Il “modello Michelin” per l'alta ristorazione? “Insostenibile, serviva una guida italiana”
A dirlo è Marco Mangiarotti, critico musicale ed enogastronomico, storica firma de Il Giorno. Con lui abbiamo parlato del momento che sta vivendo la ristorazione, ma anche dell'imminente Sanremo che segue come cronista ininterrottamente dal 1981: “Anche lì mi godevo la mia passione per il cibo”
In tanti anni di carriera, Marco Mangiarotti è stato, ed è ancora, molte cose: giornalista (storica firma de Il Giorno, per cui lavora ancora oggi), critico musicale, critico televisivo, critico enogastronomico. Così, a pochi giorni dall'inizio di Sanremo e in un momento complesso per la ristorazione, soprattutto quella "alta", al centro del dibattito per la sua insostenibilità economica, lo abbiamo intervistato, per capire il suo punto di vista e per provare a capire il momento che vivono le sue due grandi passioni: la musica, appunto, e il buon cibo.
Marco MangiarottiDa Sanremo all'alta ristorazione: il punto di vista di Marco Mangiarotti
Partiamo dall'inizio: la musica. Quando è stato il suo primo Sanremo?
Nel 1981 e da allora li ho seguiti tutti, ininterrottamente. O meglio, fino all'anno scorso...
Quindi anche quest'anno non ci sarà? Perché?
Perché ormai è complicato seguire il Festival direttamente a Sanremo. La sala stampa è stata spostata dal roof dell'Ariston al Casinò. I giornalisti sono molto lontani da dove si svolgono le cose. Si fa tutto o quasi per telefono. Allora che senso ha andarci? Per i giornalisti è cambiato tutto. Prima eravamo in 15/20 inviati. Avevamo libero accesso agli Uffici Rai. Eravamo totalmente dentro il Festival, c'era un dialogo continuo. Ora ci sono migliaia di accreditati. Siamo nell'era dell'ipercomunicazione, che non è comunicazione. E quasi non esistono più le figure del critico musicale e televisivo.
Ma il Festival è sempre lo stesso o almeno così sembra da fuori...
Il Festival cambia in continuazione e spesso torna anche sui suoi passi. Quando ho iniziato io Sanremo era un grande evento per due ragioni: per la discografia e per chi organizzava i concerti. C'erano fortissime pressioni perché partecipare al Festival significava lavorare tutto l'anno sia con i live sia vendendo migliaia di copie. Numeri che giustificavano anche formule ambigue di voto. In sostanza, si investiva per comprare voti. Oggi non si vende più il supporto fisico, ma serve comunque vendere, streaming e musica dal vivo.
Lei il Festival l'ha vissuto da giornalista. Si riesce, in qualche modo, a godersi quella settimana? Come viveva lei Sanremo?
Ho sempre cercato di vivere la città e di aprirmi finestre mentali e di piacere. Per me Sanremo era anche andare alla ricerca di ristoranti che mi consentissero di non farmi avvelenare a prezzi esorbitanti. D'altronde dovevo alimentare questa mia grande passione per il cibo e per il vino...
Quindi avrà un luogo del cuore a Sanremo...
Paolo e Barbara è il mio luogo del cuore e la mia base quando vado a Sanremo. Non solo mia, in verità, ma di tutti gli artisti gourmet che sono al Festival. È un progetto straordinario, molto sanremese. Legato al territorio e che porta avanti una cultura del cibo importante. Negli ultimi anni Paolo e Barbara è stata una delle molle principali per tornare al Festival.
Questo mi sembra il perfetto punto d'incontro tra la musica, di cui abbiamo parlato, e la sua seconda passione, il buon cibo. Com'è nata?
Io sono nato nel 1948 e ho memoria di tutti i sapori che mi circondavano nella casa borghese in cui ho avuto la fortuna di crescere. Mio padre era medico e riceveva dai pazienti molti regali, soprattutto vini di altissima qualità. Con mio nonno, poi, ho vissuto esperienze da baby gourmand. Lui era un viveur, grazie alla scherma ha vissuto la sua vita tra Milano e la Francia. Amava il buon cibo, faceva la spesa da Peck e comprava la frutta da Moretti in Montenapoleone. Ho sempre avuto, quindi, l'abitudine di mangiar bene e la memoria dei cibi giusti. Mio padre conosceva questo piccolo negozio, dove trovavi eccellenze di cui si è iniziato a parlare trent'anni dopo.
E questa passione è diventata poi un lavoro...
Quando ho iniziato a fare il giornalista e a viaggiare, ho sempre cercato i posti giusti. Quando scrivevo di musica, non scrivevo soltanto di quello. Parlavo di luoghi, di sapori. A Milano c'erano posti incredibili. A Riccione di Giuliano Metalli, dove ho scoperto l'Ardbeg, che da allora è stato il mio whisky, e lo champagne Philipponat, ma anche il Gran San Bernardo di Alfredo Valli, tempio della cucina milanese negli anni '60 e '70. E poi, quando finivamo al giornale, andavamo da Gualtiero Marchesi. In cucina c'erano Leemann, Cracco, Oldani, Crippa. Posti che sono stati la base di tutto ciò che è venuto dopo. Ho sempre sentito la necessità di parlarne e ho iniziato a farlo con frequenza quando sono uscito dalla macchina del giornale, seguendo alcune direttrici a me care.
Vale a dire?
Lo slow food, in primis, ma in maniera distante dal lato ideologico. Partendo, invece, dal lato agricolo, da chi fa le cose. Perché dietro a un prodotto ci sono storie di persone, non di showman, di gente e di famiglie che portano avanti tradizioni che partono dalla terra. E poi il mondo delle trattorie e della cucina di territorio, che negli anni '80 hanno avuto un'involuzione a causa di piatti che erano moda, preferita alla tradizione.
Venendo all'oggi, il dibattito ruota attorno alla sostenibilità dell'alta ristorazione. Lei si è fatto un'idea di cosa non stia funzionando?
Il problema esiste sicuramente, anche perché i grandi chef solitamente non sono grandi manager. Il problema principale secondo me è però un altro ed ha un nome: Guida Michelin.
Cosa intende?
Quando ero ragazzo, ma anche quando ero un giovane adulto, tutti i veri gourmand non seguivano la Michelin, ma la Gault Millau. Quello sarebbe stato il momento di dare vita a una guida italiana di livello, ma nessuno è stato in grado di farlo. Si è lasciato spazio alla Michelin che è una guida francese, di lusso e con parametri assurdi. Un conto è se lavori per un hotel di lusso per miliardari, un altro è dover tenere certi parametri in un ristorante normale: significa costringere un imprenditore, per lavorare, a investire migliaia di euro solo per avere l'onore di essere visitato da questi signori.
Quindi gli standard dettati dalla Michelin sono per lei insostenibili?
Il modello Michelin è insostenibile, impossibile da gestire in questi termini. La loro mission è fare guerra ad alcune realtà italiane. Fare la guerra a Milano, che si è presa la scena al posto di Lione. In tanti l'hanno capito e hanno capito che si può fare una ristorazione di livello anche senza avere stelle. Chiaro, una stella fa curriculum, soprattutto per le grandi catene, a cui gli chef guardano per collaborazioni e altro, e molti chef stellati sono addirittura sottovalutati. Ma a che prezzo?
Detto questo, qual è allora la strada alternativa?
La gente, e questo trend è emerso ancora più chiaramente dopo la pandemia, vuole una cucina concreta. L'avanguardia e la sperimentazione non sono per tutti. Servono meno fuochi d'artificio, meno effetto wow, in completa opposizione al modello Michelin. Un ritorno alla connessione diretta con i prodotti, che non vuol dire per forza Km0, ma un legame forte con il territorio che ti permetta di portare in tavola il meglio che c'è, senza disdegnare sfizi da tutto il mondo. Va ripensato, in sostanza, il modello del fine dining, che è stato importante per la crescita della ristorazione di qualità, ma ora deve essere più a fuoco, più concreto.
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