domenica 16 marzo 2025

La rivoluzione dei vini naturali è finita?

 

La rivoluzione 

dei vini naturali 

è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Il modello di comunicazione del vino è obsoleto, afferma Raffaele Bonivento di Meteri in questa intervista. Dopo la rivoluzione del vino naturale, emerge un nuovo classicismo basato su identità e finezza. Meteri punta su selezione rigorosa e autenticità, sfidando la standardizzazione e costruendo un rapporto più profondo con consumatori e ristoratori

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Imodello di comunicazione del vino è «vecchio e stantio», avverte Raffaele Bonivento, fondatore dell'azienda veneta di distribuzione Meteri. Eppure la “rivoluzione” dei vini naturali è finita, perché è venuto il tempo di un nuovo classicismo. E attraverso un percorso centrato sul concetto di “identità” racconta come vorrebbe ripensare il rapporto con il calice

Chi è Raffaele Bonivento

Bonivento ha stappato bottiglie con produttori oggi diventati icona e con giovani scapestrati che hanno inventato il concetto di “vini naturali”, girava e gira la Francia alla ricerca di piccoli vigneron capaci di soddisfare i requisiti minimi di “identità” che cerca nei suoi vini. E soprattutto ha dedicato passione e intraprendenza al progetto Meteri, la sua piccola (non più così piccola) distribuzione che, in undici anni di lavoro e selezione maniacale, ha proposto sul mercato Horeca e al consumatore diretto referenze della viticoltura mondiale che vuole siano riconoscibili.

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Raffaele Bonivento, fondatore dell’azienda veneta di distribuzione Meteri.

Abbandonando le concezioni prevedibili dei vini “convenzionali”, Bonivento ha voluto dare il giusto valore e spazio ai vini artigianali, ricchi di personalità e storia, che raccontino un territorio attraverso i suoi vitigni e le mani di chi alleva e vinifica le proprie uve. Storie di contadini, uomini, imprenditori e vignaioli. E proprio questa strada - nelle sue parole raccolte nell'intervista per Italia a Tavola - sembra per l'imprenditore l'unica per dare un futuro al vino, nonostante una certa distanza che i nuovi consumatori stanno mettendo tra sé e il calice.

Il ruolo del distributore

Bonivento, come si interpreta oggi il ruolo del distributore?
Alla fine, dobbiamo fare cultura. Abbiamo clienti che al ristorante spendono 100 euro per mangiare il pesce e poi hanno sei vini da grande distribuzione in carta e un bicchiere fatto in Cina da 1,38 euro. Però non è sempre una scelta consapevole da parte del ristoratore, perché anzi molto spesso è appunto una questione di mancanza di cultura. 

E quindi come gestite il rapporto con i produttori?
Quando vai da loro e dici: “Vuoi una mano?”, la risposta quasi sempre è: “Sì, grazie.” È qui che interveniamo noi. Come azienda, abbiamo sempre avuto una forte attenzione all'aspetto culturale, perciò portiamo soluzioni: facciamo formazione, creiamo la carta dei vini, forniamo i calici giusti e spieghiamo quali calici usare con quali vini. Ho fatto questo lavoro con Italesse: abbiamo codificato tre bicchieri e ora tutti i nostri vini vengono distribuiti in associazione con il calice adatto.

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Raffaele Bonivento girava e gira la Francia alla ricerca di piccoli vigneron

E una volta coinvolto l'intermediario, cosa significa lavorare sulla cultura nel proporre il vino al consumatore di oggi?
È una domanda immensa. La risposta dipende dal tipo di vino di cui parliamo. Ci sono vini intellettuali e vini glamour. Per il vino glamour la cultura non serve a niente, mentre per il vino intellettuale è fondamentale. Il vero rischio è capire cosa succede quando l'intellettuale diventa glamour, perché c'è in effetti una tendenza a rendere glamour l'intellettuale. Meteri nasce come una selezione che ruota attorno all'idea di cultura, bella e profonda. Probabilmente siamo stati tra i primi a portare un approccio di marketing nel mondo della selezione e distribuzione del vino, che tradizionalmente non aveva un marketing strutturato. Ma io ho sempre voluto ricordare a tutti che dobbiamo avere una storia da raccontare. E quella storia deve essere vera. Ci sono storie da Mulino Bianco, con tutto il rispetto per Barilla, e poi c'è la ricerca autentica, quella che va fino in fondo. Se venite in Francia con me potreste rimanere sbalorditi: entriamo nelle case dei produttori, nelle vigne, nel tessuto locale con un livello di profondità unico. Questo non lo fanno molte aziende di distribuzione, che spesso affidano la selezione a un sommelier esterno o a un consulente. Per questo, molti portfolio risultano incoerenti.

Vendere il vino, la chiave è la riconoscibilità

Come si costruisce la coerenza nel portafoglio?
Quando assaggio un vino, posso dire: “Questo si potrebbe vendere bene”, ma se non ha il profilo per essere Meteri non se ne fa nulla, non entra in selezione. Sono molto attento a essere riconoscibile per il mio consumatore, che sta a valle del ristoratore. Il valore del marchio è un valore intrinseco, autentico. Se faccio solo un bel contenitore e un bel packaging, il valore diventa più labile, più fragile. Voglio che chi beve la terza, la quarta, la quinta volta un vino distribuito da noi possa dire: “Adesso ho capito perché questo Chablis è Meteri e perché un altro no.”

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Il vino deve esprimere il proprio territorio

Dunque quali vini hanno il pedigree per diventare Meteri?
Un vino è Meteri quando, nei suoi contenuti gusto-olfattivi e nel suo percorso produttivo, agricolo e sociale, possiede alcune caratteristiche per me fondamentali e irrinunciabili. Innanzitutto pulizia e freschezza. Un vino deve restituire sensazioni di pulizia, con una bevuta giocata su freschezza e sapidità. Da bevitore, queste sono le caratteristiche fondamentali che mi fanno desiderare un altro sorso o un altro calice. Voglio una bocca costantemente rinfrescata e alimentata dalla sapidità. Poi naso delicato, mai sfrontato. Non sopporto le note vanigliose, né i profumi eccessivamente floreali o artefatti. Non riesco nemmeno a entrare in quei negozi pieni di saponi e profumi intensi e se una persona è troppo profumata fatico a starle vicino, figuriamoci se devo bere un vino. Preferisco un naso poco espressivo a uno sfrontato. Considerando il legno, lo riconosco come strumento, non come ingrediente. Il sapore di legno nel vino lo considero un grande difetto. Spesso il legno utilizzato è di scarsa qualità e viene mascherato con tostature e altri artifici. Il profumo di legno, per me, è difficilmente sopportabile. Voglio nasi discreti, puliti. Inoltre non sono un amante delle dolcezze stucchevoli, ma adoro i vini dolci quando hanno una grande acidità a bilanciarli. Ice wine, grandi passiti come il Recioto: ecco, sono un grande sostenitore di questo mondo. Al contrario, non riesco a bere bollicine dosate: da noi troverete raramente bolle con dosaggio.

Ci sono anche requisiti legati al territorio?
Da un punto di vista agricolo, il non diserbo è una regola di vita. Anche quando scelgo un pomodoro o una zucchina, trovo che il diserbo sia anacronistico e da mettere al bando. L'agricoltura biologica non è un obiettivo, è il punto di partenza. Tutti i miei produttori sono biologici o biodinamici, certificati o meno. Ma il certificatore, in un certo senso, siamo noi: andiamo in cantina, in vigna, osserviamo, annusiamo, valutiamo. Non ci limitiamo a guardare fatture e scartoffie come fanno alcuni enti certificatori.D'altra parte è essenziale la tipicità. Nel mondo del vino, come nella musica, se vuoi vendere milioni di bottiglie devi inserire determinati elementi, come il ritornello entro i primi dieci secondi di una canzone commerciale. Così, nei vini bianchi destinati al grande mercato trovi sempre profumi di fiori bianchi e frutta a polpa gialla. Ma per noi, la tipicità è qualcosa di diverso, qualcosa di autentico. Se proponi un Fiano, un Carricante o un Riesling dell'Alto Adige e questi vini risultano identici al naso, con uno spettro aromatico sovrapponibile e un gusto internazionale, venderai. Eppure io vado nella direzione opposta. Se ho 500 vini in portfolio, voglio che siano 500 vini con 500 identità. Se due vini sono uguali, non ha più senso averli. Per questo ho lavorato tanto sugli autoctoni, rifuggendo la standardizzazione. Se bevi uno Chardonnay da me, sarà quasi sempre della Borgogna o di qualche altra regione francese dove questo vitigno è storicamente radicato. Non ti proporrò 30 Chardonnay italiani, né 27 Cabernet Sauvignon italiani.

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Raffaele Bonivento vuole che il vino che distribuisce sia riconoscibile

Sono in fondo preconcetti?
Non credo, non escludo nulla in assoluto. Se un giorno trovassi un Pinot Nero toscano con un vero senso, potrei fare un'eccezione. Però, in generale, il mio approccio è chiaro: quando mi invitano ad assaggiare un Pinot Nero toscano, lo faccio, ma so già che quasi sicuramente non entrerà in selezione. Lo stesso vale per uno Chardonnay marchigiano o siciliano (che peraltro adesso è stato in gran parte sostituito dal Grillo). L'identità è fondamentale: ogni vino deve avere un motivo di esistere. Questo principio guida il mio lavoro e si riflette nei rapporti con i sommelier, con i ristoratori, e infine con il consumatore finale. Ho imparato che tutti i fenomeni di successo nel lungo periodo sono storie di coerenza. E io cerco di non deludere mai le aspettative che ho costruito in questi undici anni di lavoro.

Il rigore forse non era la scelta più facile all'inizio…
Quando ho iniziato, giravo con il mio Berlingo carico di bottiglie e probabilmente il primo Coravin d'Italia l'ho comprato io. Avevo 70 bottiglie coravinate, perché non potevo permettermi di stapparle tutte ogni volta dato che il budget era ristretto. Arrivavo nei ristoranti, anche nei templi dell'alta cucina, e venivo trattato come un venditore qualunque. Ma avevo fiducia nei miei vini e non mi sono mai svenduto. Se percepivo interesse, dicevo: “Ho qualcosa in macchina'”, andavo a prendere due bottiglie e le facevo assaggiare. Se l'interesse cresceva, tiravo fuori il resto. Capitava che in un ristorante tre stelle Michelin, inizialmente accolto con freddezza, dopo un'ora e mezza fossi circondato da sommelier, chef e staff, con tutti i vini sul tavolo. È così che, mostrando coerenza tra racconto e bicchiere, abbiamo costruito credibilità. Ovviamente il marketing ci ha aiutato, perché per far conoscere un marchio serve anche comunicazione. Il posizionamento è essenziale: tutti emuliamo qualcuno, cerchiamo maestri. Nella ristorazione funziona così: lo chef, nel suo giorno libero, va a mangiare da un collega bravo. Ho capito che se riuscivo a mettere i miei vini nei ristoranti giusti, avrei creato una riconoscibilità che avrebbe poi facilitato la vendita altrove.

Vini naturali, la rivoluzione è finita

Questo approccio arriva alle scelte del consumatore finale?
La prima domanda da porsi è se il consumatore di oggi beve ancora vino come un tempo. Non è scontato. Il mercato è cambiato e questo è un tema delicato. Poi, io sono stato tra i primi promotori del movimento dei vini naturali. Ho iniziato nel 2000, quando facevo tutt'altro nella vita. Eppure già allora intuivo che il vino doveva essere qualcosa di più di un semplice prodotto da vendere: doveva avere una storia, un'identità, una coerenza. Ed è su questo che ho costruito tutto il mio lavoro. Già al tempo qualcuno parlava di “vini sani”, e io dicevo: “Signori, il vino sano è un concetto poco prudente”. Perché siamo tutti consapevoli del fatto che il vino è una bevanda intossicante, però nutre lo spirito - come insegnava il professor Perullo a Pollenzo. Quindi noi è vero che possiamo avere un corpo in perfetta armonia, in perfetta forma, se però poi siamo depressi o nevrotici probabilmente non conduciamo una bella esistenza. Quindi il vino, come tutte le droghe di tutte le civiltà, alimenta lo spirito. Io sono uno che ama la pratica del salotto come forma d'arte, mi piace mettere insieme personalità diverse, vedere cosa succede a tavola, e il vino è fantastico perché ha il potere di favorire queste situazioni.

La rivoluzione dei vini naturali è finita? È ora del nuovo classicismo della finezza

Al racconto del vino deve seguire la sostanza
 

Quindi le campagne salutistiche applicate al vino sono esagerate?
È vero che il vino, da un certo punto di vista, fa male, ma cos'è che non fa male? Lo zucchero fa male, il vino fa male, la farina fa male, la carne fa male. Io ho un amico che vive mangiando miglio e zucchine, probabilmente morirà sanissimo eppure molto triste. Quindi io non posso sicuramente invitare la gente a bere in modo dissennato, però posso dire “bevete bene”. Perché alla fine nei calici ci deve esser qualcosa da godere, non si può godere solo del racconto. Cioè, con il racconto ti preparo, però poi il godimento ce l'hai quando bevi e assieme assaggi un pezzo di formaggio di quella valle, un'acciuga del Cantabrico, i capperi o un risotto fatto a regola d'arte. Se invece non c'è riscontro è fuffa. E io di vendere fuffa non c'ho voglia.

Ma la fuffa funziona?
A volte può funzionare e portare anche un sacco di soldi. Però io ho creato Meteri perché, a un certo punto nella mia vita, ho scelto di lasciare le multinazionali e di fare qualcosa che andasse bene per me. E quindi ecco la regola numero 1: faccio azienda come piace a me. Quindi il business è importante, però non è l'unico focus. Ci deve essere anche una parte di soddisfazione interiore. E io ce l'ho nel sangue questa cosa di viaggiare, di portare ricordi con me che sono bottiglie di vino, perché probabilmente sono un veneziano mercante nel Dna. Ecco, questo è il mio gioco. Non lo faccio perché mi diverto, ma perché è una parte di me.

Questo gioco funziona anche con i giovani?

Non so se sia vero o meno, ma si dice che i giovani non bevono. Invece i giovani non bevono vino, è questo il punto. Il racconto del vino, l'immagine che si crea intorno al vino, il modello di marketing che lo circonda sanno di stantio. È tutto vecchio. I ragazzi ci ridono in faccia e hanno ragione, è roba da boomer. Il vino glamour, quello che si lega all'immagine del tramonto con i cipressi e le balle di fieno, che il mondo del vino ha cercato di replicare all'infinito, è ormai stancante. I ragazzi non ne vogliono più sapere. E infatti il vino naturale è stato dirompente, ha rotto quella visione perché ha creato una community. E poi c'era anche l'etichetta irriverente, con i disegni fatti dai bambini, che all'inizio era divertente, fuori dagli schemi, ma poi è diventata stucchevole. Alla milionesima etichetta disegnata da un bambino, al cinquemillesimo produttore con le mani callose che non risponde al telefono, al quattromillesimo racconto, la gente ha perso l'entusiasmo.

Quindi anche il trend dei vini naturali appartiene al passato?
La rivoluzione ha le sue derive. E oggi, secondo me, siamo in una fase nuova. La rivoluzione è finita e sono rimasti i rivoluzionari cronici, quelli che moriranno facendo la rivoluzione perché non hanno capito che è finita. Se al Noma di Copenaghen ti danno aceto e ti dicono che è vino, tu sei svedese e dici: “Ma che buono”, perché non hai il punto di riferimento per riconoscere la differenza. E questo è il paradosso del vino naturale. La rivoluzione ha fatto delle cose eccezionali, ma anche degli errori. E allora dalla rivoluzione sta nascendo un nuovo vino, con una convergenza interessante tra i produttori di vini convenzionali e quelli naturali. C'è un nuovo stile che sta emergendo, ma se ci fosse una convergenza sulla vigna, sarebbe ancora meglio. Le nuove generazioni stanno facendo delle scelte consapevoli, ma sono anche disposte a mettere in discussione le tradizioni. Questo è un nuovo classicismo, rivisitato, che punta sulla sottrazione, con un approccio che va verso la purezza del vino, un vino che non cerca l'eccesso, ma la finezza.

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