Per essere sommelier
o camerieri,
bisogna prima innamorarsi dell’Italia
Il sommelier abruzzese Mario Ippoliti racconta il suo percorso: dai banchetti di provincia alla guida del beverage del ristorante di Sadler a Milano. La sua filosofia è chiara: la sala non è un semplice luogo di servizio, ma uno spazio di cultura, emozione e identità italiana. E prima ancora di parlare di vino, bisogna innamorarsi del Paese che lo produce
Redattore
«Prima di parlare di cibo o vino, bisogna innamorarsi dell’Italia. È impossibile conoscerla tutta, ma ogni volta che scopri un vitigno o un borgo nuovo capisci quanta ricchezza abbiamo». Non è uno slogan, ma la bussola con cui Mario Ippoliti orienta ogni servizio in sala. Sommelier abruzzese classe 1990, oggi alla guida della parte beverage del ristorante di Claudio Sadler a Milano, incarna una nuova generazione di professionisti che non si limitano a servire un calice: lo raccontano, lo fanno vivere, lo trasformano in un viaggio dentro territori, storie e persone. La sua è la parabola di chi è partito dai banchetti di provincia per approdare ai ristoranti stellati, ma senza mai perdere di vista ciò che conta davvero: l’Italia, la sua ricchezza e la capacità di trasmetterla con semplicità e passione.

Nel corso dell’intervista a Italia a Tavola, Ippoliti racconta sì le tappe del suo percorso, ma soprattutto riflette sul ruolo del sommelier oggi: la necessità di saper comunicare il vino con semplicità, l’importanza della formazione e il valore del lavoro in sala come forma d’arte e di relazione umana. Un dialogo che tocca temi attuali come il rapporto fra giovani e vino, il cambiamento del pubblico dopo la pandemia, la (ormai arcinota) difficoltà nel trovare personale qualificato e la rinascita della sala come spazio di cultura, fiducia e bellezza.
Dalla banchettistica ai ristoranti stellati
Il primo amore, ricorda, è stato proprio per l’ospitalità. «Quando si ricevevano persone a casa, provavo piacere nel poter condividere ciò che si era preparato - racconta. Mi affascinava l’idea di trasmettere un’emozione attraverso il cibo e l’accoglienza». Un’attitudine naturale che si è radicata fin da bambino, anche se il suo percorso di studi inizialmente sembrava portarlo altrove: un diploma tecnico commerciale, l’amore per la matematica e un orientamento da programmatore informatico. Nel fine settimana, però, la passione prendeva il sopravvento. A soli 15 anni comincia a lavorare nella banchettistica: «Quel lavoro del venerdì, sabato e domenica mi entusiasmava sempre di più - ricorda. A 21 anni l’azienda per cui lavoravo mi propose di diventare responsabile di sala. Da lì ho iniziato a gestire la ristorazione, i banchetti e tutto ciò che ruotava intorno all’esperienza dell’ospite». Parallelamente cresceva la curiosità per la cucina: conoscere i prodotti, le tecniche, le materie prime.
La svolta milanese e la chiamata di Claudio Sadler
Nel 2016 arriva il diploma da sommelier Ais: «Volevo completare la mia visione: dall’accoglienza e dal servizio fino alla direzione di sala e alla cucina, il vino era l’anello mancante». L’esordio, qui, arriva con piccoli eventi e degustazioni nella sua città, dove organizza i primi aperitivi tematici. Poi, nel 2018, la svolta: «Mi chiamò Federica Racinelli, al tempo maestra di lievitazione di un molino. Mi disse che a Milano stava aprendo una pizzeria gourmet con cucina, guidata dall’executive di Jamie Oliver. Non ci ho pensato due volte». Milano, capitale del fine dining, lo accoglie in un contesto in cui pizza e alta cucina convivono con naturalezza. Dopo un anno e mezzo al ristorante Cenerè, in zona Cadorna, arriva la telefonata che cambia tutto: quella di Claudio Sadler, uno dei maestri della cucina italiana: «Era proprio lui, al telefono. Mi disse che cercava un sommelier. All’inizio ero titubante: non sapevo se fossi davvero pronto per un ristorante stellato. Ma ho accettato. Ed è iniziata una nuova avventura».

Dal gennaio 2019 Ippoliti lavora al fianco di Sadler, diventando negli anni sempre più una figura chiave del suo ristorante. Nel 2021 i due aprono insieme un locale in Sardegna (Gusto by Sadler, ndr), che in soli sei mesi conquista un’altra stella Michelin. Oggi Ippoliti dirige la parte beverage, coordinando tutto ciò che riguarda vino, birra, acqua e caffè, la sua grande passione. Con lo chef costruisce una carta vini che passa dalle 500 etichette iniziali alle oltre 1.400 del 2025: «All’inizio il budget era limitato, serviva a coprire le bottiglie iconiche, quelle di comfort zone - spiega. Ma io volevo cercare, scoprire, raccontare l’Italia più autentica. Così ho iniziato a viaggiare e a dare voce ai piccoli produttori».

Un wine pairing che racconta l’Italia
Nasce così un approccio personale e sperimentale al wine pairing: «Non imposto regole. L’obiettivo è costruire un’esperienza che permetta al cliente di viaggiare nel bicchiere». La sua ricerca lo porta a valorizzare vitigni poco noti: «Oggi al calice propongo senza problemi Magliocco calabrese, Biancolella campana, vini marchigiani, umbri, abruzzesi e sardi. Mi interessa ciò che è vero, territoriale, sincero. Il calice è un biglietto da viaggio. Quando scelgo un vino, parto dal produttore, che dev’essere umile e sincero, poi guardo la zona, l’annata e il motivo per cui lo stiamo aprendo». Persino la temperatura diventa parte del percorso: «La stessa bottiglia, servita a due gradi diversi, cambia completamente. A volte utilizzo lo stesso vino su due piatti differenti, per mostrare come il gusto possa virare dal centro bocca alla nota aromatica». Questa sensibilità lo ha portato a costruire una sommellerie d’esperienza: «Mi piace raccontare il vino come se fosse un viaggio, non un dogma - spiega. Il mio lavoro è creare emozione, far dialogare il gusto con la memoria».
Comunicare il vino alle nuove generazioni
Secondo Mario, però, oggi, il mondo del vino sta attraversando una fase di transizione profonda, soprattutto nel modo in cui viene percepito e comunicato. «Oggi convivono due tendenze molto diverse - spiega -. Da un lato, i social come Instagram veicolano messaggi veloci, spesso semplificati o confusi. Si parla di Chianti o di Sangiovese in pochi secondi, ma senza approfondire davvero. Dall’altro, cresce il bisogno di chiarezza, di curiosità e di accessibilità. Se comunico il vino con troppa complessità, rischio di allontanare chi non si sente all’altezza di capirlo». Per Ippoliti, quindi, il ruolo del sommelier moderno è proprio quello di trovare un equilibrio tra competenza e leggerezza: «Serve umiltà, un linguaggio diretto e la capacità di creare confidenza. A volte basta dire al cliente: “Ho un’idea per te, fidati, se non ti piace ne apriamo un’altra”. Quello che conta è far nascere la conversazione, perché è dal dialogo che nasce la curiosità. Magari uno assaggia un vino calabrese e il giorno dopo decide di partire per scoprire i vigneti di quella regione».

Proprio questo senso di distanza e complessità, osserva Ippoliti, ha contribuito ad allontanare anche i giovani dal mondo del vino: «Oggi molti preferiscono scelte più immediate, come la birra o la mixology, perché il vino viene ancora percepito come qualcosa di troppo complesso o elitario». Eppure, sottolinea, proprio la mixology può rappresentare una porta d’ingresso preziosa per riavvicinarli: «Il linguaggio dei cocktail è immediato, visivo, curioso: riesce a coinvolgere chi magari non si è mai accostato al vino. Dovremmo imparare da questo approccio, raccontando il vino con la stessa freschezza, ma senza perdere profondità. La spontaneità non deve mai sostituire la conoscenza: studio, geografia e produttore restano fondamentali».
Giovani, formazione e cultura del lavoro
Ma il tema dei giovani torna anche su un altro fronte, quello della formazione e dell’ingresso nel mondo della ristorazione. La carenza di personale qualificato è una realtà che Mario Ippoliti vive ogni giorno: «Il primo grido d’aiuto lo rivolgo agli istituti - spiega. Molti ragazzi arrivano in sala o in cucina senza una preparazione concreta al mondo del lavoro. Le scuole dovrebbero trasmettere non solo le regole del servizio, ma la cultura della professionalità: la puntualità, la cura personale, il lessico, l’inglese, l’amore per la divisa». Secondo lui, serve un collegamento più reale fra scuola e ristorazione, fatto di esperienze e formazione sul campo. «Tanti studenti pensano che basti impiattare, ma non sanno che dietro c’è la scelta di un ingrediente, la tecnica di cottura, la gestione della cantina, il bilanciamento dei costi. Dovremmo insegnare anche questi aspetti: come costruire una carta vini coerente con la cucina del ristorante, come rispettare un budget. Spesso vedo carte chilometriche, bellissime ma inutili, perché mancano di logica e di equilibrio».

Alla base, però, per Ippoliti manca qualcosa di più profondo: la cultura del lavoro. «I giovani hanno perso il concetto stesso della parola “lavoro”. Lavorare significa sacrificio, e il sacrificio porta felicità. Ma oggi si cerca l’immediatezza, si vuole arrivare subito al risultato, mentre per costruire qualcosa di solido serve tempo. Un servizio in sala dura due ore, ma è il frutto di un intero pomeriggio di preparazione. Bisogna tornare ad amare questo mestiere, a viverlo come uno scambio di emozioni. Il cliente viene da te, e tu sei il tramite tra lo chef, il produttore e la sua esperienza. È un privilegio enorme». Per il sommelier abruzzese, la sala deve tornare a essere percepita per ciò che è: il cuore dell’accoglienza italiana. «È il luogo in cui si uniscono mondi diversi - dice -: il lavoro del vignaiolo, la creatività dello chef, la sensibilità di chi serve e racconta. I giovani dovrebbero capire che non si tratta di un mestiere secondario, ma di un’arte umana e relazionale».
La passione come chiave del futuro
Per lui, la passione è la vera discriminante: «Chi è tenace resiste. I ragazzi che hanno scelto di restare, oggi, stanno raccogliendo i frutti della loro dedizione». E ai giovani che si affacciano a questo mondo, il consiglio è chiaro: «L’amore per questo mestiere non si insegna, ma si coltiva. Avere la possibilità di far sorridere qualcuno, di trasmettere benessere, è qualcosa di prezioso. Lavoriamo con due elementi universali: la fame e il pensiero. Siamo lì per nutrirli entrambi. È un lavoro che ti mette in contatto con il mondo. Ti permette di viaggiare, di conoscere produttori, di parlare con persone diverse ogni giorno. È un mestiere dinamico, mai uguale a se stesso: anche se il piatto è lo stesso, cambia l’ospite, cambia il racconto, cambia l’energia». Il suo invito finale è un atto d’amore verso il Paese che rappresenta ogni giorno in sala: «Prima di parlare di vino, bisogna innamorarsi dell’Italia. È impossibile conoscerla tutta, ma ogni volta che scopri un vitigno o un borgo nuovo capisci quanta ricchezza abbiamo».
Il valore umano dell’accoglienza
Insomma, le sue parole racchiudono il senso più autentico del mestiere: la sala come luogo di cultura, di ascolto e di identità. In un’epoca in cui tutto corre veloce, Mario ricorda che l’ospitalità resta un gesto profondo, fatto di tempo, conoscenza e rispetto. Perché l’Italia non si racconta in un bicchiere, ma in una sala piena di persone che scelgono di ascoltarla. Dietro ogni calice c’è una storia, un territorio, un’emozione da condividere. Il vino passa, la passione resta. Ed è quella che, ogni sera, fa la differenza fra un servizio e un’esperienza.


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