmaginabile. Mica sapevamo, se non dalla storia, cosa significava nel concreto una pandemia! Pertanto aleggiava una grande preoccupazione per il presente e per il futuro e si cominciava a delineare l’esigenza di ricorrere ad aiuti atti a sopperire le difficoltà del momento ed il reddito dei nostri collaboratori. Mi assunsi responsabilmente il ruolo di chi cerca di mettere ordine, e qui intendo ordine nelle idee: capire cosa stesse accadendo e come porre le basi della ripartenza. Non abbiamo mai ostacolato i provvedimenti presi allora, corretti e doverosi. Parlo del rafforzamento delle misure igieniche e del distanziamento tra i tavoli, innanzitutto. Ma poi ti ricordi, Vincenzo, cosa accadde con l’estate? Noi in estate - perché negarlo? - abbiamo lavorato bene. Qui in Penisola Sorrentina non vi fu, come in tutta Italia, afflusso di turismo straniero, ma lavorammo molto con i nostri connazionali. Nel contempo, mi duole dirlo ma purtroppo è così, in accadde che alcuni ristoratori invece di perseguire il comportamento innescato dalla pandemia e quindi adempiere alle prescrizioni, a momenti stavano diventando balere e discoteche! A voler intendere, capiamoci, che accolsero i grandi numeri. Nuovo incremento dei contagi, adesso questo scacchiere delle zone arancioni, gialle e rosse, mettici che da noi l’inverno è comunque bassa stagione e puoi comprendere come stiamo vivendo una situazione grave.
V: La mia opinione, più volte espressa, è che la pandemia abbia catalizzato dei fenomeni che comunque sarebbero emersi. Nel caso di specie mi riferisco in particolare a questa tendenza della cucina a fungere anche da dark kitchen ovvero, vista diversamente, al ristorante che a fronte di un unico centro di produzione (la cucina, appunto) amplia i canali di vendita: oltre alla sala, anche il take out e la delivery. Cosa ne pensi?
G: Che piacere, Vincenzo, per amore del dialogo e del dibattito, dirti che non sono d’accordo. Però, aspetta che devo dirla bene! Dunque, ben vengano altre piattaforme di servizio come l’asporto e la delivery, ma queste possono essere attuate solo dalla ristorazione media, dalla “trattoria” vorrei dire e qui intendo dare alla “trattoria” la sua enfasi massima: quella ristorazione che ti fa da mangiare proprio bene, in contesto adeguato, piatti della vera tradizione locale. Diverso è il discorso per la ristorazione ad alto livello. Io, con due stelle Michelin, fare delivery non posso permettermelo: non sarebbe nelle mie corde. Io devo pensare a deliziare i clienti che arrivano fin qui, offrendo loro un’esperienza che dovrà divenire memorabile. Le pizzerie, le nostre care pizzerie di cui noi tutti siamo clienti, già facevano asporto ed in alcuni casi anche delivery. Ecco, si tratta di cogliere l’occasione, per loro, per farlo ancora meglio!
V: A proposito della “rossa” (la guida Michelin), hai visto che adesso dà anche le stelle verdi? Come la pensi?
G: Sai Vincenzo, che l’autorevolezza della Michelin è tale che un nuovo indicatore di qualità è bene accetto. E sai che la stella verde, detta in poche parole, segnala quelle realtà che prestano particolare attenzione ai temi della sostenibilità. Tutto bene, per carità. Però, a dirtela come la penso io, io vedrei il perseguimento della sostenibilità più come un prerequisito per assegnare le stelle che non come un distintivo ulteriore elemento di merito.
V: Credo di capire, ma onde fugare dubbi caro Gennaro, ci spieghi meglio?
G: Volentieri, stavo per farlo! Rispettare l’ambiente è questione di sensibilità. Nella civiltà contadina, io vengo da quella cultura, non è che non esisteva la parola “spreco”, caro Vincenzo. No, ascoltami: non esisteva proprio il concetto di “spreco”. Ma cosa vuoi sprecare? Ma che senso avrebbe? La natura, riflettiamoci insieme, non è che nell’offrirti un suo prodotto, ti dice “questa parte qui la scarti e quest’altra te la mangi”. È tutto più o meno direttamente edibile. Siamo stati noi ad inventarci delittuosamente il concetto scellerato dello “scarto”. Chi ha deciso, ti porto a caso emblematico la lattuga, il prodotto primigenio dell’orto, chi ha deciso, dicevo, cosa della lattuga è scarto e cosa è da mangiare? All’origine, credimi, nulla è scarto. E difatti, grazie alla civiltà contadina, si faceva cucina di riuso e cucina di recupero, senza che la si chiamasse così! Per non parlare di scarti che generano delizie culinarie e magari molti avventori neanche lo sanno. Pensa, ma è solo il primo esempio che mi viene a mente, ai carapaci dei gamberi e pensa alla bisque che ne deriva.
V: Vico Equense è la porta d’ingresso della Penisola Sorrentina. In Penisola Sorrentina abbiamo una considerevole presenza di ristoranti stellati dove, inutile dirlo, si mangia in maniera eccellente. Poi c’è una ristorazione media dove si mangia mediamente bene e si potrebbe dire che fa notizia scovare il locale dove si mangia male!
G: Eh, ma qui il discorso è lungo e complesso. Quella che adesso è ristorazione di eccellenza, è la conseguenza di un comportamento forte e consapevole che avemmo noi, parlo della mia generazione. Sapemmo e volemmo salire sulle spalle dei giganti, per dirla con Newton, per guardare lontano. Giganti, bada bene, che non sono solo i nomi (il nome!) famosi, ma anche altri cuochi altrettanto bravi che non assursero all’onore delle cronache semplicemente perché allora il circuito mediatico era debole per non dire del tutto inesistente. Noi, anche grazie a questi Maestri, abbiamo coltivato ed oramai abbiamo in noi la cosiddetta “tensione al miglioramento continuo”. Questo concetto forte di “tensione al miglioramento continuo” te lo spiego così: voler fare sempre meglio, ma proprio sempre meglio, giorno dopo giorno, gli spaghetti al pomodoro e voler fare al contempo anche sperimentazione seria, che sottende studio e ricerca, umiltà, pazienza e tenacia, per esitare un piatto nuovo che costituisca nuova delizia per i clienti. Ecco, qui sono un pò preoccupato per la tenuta della cosiddetta ristorazione media. Sai bene, caro Vincenzo, che la ristorazione di qualità è fatta “anche” di prodotti di qualità ma è fatta, ancor prima, di persone di qualità. E qui mi riferisco soprattutto alle persone di sala. Sapere accogliere il cliente, capire non solo i bisogni, che è cosa tutto sommato facile in quanto in genere il bisogno è palesemente espresso, ma captare i desideri, quelli inespressi, appena bisbigliati, magari comunicati con mimica, con linguaggio del corpo, con omissioni, persino. Saper raccontare un piatto non come mera elencazione di ingredienti, bensì la storia che c’è dietro a quel piatto. E credimi, ce n’è da raccontare con la nostra cucina. Nostra qui intendo “nostra” italiana, non solo sorrentina. Oggi ci si accontenta di “conoscere”, ma non può essere così! Conoscere è step 2 dove lo step 1, quello fondamentale, caro Vincenzo, è “sapere”! E qui taccio dell’insostituibilità della cosiddetta “gavetta”. Quante conseguenze nefaste nella ristorazione, questo voler saltare la “gavetta”. Ma quanti sanno ancora pulire il pesce a regola d’arte? Sfilettarlo? Sappiamo pulire i calamari? Sappiamo disossare pollame, ovini? È la tradizione complessiva che ci dovrà salvare. Ma la tradizione nel suo vero significato: tenere vivo il fuoco sapendo alimentarlo, non custodirne vanamente le ceneri.
V: Consentimi di dirtelo, caro Gennaro, ci hai tenuto una lezione e te ne siamo riconoscenti. Chiudiamo con il tuo augurio per questo anno appena principiato.
G: Nessuna lezione, innanzitutto. Al più una conversazione amicale con spunti di riflessione per chi vorrà. Il mio augurio nasce da una constatazione: questa pandemia sta rendendo non propriamente felice, per non dire proprio infelice, la generazione più preziosa che abbiamo: l’infanzia. Ti rendi conto? Gliela stiamo sottraendo: le bambine ed i bambini non giocano insieme tra loro, non vanno a scuola, non vedono i nonni. È un disastro silente di cui vedremo i tristi effetti tra qualche anno. Ecco, allora il mio augurio è che noi adulti ci si prodighi tutti insieme, ciascuno assumendoci responsabilità che ci compete affinché al più presto l’infanzia torni ad essere il momento sereno e felice che deve essere. Stiamo finalmente imparando, noi adulti, che nulla è scontato neanche più il benessere dei nostri figli e stiamo imparando a tornare a dare valore alle piccole cose.
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di Vincenzo D’Antonio
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