LA
NASCITA
DELL’ESPRESSO
ITALIANO
L’Espresso Italiano nacque dalla povertà e dall’ingegno per donare
piacere all’umanità e rappresentò una vera rivoluzione nel settore del caffè
Da noi la povertà ha sposato sovente l’ingegno
per offrire un’innovazione di buon gusto. Detto così si rasenta la retorica, ma
mai come nel caso dell’Espresso Italiano questo è veritiero.
In altri numeri di
questa rivista abbiamo trattato di come per tre secoli il mondo abbia cercato
il metodo per fare un caffè potente, rapido e piacevole.
Alla rapidità ci si
arrivò ben presto: bastava mettere acqua bollente su polvere di caffè ed ecco
la bevanda. Ma il risultato era tutt’altro che piacevole. Anche la potenza fu
raggiunta senza troppa difficoltà: già nell’Ottocento Brillat Savarin la
codificò mediante la regola della ribollitura. Ma anche qui non si poteva certo
parlare di un caffè piacevole. L’obiettivo della piacevolezza si raggiunse
mediante diversi tipi di caffettiere che vennero messe a punto tra il 1600 e il
1900, però a scapito della potenza e della rapidità. L’invenzione dell’espresso
è quindi da considerarsi una vera rivoluzione nel campo del caffè, ma non
bisogna pensare che si perda nella notte dei tempi. Se è vero che, nel 1857,
compare all’esposizione di Brescia la caffettiera a pressione di vapore di Giovanni
Maria Loggia in grado di erogare un caffè decisamente potente e che nel 1884
Angelo Moriondo brevetta, utilizzando lo stesso principio, una macchina ben più
grande, adatta ai pubblici esercizi, il profilo del caffè che si otteneva era
decisamente diverso dall’attuale. L’uso della pressione si presentava come la
soluzione ottimale per raggiungere la rapidità di esecuzione, ma anche e
soprattutto consentiva di esaurire meglio il caffè, con conseguente forte
riduzione dei consumi di polvere che, in una nazione povera con me la nostra,
costituiva un fatto di estremo interesse. Il risultato in tazza non era però
dei migliori: la bevanda si presentava nera e senza crema, di corpo modesto e
di aroma confinato nel tostato in quanto i caratteri più delicati venivano
azzerati dalla temperatura elevata.
Fino qui possiamo quindi parlare di
proto-espresso: era chiaro che la pressione andava bene, ma occorreva trovare
un’altra forza per generarla. Nel 1935 Illy ebbe l’idea dell’aria compressa,
confermando così la tesi. Ma per trovare al bar una tazzina che si avvicina
sensorialmente a quella di oggi, apprezzata in tutto il mondo, dobbiamo
attendere il dopoguerra con la nascita della macchina a leva di Achille Gaggia
e, definitivamente, il 1960 con l’applicazione della pressione idraulica
continua che portò alla costruzione della E61 della Faema.
Per comprendere le
origini dell’Espresso Italiano è però necessario fare un passo indietro di un
secolo. Infatti, se trovare una forza capace di imprimere una certa pressione all’acqua
non fu facile, non da
meno fu la creazione di un panello di polvere in grado di resistervi senza
lacerarsi consentendo all’acqua vie preferenziali che le permettono di
attraversarlo senza fare bottino dei preziosi costituenti contenuti nella polvere.
È forse qui che entra in ballo, ancor più che nella meccanica, la genialità e
il buon gusto italiano, perché quando si trovò la forma di pressione giusta ad
attenderla c’era già la miscela, elemento cardine dell’Espresso Italiano. Nel
suo manuale del 1845 il medico Antonio Picardi tratta con dovizia di
particolari della miscela come sistema inderogabile per migliorare la qualità
del prodotto in tazza, delle caratteristiche delle diverse origini e di come si
migliorano a vicenda, e persino dell’utilità di tostare le medesime
separatamente con livelli di cottura differenti. Non essendoci ancora le
macchine a pressione non poteva prevedere che la miscela avrebbe anche risolto
il problema della tenuta in quanto in macinatura i diversi tipi di caffè creano
fibre differenti per forma e dimensione, costituendo un intreccio che dona
robustezza. All’epoca del Picardi le miscele si ottenevano dalla sola specie
Arabica in quanto la Robusta fece la sua comparsa sul mercato solo nel 1925.
Costituì di fatto una nuova riduzione della qualità della tazzina, già
compromessa dalle modalità di preparazione sempre più rivolte a alla riduzione
della dose di polvere per risparmiare sull’uso del coloniale reso meno
reperibile anche dall’autarchia. Si presume quindi che nei primi decenni del
secolo scorso la qualità abbia avuto un decadimento, ma l’avvento delle
macchine di cui abbiamo parlato e la successiva liberalizzazione dei mercati,
unitamente all’aumento della ricchezza, portò all’attuale risultato. Un
contributo non indifferente al miglioramento della qualità lo diede anche il
perfezionamento dei macinadosatori che consentivano via via di standardizzare
curve granulometriche sempre più precise e la conseguente riduzione della
polvere ai 7 grammi attuali. Davvero un bel risparmio rispetto ai 13/15 grammi
necessari per la preparazione del proto-espresso. L’Espresso Italiano può
considerarsi a tutti gli effetti un’opera di ingegno in quanto nasce in una
nazione in cui scarseggiano tutti gli elementi per la sua produzione: i metalli
per le attrezzature, le risorse finanziarie per l’acquisto della materia prima
e persino le fonti energetiche indispensabili per la tostatura. Mancando di
carbone, i nostri torrefattori dovevano aggiustarsi con la legna, nonostante
neppure i boschi fossero abbondanti. Fino a metà degli anni Sessanta dobbiamo
quindi immaginarci veri virtuosismi nella tostatura per evitare che vampate
improvvise producessero note empireumatiche con conseguenti note di fumo e di
bruciato in tazza. La questione era ben più critica al Nord dove si continuava
a propendere per le tostature chiare e l’Arabica che, come si sa, è molto più
sensibile al calore rispetto alla Robusta. In effetti se l’espresso era amato
dall’Italia intera, non tutta l’Italia amava lo stesso espresso. La cultura
gastronomica delle diverse regioni si rifletteva anche sulla tazzina inducendo
i torrefattori a proporre miscele ad hoc per accontentare la clientela.
Ecco
perché i tentativi della fine degli anni Ottanta (e successivi) di normare
l’italica tazzina attraverso la ricetta della miscela e le regole della
tostatura fallirono. Ma nel 1993 nacque l’Istituto Internazionale Assaggiatori
Caffè che cominciò a studiare l’espresso sotto il profilo sensoriale attraverso
tecniche scientifiche relazionando le attese del consumatore al profilo
oggettivo del caffè in tazza.
Questo consentì all’Istituto Nazionale Espresso
italiano, fondato nel 1998, di giungere a una certificazione di prodotto sulla
base di un profilo di conformità capace di garantire il piacere all’utente
finale. L’impresa risultava di riuscita improbabile perché, come abbiamo detto,
non si trattava di un prodotto omogeneo, bensì di caffè con profili sensoriali
molto distanti tra loro in quanto figli di un’Italia che si estende per 10
paralleli (dal 37° al 47°) e, in senso longitudinale, per 11 meridiani (dal 7°
al 18°). Un’Italia in cui l’identità dei singoli stati che l’avevano composta -
non di rado affetti da cronica autarchia e quindi abituati a generare cucine in
funzione di quello che trovano nell’orto, nel cortile e nella stalla - si
rifletteva pesantemente sui gusti della rispettiva gente. L’Inei raccolse la
sfida, con l’intento di non ridurre questa enorme ricchezza prodotta dalle
culture locali, ma addirittura di enfatizzarla. Ed ecco che il profilo di
conformità generato permette di avere molti volti della qualità, tazzine
diverse, ma sempre capaci di donare piacere.
da L'ASSAGGIO
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