PROVERBIO (O DETTO)

VINITALY AND THE CITY
TORNA IN CALABRIA
International Coffee Tasting 2025,
concorso internazionale del caffè,
apre le iscrizioni alla 17. edizione
e lancia ICT Benchmarks
per supportare il marketing delle aziende
Aperte le iscrizioni per la nuova edizione del concorso con la novità di ICT Benchmarks, uno strumento di analisi del prodotto pensato espressamente per il marketing delle aziende partecipanti. A Milano tre giornate di valutazione sensoriale dal 18 al 20 novembre 2025, alla fine dei quali saranno premiati i caffè migliori.
Nella cucina di Gianfranco Vissani non ci sono solo ricerca delle materie prime e tecnica, ma, vicino al sacrificio, c’è anche un inno al bello, una visione quasi metafisica, fatta di pennellate ai fornelli e belle donne, ma assolutamente non da persone in infradito e bermuda perché quelle, proprio, gli danno fastidio, quasi quanto Leonardo DiCaprio che investe nella carne sintetica e si prende pure del «cogli***». E non provate ad andare a Casa Vissani solo per lo show, perché lo chef vi sgama subito. Ci vuole rispetto per il prodotto, sia esso un’eccellenza italiana che straniera. Vissani, in questa intervista esclusiva a Italia a Tavola, non si nasconde né si sottrae dall’affrontare temi spinosi, tra difesa dell’identità italiana e salari dei dipendenti. Ma soprattutto chiude una volta di più con i ristoranti brandizzati in giro per l’Italia o per il mondo. Perché quello «è solo marketing, signori».
Chi viene a Casa Vissani, viene per lo show o per la cucina?
Ma no, io penso che chi viene da me lo faccia per la qualità del cibo. Il problema, però, è reperirlo.
Quali sono le difficoltà principali che incontrate?
Siamo circondati da mille problemi: gli allevamenti intensivi e le coltivazioni industriali stanno distruggendo il patrimonio culturale italiano e, con esso, la nostra cucina. Non ci rendiamo conto di cosa stiamo perdendo. Capisco il contadino che vuole il raccolto a fine stagione per poter mantenere la propria famiglia. È legittimo. Ma questa non può essere la nostra idea perché se andiamo a prendere un valore aggiunto che noi dobbiamo avere, tutti i prodotti che noi avevamo in casa. Ricordo, ad esempio, quando si uccideva l’agnello: si lasciava gocciolare tutto il sangue, e la carne restava più bianca. Lo stesso valeva per il coniglio, per le oche. Mio padre li puliva con cura, con rispetto.
E oggi invece?
Oggi invece... quel cogli*** di Leonardo DiCaprio investe nella carne sintetica. Ma di cosa stiamo parlando, signori miei? Dove troviamo l’osso, il grasso, il nervo? Dove sono finiti quegli elementi che danno personalità e identità a una carne vera? La griglia, oggi, non funziona più. Le temperature sono basse, sono tutte spente. Eppure la griglia è fondamentale. Ricordo quando si cuoceva la chianina sulla legna d’ulivo. La chianina, che nasce come animale da tiro, non ha filamenti di grasso, ha una carne asciutta, nobile. Oggi invece ci propongono carni danesi, prussiane, polacche... tutte grasse. Ma perché ci facciamo del male così? Il grasso giallo rovina la qualità. Cosa mangiamo? Una spremuta di grasso in bocca? Per favore: dobbiamo renderci conto di ciò che stiamo perdendo: il rispetto per la materia prima, per il gusto vero, per la nostra identità gastronomica.
E allora dove sta la qualità del cibo?
La qualità del cibo è un’altra cosa, ben diversa da quella che troppo spesso ci viene proposta oggi. Vedo ristoranti che propongono menu completi a 30 o 35 euro, persino con il pesce. E mi chiedo: ma da dove arriva quella roba? Che origine ha? Poi, dall’altro lato, ci sono quelli che si approfittano e sparano prezzi astronomici, sfruttando il fatto che la gente, purtroppo, non conosce davvero il prodotto. E quando manca questa conoscenza, è lì che nasce la confusione. Dal mio punto di vista, bisognerebbe prendere una troupe e andare nei supermercati a spiegare alla gente da dove arrivano realmente i prodotti sugli scaffali. Ricordo, ad esempio, quando in pieno periodo dei carciofi, vedevo le etichette con scritto made in Italy. Ma poi scoprivi che quei carciofi arrivavano dal Sudafrica. Ma di cosa stiamo parlando? Quale made in Italy? Dai, su!
Si può difendere un territorio quando ci si fa arrivare prodotti da tutto il mondo?
Io faccio arrivare i prodotti da ovunque: alla materia prima io ci tengo molto. La prendo in Francia, in Inghilterra, un po’ in tutto il mondo. La faccio arrivare con i dovuti tempi e me la portano. Ma lo diciamo, eh? Il Maiorchino, per esempio, che è uno dei formaggi più apprezzati al mondo, è siciliano. Ma nessuno lo conosce. È normale: se non lo vendono! Non ti sto parlando del Ragusano, che è più famoso. Parlo proprio del Maiorchino: un formaggio meraviglioso. Oggi, per esempio, si lavorano anche le pale dei fichi d’India. E questo è il punto: noi in Italia abbiamo tradizioni straordinarie. Abbiamo una materia prima di qualità eccezionale. Io ne ho lavorati personalmente più di 500 di prodotti: Igp, Dop… in Valle d’Aosta fanno un formaggio con le perle di cioccolato, poi lo cuociono nel forno a legna. Devi vedere che prodotto viene fuori: è spettacolare. Questa è la nostra storia, la nostra cultura. Il patrimonio gastronomico italiano è, senza dubbio, il più grande al mondo.
È la tecnica che trasforma queste materie prime che contribuiscono all’identità della cucina italiana o questa è legata all’origine del prodotto?
Va bene, ma faccio un esempio: sul fiume Nera c'erano tanti gamberi di fiume, ed erano davvero buoni. Oggi sono praticamente spariti, non ce n'è più uno. O arrivano dalla Turchia, o dal Sudafrica, o dalla ex Jugoslavia. C’è stato un periodo in cui arrivavano addirittura dall’Australia, ma costavano anche 300 euro al chilo.
In che misura seleziona attentamente i fornitori stranieri per mantenere un’identità di cucina italiana?
Ci sono delle piattaforme che lavorano bene, serie, che fanno arrivare prodotti di qualità. Per esempio, il Moro Oceanico è un pesce che vive a 2.000 metri di profondità. Non so nemmeno come faccia a sopravvivere laggiù, ma è davvero straordinario. L’ho lavorato personalmente: ha una carne bianca squisita, e la gente ne è rimasta colpita. Oppure ci sono le castraure: sono piccoli carciofi, ma eccezionali. Ci sono anche le castraure, spettacolari, mai trovato un carciofo così. Poi ci sono le alici di Menaica, un prodotto meraviglioso. Sono tutti presidi Slow Food, e non per caso: è la verità. Come l’olio di Amelia, in Umbria, dove lo producono da 800 anni. Una tradizione lunghissima, davvero sorprendente. E ancora: le zucchine “trombetta” della Liguria, migliori anche della romanesca, l’ho constatato personalmente. E abbiamo davvero di tutto. Come il formaggio Bettelmatt: era spettacolare. Sono arrivato a casa, sembrava perfetto, lo muovevi e suonava come una pallina. Poi però, quando l’ho aperto, era tutto sciolto. Una fregatura.
Torniamo al rapporto tra show e cucina: come individua il cliente che non è lì per la proposta gastronomica?
Lo vedi subito: indossa le ciabattine infradito e i pantaloncini corti. Mi dà un fastidio che non ti puoi immaginare. E poi fanno domande, chiedono cose, anche assurde…ma una persona esperta come me se ne accorge subito.
Ma in quel caso: chi prende in giro chi?
Dal mio punto di vista, bisogna prenderli un po’ in giro, giocare… come giocano loro, giochiamo anche noi. Ma la gente seria viene lì, mangia e apprezza. Il gioco, capito? È quello l’aspetto fondamentale. Loro vogliono giocare, e noi in Italia, in fondo, siamo dei gran giocherelloni. Ma noi lavoriamo solamente grande materia prima e basta.
Quanto lo studio scientifico serve per lo show e quanto invece è funzionale all'esaltazione dei sapori, del gusto?
Non è che voglio essere Picasso, Renoir, Van Gogh, De Chirico, Monet o Gauguin. Io sono uno che fa il piatto, creo il piatto, come fa un pittore. Poi lo metto in opera insieme ai miei chef, osserviamo i risultati, valutiamo i cambiamenti. Ed è lì che nascono le cose importanti, quelle che fanno davvero la differenza. La tecnica influisce molto sul risultato, certo. Magari, con un po’ di abilità, invece di tre porzioni ne ricavi quattro. Serve competenza, manualità dello chef, del maestro di casa. Chi sa lavorare bene riesce anche a esaltare la materia prima con meno sprechi. Il problema, oggi, è che il 90% degli chef prepara i piatti con il bisturi. È quasi una vergogna. Noi dovremmo preparare piatti caldi, rapidi, che arrivino al cliente.
C’è poi il tema di carenza di personale e salari bassi: come bilancia l’investimento sulle risorse umane con le esigenze economiche del ristorante di alto livello?
Noi facciamo il possibile per essere corretti. Lavoriamo quasi quattro giorni a settimana, così da dare anche ai ragazzi l’opportunità di recuperare energie o magari fare qualche extra altrove. Loro lavorano seriamente, e per quei quattro giorni ricevono uno stipendio giusto, adeguato al loro impegno. Bisogna che i cuochi abbiano sacrificio, tanta forza di volontà, coraggio e intelligenza, come i grandi pittori.
Stesso ristorante in diverse città. Molti chef di fama aprono locali in città diverse: è un’espansione intelligente o un “copia-incolla” di stessa esperienza gastronomica ovunque?
Io l’ho fatto prima degli altri, ho aperto a Capri, a Cortina d’Ampezzo, a Todi, a Orvieto, a Roma… Ma lo dico sinceramente: manca la presenza per controllare nello stesso momento del servizio: le forze si disperdono. La forza vera, quella completa, c’è solo quando siamo a casa, quando siamo presenti. Possiamo aprire un locale, uno solo, non cento: cento non vanno bene, lì è solo marketing.
Cos’è quindi l’alta cucina?
Qui in Umbria fanno addirittura l’olio al pomodoro. Un olio al pomodoro in cui si sente più il pomodoro che l’olio. Ma ricordati: se metti un pomodoro vicino a una pianta di olivo, l’olivo assorbe tutto quello che ha intorno. Questo vale anche per le nocciole, vale per tutto. Per esempio, c'era un noccioleto a Passignano e quell’olio sapeva di nocciole e per nulla di olio. L’olio assorbe, trasmette: è come un sensore. È come avere accanto una bella donna che ti segue in cucina. La guardi e dici: “Che facciamo oggi?” Questa è la grande cucina.
Dalla Regione Veneto
9.6 milioni per le imprese
del settore silvicolo
Con una dotazione complessiva di 9,6 milioni di euro, la Regione del Veneto apre i termini per la presentazione delle domande di aiuto nell’ambito di quattro interventi strategici per il futuro delle aree rurali e forestali del territorio, previsti e finanziati nell’ambito del CSR 2023-2027.
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Nessuno entra da Essenza per caso. Non solo per la Stella Michelin che illumina il ristorante di Simone Nardoni a Terracina (Lt), né per la sua posizione a pochi metri dal mare. Ma per quella sensazione precisa che avvolge chi varca la soglia: la percezione di un luogo pensato, voluto, curato in ogni dettaglio. Un luogo dove ogni piatto racconta qualcosa e ogni calice completa la frase. Dove la cucina è libertà, materia, emozione. E il vino, presenza viva, scelta mai casuale. A costruire tutto questo, accanto allo chef, c’era lei: Mara Severin, 31 anni, sommelier, responsabile della cantina, anima discreta e profonda di un ristorante che oggi è orfano di una voce fondamentale.
Il crollo improvviso del tetto, lunedì sera, ha interrotto tutto questo. Il suo lavoro, la sua passione, il suo percorso. Mara è morta poche ore dopo il cedimento, nonostante i tentativi disperati dei soccorritori. Ma chi ha conosciuto Essenza, sa che quel progetto non si capisce davvero senza il suo nome. I vigili del fuoco, nel frattempo, stanno conducendo accertamenti per comprendere le cause del crollo, e una prima relazione tecnica sarà trasmessa nelle prossime ore alla procura di Latina.
Nel ristorante che Nardoni ha voluto “senza vincoli in nome del gusto”, Mara Severin aveva costruito una carta dei vini di oltre 850 etichette, di cui un centinaio di Champagne, spesso introvabili perfino in Francia. Ma la selezione non era una prova di forza. Era un gesto di racconto. Perché nel pensiero condiviso con lo chef, il vino non era contorno, ma linguaggio parallelo. E proprio da questo nasceva “La Cave”, uno spazio dedicato a degustazioni private, dove Mara accoglieva gli ospiti guidandoli in esperienze su misura, immaginate e costruite insieme a Nardoni.
Era lei, con voce calma e sguardo curioso, a proporre un abbinamento spiazzante, a raccontare un terroir, a suggerire un vino fuori carta. Lo faceva con rigore, con competenza, ma soprattutto con passione. Quella stessa passione che traspare oggi dalle sue pagine social, dove ogni bottiglia è una storia, ogni etichetta una scoperta.
Essenza nasce da lontano, nel 2011 a Pontinia, e poi trova una nuova casa a Terracina otto anni dopo. La Stella Michelin arriva nel 2020, in piena pandemia. Ma chi lo conosce, lo sa: non è mai stato un locale di facili conquiste. È un ristorante radicale, che rifiuta la rigidità delle portate, che mescola dolce e salato, che accoglie e provoca.
Nardoni, formatosi tra l’alberghiero e cucine d’Italia e Spagna, porta in tavola la tecnica e la memoria, l’audacia e l’ascolto. Ma non è mai stato un cuoco da solista. A Essenza, ogni dettaglio nasce da un confronto. E il dialogo più continuo, più quotidiano, era con Mara. Insieme hanno costruito una visione completa dell’ospitalità, dove il vino è un’estensione della cucina.
Chi pensa che oggi sia morta solo una sommelier, non ha capito Essenza. Perché Mara Severin non era una figura in organico, ma parte stessa dell’identità del ristorante. Non c’era solo il gesto tecnico, ma un pensiero profondo sull’abbinamento, sull’accoglienza, sulla relazione con l’ospite. E chi ha assaggiato una delle sue proposte nella piccola sala de La Cave, chi ha alzato un calice dopo un “benvenuto” della cucina, sa bene che ogni esperienza lì dentro aveva il suo tocco.
Oggi la comunità di Terracina è sgomenta. La cronaca racconta numeri: il crollo, i feriti, i sopralluoghi, le indagini. Ma chi conosce davvero questo mestiere, sa che in quel crollo è andata persa anche una visione, una sinergia, una passione viva. Essenza ha sempre rifiutato le luci della ribalta facile. E Mara Severin ne era l’incarnazione. Discreta, precisa, appassionata. Il vino era il suo strumento, la sala il suo palcoscenico. Oggi che non c’è più, resta la memoria di un lavoro fatto con verità. E un ristorante che dovrà trovare il modo di continuare a parlare anche con la sua voce.
Oltre alla sommelier deceduta, altre cinque persone sono rimaste ferite in seguito al crollo del solaio del locale. Tre di queste sono attualmente ricoverate in prognosi riservata, ma - secondo fonti ospedaliere - nessuna sarebbe in pericolo di vita. I Vigili del Fuoco stanno proseguendo gli accertamenti per ricostruire con precisione le cause dell'incidente. Una prima relazione tecnica è attesa nelle prossime ore e sarà trasmessa alla Procura di Latina, che ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sull'accaduto.
Il ristorante, al momento dell’incidente, era frequentato anche da clienti stranieri, molti dei quali sono riusciti ad allontanarsi prima che la situazione peggiorasse. L’episodio ha profondamente colpito la comunità locale: numerosi residenti, allarmati dal boato, sono accorsi in strada per prestare aiuto. In attesa dell’arrivo dei soccorsi, alcuni medici presenti nei dintorni - anche fuori servizio - si sono attivati spontaneamente per fornire un primo supporto sanitario ai feriti.