sabato 12 luglio 2025

Dal cuoco invisibile al cliente egocentrico

 

Dal cuoco invisibile 

al cliente egocentrico: chi ha trasformato 

la ristorazione 

in una sfilata?

Negli anni ’90 si andava al ristorante per mangiare bene. Oggi si va per essere visti, per ascoltare il monologo sul pepe di Sichuan, per fotografare. Il cliente si sente un esperto, lo chef una star. E la cucina? A volte resta sullo sfondoDal cuoco invisibile al cliente egocentrico: chi ha trasformato la ristorazione in una sfilata?


Una volta il ristorante era un luogo dove si stava bene. Adesso è un set. Il cliente arriva col palato educato da Instagram, pronto a interrogare il cameriere come fosse un botanico. Lo chef, intanto, ha smesso di cucinare per diventare testimonial, autore, opinionista, stilista del piatto. Entrambi vogliono attenzione. Entrambi vogliono brillare. E intanto la lasagna... aspetta.

La rivoluzione di Gualtiero Marchesi

Negli anni '90, la ristorazione italiana aveva un'identità ben definita: semplice, concreta, diretta. I piatti erano riconoscibili, fatti con pochi ingredienti, generose porzioni e senza bisogno di spiegazioni. Il cuoco era una figura silenziosa, quasi invisibile: sudava dietro i fornelli, non dietro lo smartphone. La fiducia tra cliente e ristorante si basava sulla costanza del risultato, non sulla narrazione. Il servizio era spesso familiare, e il cliente non cercava l’eccezionalità, ma la ripetibilità dell’esperienza. Non si chiedeva il nome del produttore del formaggio, ma si apprezzava la bontà del piatto nel suo complesso. Era una ristorazione più democratica, in cui il gusto era l’unico criterio di giudizio. 

Dal cuoco invisibile al cliente egocentrico: chi ha trasformato la ristorazione in una sfilata?

Lo chef Igles Corelli
 

Gli stessi cuochi erano figure invisibili, quasi mitologiche. Il regno era la cucina, da cui non uscivano, lasciando campo ai maitre, veri padroni del ristoranti. La rivoluzione guidata da Gualtiero Marchesi, esponente di rilievo di quei cuochi pronti a mostrarsi in prima fila, ha rotto quell'equilibrio. Da un lato ha dato maggior dignità e visibilità ad una professione troppo spesso bistratta, ma dall'altro ha anche aperto le porte ad una tendenza distorta - culminata con programmi in stile MasterChef - che ha portato ad una cucina sempre meno ancorata al piatto e sempre più protesa verso i like sui social network. «Negli anni '90 era vietato entrare in cucina, oggi i cuochi fanno pubblicità alle banche», chiosa Igles Corelli.

Il nuovo cliente: è davvero informato?

L’avvento dei programmi televisivi di cucina, l’esplosione dei food blog e l’ascesa dei social hanno profondamente modificato il comportamento del cliente. Oggi chi si siede al tavolo spesso arriva con aspettative precise, maturate da contenuti visti online e non sempre supportati da una reale competenza gastronomica. Il nuovo cliente sa cosa sia un fermentato o una tecnica di cottura a bassa temperatura, ma magari non sa cucinare un uovo. Chiede la tracciabilità estrema del prodotto ma poi accetta incongruenze nel piatto finale. Il desiderio non è solo gustare, ma partecipare all’esperienza, farne parte, postarla, condividerla. Questo bisogno di protagonismo è forse la vera cifra della contemporaneità. 

Il maitre Antonio Tonola (La Lanterna Verde di Villa di Chiavenna, in provincia di Sondrio), racconta: «A tavola si aggiunta una posata in più, che è lo smartphone. Ogni volta che arrivano appuntati a tavola, fotografano, spediscono, non so a chi. Ma questo è un rito che c'è da qualche anno. Quello che posso dire è che, per la mia esperienza, è cambiato il consumo di vino: si sta più attenti alla qualità e vedo sempre più coppie che scelgono i percorsi vino. Posso dire che, almeno da noi, il cliente è più consapevole oggi». 

Dal cuoco invisibile al cliente egocentrico: chi ha trasformato la ristorazione in una sfilata?

A tavola si è aggiunta una posata in più: lo smartphone
 

«La cucina - aggiunge Corelli - in questo momento è diventata instagrammabile, ha perso le temperature, ha perso il sapore: è una cucina che va bene per i social. La cucina è ormai standardizzata, però i piatti sono molto belli,  quindi la gente è innamorata di fare le foto, tuttavia non c'è più la conoscenza del vero cibo: e questo è un problema. La cucina pop come il calcio, cioè il calcio è di tutti, la cucina è di tuttitutti sono chef, ma c'è una cosa importante e cioè che la cucina italiana è una cucina replicabile, ognuno la può fare a casa tranquillamente e quindi poi parla di cucina».

Lo chef contemporaneo: protagonista assoluto 

o manager dell'immagine?

Lo chef non è più solo un professionista del gusto, ma un personaggio pubblico, un performer, un imprenditore. Firma libri, partecipa a talk, cura il proprio personal brand sui social. Non è più nascosto in cucina, ma in prima linea nel racconto. Ma quanti cucinano davvero ogni giorno? La pressione mediatica è altissima, così come le aspettative. Alcuni riescono a tenere insieme visione e mestiere, ma altri inseguono una visibilità che li allontana dal lavoro quotidiano. Il rischio è che il piatto diventi veicolo estetico, e non più cuore del messaggio.

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Lo chef Lucio Pompili
 

Anche perché molto spesso, i cuochi curano altri aspetti, come rimarca Lucio Pompili: «I cuochi, devono stare in cucina, invece vanno in palestra, non vanno più al mercato, né a comprare un pesce, né a comprare una verdura o la carne, a toccarla, a capire cosa portano dietro in cucina. Non stanno sopra i tegami perché la metà delle cose è già frullata, addensata. Per andare avanti bisogna anche capire da dove si viene, bisogna conoscere le materie prime, bisogna avere dei maestri: prima i cuochi andavano al ristorante, adesso non ci vanno più i giovani». «Chiaramente - aggiunge - il piatto deve essere preparato bene anche dal punto di vista estetico, e già lì si fredda. In più quando arriva al tavolo, l’ospite deve fotografarlo. Perché oggi non conta tanto se il piatto è piaciuto o meno, ma se piacerà il post che farà. E quanti like riceverà».

Dal cuoco invisibile al cliente egocentrico: chi ha trasformato la ristorazione in una sfilata?

Lo chef Moreno Cedroni
 

«Il cliente viene attratto da quello che vede - sottolinea Moreno Cedroni -, poi naturalmente viene a provare e nel momento che trova che quello che assaggia è di pari valore a quello che ha visto, se c'è coerenza, può parlare bene dell'esperienza che ha avuto e diventare magari un cliente fedele. Sicuramente in caso contrario il cliente potrebbe avere una delusione e certo poi difficilmente ritornerà in quel posto». La chiave, insomma per Cedroni il problema è riuscire a dare una sostanza all'immagine: «La narrazione allontana quando in questa narrazione non ci sono i contenuti del piatto. Il racconto deve essere molto comprensibile, poi naturalmente se c'è un titolo interessante, se c'è un titolo che fa il verso a qualcosa, quello ci può stare, però questo poi deve essere accompagnato da una precisa descrizione di quello che c'è nel piatto».

La sala dimenticata: l'anello mancante 

della ristorazione

Negli ultimi anni, la professione del cameriere è stata spesso relegata a ruolo marginale. Eppure è proprio la sala il vero collante tra cucina e cliente. Il maitre non è solo chi prende le comande, ma un direttore d’orchestra, un mediatore culturale, un esperto capace di tradurre il linguaggio tecnico della cucina in emozioni comprensibili per il cliente. Valorizzare la sala significa dare dignità e centralità a una componente spesso invisibile ma fondamentale. Come invertire la rotta? Serve formazione, ma anche un cambio di paradigma: il cliente deve tornare a percepire la competenza del personale di sala come parte integrante dell’esperienza.

Il linguaggio della moda nei menu: 

tra evocazione e confusione

"Crudité di vegetali fermentati al fumo di legna con polvere di cipolla bruciata": ecco come si presenta oggi un piatto. I menu sembrano cataloghi di moda, più che offerte gastronomiche. Il vocabolario è tecnico, evocativo, a tratti criptico. Il piatto deve fotografarsi bene, essere comprensibile al food influencer, più che al palato del cliente comune. Questo approccio alimenta una cultura del desiderio, più che della soddisfazione. Il piatto è evento visivo, più che gusto. Una spettacolarizzazione che rischia di appiattire la cucina su un'estetica standardizzata, slegata dal territorio e dalle esigenze reali.

Il cliente moderno è disposto a pagare anche il doppio per un’esperienza che lo emozioni. Ma a quale prezzo? Gli chef rincorrono la domanda con menu sempre più astratti, spesso poco replicabili e lontani dalla quotidianità. Il personale lavora sotto ritmi serrati, in un modello teatrale che richiede presenza scenica e performance continua. In questo contesto, il piatto rischia di diventare un dettaglio, un pretesto per un racconto più grande, ma spesso effimero. Il rischio è una ristorazione che consuma chi la fa e confonde chi la riceve. «La visione della narrazione...ormai siamo diventati degli attori, il ristorante è teatro», dice Corelli.

Dal cuoco invisibile al cliente egocentrico: chi ha trasformato la ristorazione in una sfilata?

Il critico enogastronomico Edoardo Raspelli
 

Il critico enogastronomico Edoardo Raspelli poi aggiunge: «Oggi i cuochi sono diventati imprenditori, aprono a destra e a sinistra, sono consulenti di qui e di là, da quel punto di vista non ci trovo niente di male. Ci trovo invece delle cose negative sul fatto di come stanno impostando i cuochi e i cuochi ristoratori i loro piatti, la loro cucina, che oramai sono diventati posti carissimi dove prevale la fantasia scriteriata, gli accostamenti a caso e con dei linguaggi astrusi, ridicoli, incomprensibili. Il guaio è che la ristorazione diventasse più complicata nei suoi piatti, irraggiungibile nei suoi prezzi».

Chi comanda davvero: lo chef o il cliente?

In questa nuova dinamica, né lo chef né il cliente sembrano davvero al centro. Il protagonista è l’ego: quello dello chef che costruisce il suo brand, quello del cliente che vuole sentirsi unico. Il piatto è contorno di questa narrazione reciproca. La relazione non è più fiduciaria, ma contrattuale e spettacolare. Ognuno vuole essere protagonista. Ma chi pensa ancora al sapore, alla stagionalità, alla convivialità? La vera sfida è ricostruire un centro condiviso, dove il piacere del cibo torni a unire, più che a dividere.

Ristoranti d'hotel: il futuro che già esiste

Come sottolineato anche da Italia a Tavola, i ristoranti d’hotel rappresentano una risorsa sottovalutata ma strategica. Spesso considerati anonimi o poco caratterizzanti, possono invece diventare navi ammiraglie del fine dining, unendo logistica, accoglienza e continuità. Non mancano esempi virtuosi, in cui il ristorante d’albergo diventa motore di identità e attrattività, non solo per i turisti ma anche per la città. Servono però investimenti, visione e una cultura gestionale più integrata.


Chiudere questi spazi, come accade troppo spesso, significa perdere un’occasione di rinnovamento per l’intero settore. Valorizzarli è invece una delle strade più concrete per un rilancio credibile e duraturo. Anche se Raspelli non ne è convinto: «Non lo so, non credo che la ristorazione dell'albergo sia particolarmente da mettere in risalto: secondo me la ristorazione va avanti così, anche molti chef significativi hanno preso la consulenza di grandi alberghi da tempo».

È tempo di rimettere il piatto al centro

La ristorazione è cambiata, ma non tutto è perduto. L'evoluzione è necessaria, ma serve equilibrio. Serve una nuova alleanza tra cucina, sala e cliente, basata su rispetto, competenza e ascolto reciproco. Riportare la sala al centro, valorizzare i ristoranti d’hotel, liberarsi da modelli oppressivi, rimettere il gusto e la stagionalità al centro: sono queste le sfide. Meno narrazione, più sostanza. Meno immagine, più identità. Perché alla fine, il cliente tornerà sempre dove ha mangiato bene. Non dove ha scattato la foto migliore. Forse il cliente oggi è più consapevole. O forse è solo più suggestionato. Forse lo chef è più preparato. O forse è solo più social. Nel dubbio, continuiamo a fotografare. E a pagare. Il piatto? Magari lo assaggiamo domani.

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