lunedì 29 settembre 2014

TRA I QUATTRO SAPORI VINCE IL DOLCE

La via italiana al piacere 
Dolce, amaro, salato, acido

Dolce, amaro, salato, acido. I quattro sapori che Aristotele
poneva come punti cardinali del gusto sono stati di recente disposti dagli antropologi in un quadrangolo culinario.

L'ultimo moscato di Michele Chiarlo
Mentre continua l'interesse, nelle Scienze Sociali, per la "Storia Naturale dei Sensi" si comincia oggi a pensare a una "Storia Naturale dei Sapori".
Quando qualcuno la scriverà, ne uscirà un nuovo importante aspetto della storia della gastronomia, del costume, del gusto, della lingua e della cultura.
E la storia dei nostri vini dolci si troverà a brillare, opportunamente incastonata in quella del "dolce", sapore italico simbolo della nostra culinaria e della nostra enologia come della nostra qualità della vita.
Nei secoli il dolce, sapore principale, si è incontrato nella nostra gastronomia con gli altri tre sapori principali (il secco, il piccante, l'agro ed altri che noi chiamiamo comunemente sapori sono riconducibili, nella teoria di matrice aristotelica, a quelli della quaterna originaria) con importanti risultati, che sono rimasti capisaldi nella storia del gusto.
Dolce più amaro, nel Rinascimento italiano, hanno prodotto gli amaretti e l'amaretto che oggi beviamo nel nome di Saronno Pi amaretti, Pellegrino Artusi (autore del manifesto della cucina per l'Italia unita) propone due ricette: una usa 100 grammi di mandorle dolci e 50 di mandorle amare, l'altra usa rispettivamente 180 e 20 grammi.
Dolci e amari insieme sono anche i famosi ricciarelli senesi, che in antico erano fatti con mandorle dolci e càtere amare, sapientemente miscelate. Artusi propone la proporzione di 200 grammi di mandorle dolci per 20 grammi di mandorle amare.
Dolce e salato, invece, non si sono incontrati con apprezzabili risultati. Forse perché il "sale dolce" in italiano è secolare sinonimo di stupidità.
Già il Boccaccio nel Decamerone (Novella 2, giornata terza) parla di una "Donna 'Zucca al vento, la quale era anzi che no, una poco dolce di sale…". Cinque secoli dopo Niccolò Tommaseo scriveva nel suo vocabolario "Dolce di sale. Uomo di troppa semplicità, segnatamente nella pratica della vita. Eufemismi invece di sciocco."
Dolce e acido, nella tradizione italiana, hanno prodotto le diverse preparazioni in dolce e forte, come quelle della lepre o del 'cinghiale dolce-forte' caro all'Artusi, fatto con una base di zucchero e aceto e poi con cioccolata, uvetta passolina, pinoli e canditi. Possiamo anche ricordare il baccalà dolce-forte e tutte le preparazioni in agrodolce (come le cipolline in agrodolce) e in dolce-piccante come quelle con miele e peperoncino, o zucchero e zenzero, che hanno conosciuto una certa fortuna nella cucina di avanguardia degli ultimi anni.
Recioto della Valpolicella  di Villa Girardi
Il dolce, avverte il Vocabolario della Crusca del 1612, caposaldo della storia della lingua italiana, "è sapore temperato, rispetto alle qualità prime, e attissimo al nutrire, e grato al gusto".
Apicio (25 a.C.) dà una ricetta per il vino meraviglioso spezziato, e un'altra di vino al miele con spezie per il viaggio, avvertendo che "si conserva a tempo indefinito e di cui possono disporre i viaggiatori per la via. Ecco la ricetta: Metti del pepe tritata con il miele schiumato in una scodella come per il vino alle spezie, e quando si vuole bere, a seconda del bisogno, si aggiunge la quantità miele al vino e si mescola; ma se il recipiente è capiente, si mescola al vino e miele un po' di vino per facilitare la soluzione del miele." Miele, vin cotto e passito, in un equilibrato miscuglio, dolcificavano sempre le salsette di Apicio.
Marco Terenzio Varrone (nella Saturae Menippeae) afferma che "il vino è un dolce vivaio d'allegria". Trasportandolo nella psicologia, e nella religione lo porta Orazio che nelle Odi, saluta "Fonte Bandusia, luce di cristallo, /come vini dolci e corone di fiori/ domani ti consacrerò un capretto…"
In un altro passo, Orazio eleva il dolce alle più alte vette del patriottismo, sentenziando che "Dulce et decorum est pro patria mori". Le antiche preghiere cristiane si rivolgevano a Maria nominandola dolce madre di Cristo; il Patriarca la chiamerà "Vergine dolce e pia".
La valenza semantica, sempre positiva, del "dolce" continuerà ininterrottamente nella nostra letteratura, sacra e profana. Per fare solo alcuni esempi dei più antichi e dei più noti, Caterina da Siena scriveva terribili pontefici intestando "Babbo mio dolce" mentre Boccaccio ricorda in una novella (la prima della prima giornata) "la mamma mia dolce che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte".
Dante (Purgatorio. c I vv. 13-14) presenta il dolce in un'immagine sinestetica che lo rende qualità del più pregiato calore: 'Dolce color d'oriental zaffiro/ che s'accoglieva nel sereno aspetto."
Petrarca che in un famoso sonetto (n. 70) ricorda i capelli d'oro di Laura, avvolti in "mille dolci nodi", e altrove "il dolce riso" della sua donna addirittura dedica con vero virtuosismo poetico un intero sonetto (n.173) alte variazioni sul terna del dolce, scrivendo "Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci./ Dolce mal, dolce affanno e dolce peso/ Dolce parlar, e dolcemente inteso/ Or di dolce ora, or pien di dolci faci/"
I vini dolci la fecero da padroni nelle mense medioevali, i moscadelli in quelle rinascimentali, anche e soprattutto perché si abbinavano opportunamente alle pietanze assai dolci e spezziate che si servivano alle corti e banchetti della cucina ricca.
Certo il primato dei vini dolci nel rinascimento era ancora di quelli che provenivano dalle isole greche: "Sopra ogni vino il Greco è divino" diceva un proverbio rinascimentale. E infatti, nel 1435 come narra la tradizione al simposio degli umanisti a Firenze che sotto l'egida dei Medici rilanciò gli studi dei classici greci e latini, il Cardinal Bessarione assaggiò uno splendido vino toscano da dessert e sentenziò in latino "Hoc Xantos est!!", come a dire "Ma questo è come il famoso vino dell'isola di Xantos". La cattiva traduzione del complimentoso motto fece il resto: era nato il Vin Santo Toscano.
I vini dolci furono particolarmente apprezzati anche alla corte papale. Ce ne offre un panorama, prezioso quanto accurato, un documento stilato da Sante Lancerio negli anni del pontificato di Paolo III Farnese (1534-1549) che in cucina ebbe i servigi di maestri dell'arte culinaria come Giovanni de Rosselli e poi Bartolomeo Scappi.
Sante Lancerio ebbe l'ambito titolo di "bottigliere" con l'alta responsabilità degli approvvigionamenti di vino per il Papa, sia in sede che in viaggio. Nelle sue memorie troviamo un panorama dei costumi di vino nella Roma rinascimentale. Dice il Lancerio che il moscatello è "da osti e per coloro che corrono alla faglietta e agli ubriaconi per scaldarsi". Tra i dolci vini Sua Santità apprezzava la Malvasia con la quale faceva anche gargarismi, e un Greco di Somma Vesuviana che non solo apprezzava a tavola, ma con cui era solito "bagnare gli occhi ogni mattina e anco le parti virili".
Due secoli dopo comincia la storia del Marsala, John Woodhouse di Liverpool lo impone prepotentemente nel mercato internazionale. Tanto che nel 1798 poco prima della famosa battaglia di Abukir ottenne da Nelson una consistente commessa per il suo Marsala che sostituì i! Rhum sulle navi inglesi.
Il Marsala si sarebbe affermato anche in gastronomia. Le famose scaloppe di vitello e il classico zabaione lo avrebbero avuto come ingrediente indispensabile. E la sua consacrazione recente venne quando il grande Nino Bergese, re dei cuochi e cuoco da re, lo indicò come ingrediente indispensabile nella sua classica ricetta della Finanziera.
Con tutto ciò è pur vero che in tempi recenti il dolce ha assunto una connotazione progressivamente negativa nell'immaginario sensoriale collettivo dell'Occidente.
Non so chi incolparne. Forse in parte l'avvento dello Champagne e da noi del prosecco.
Più probabilmente, e più in generale, l'etica protestante e lo spirito del Capitalismo, con la sua originaria spinta all'ascesi del corpo, all'astemia, alla mortificazione della carne, e il suo sottoprodotto commerciale, il salutismo di massa, sono i veri responsabili.
Nel 1864 venne inventata la prima dieta dimagrante ipocalorica, naturalmente senza zuccheri. L'Occidente che per secoli aveva conosciuto malattie sociali legate alla fame si trovò da allora ad affrontare quelle dovute alla superalimentazione. E in più forse un inconscio senso di colpa per bruciare da solo la metà delle risorse energetiche del ', mondo. Precedentemente il potere e la salute rivestivano gli uomini di forme opulente.
AlìAlè Mantellassi
Le ragazze erano fatte di "Sugar and Spice/ and everything nice" come diceva una rima anglosassone. E da noi un adagio recitava "Bello grasso si dice assai/ bello secco non si disse mai". Oggi invece è la magrezza il simbolo di potere, di efficienza e di energia.
Il dolce - e i vini dolci - devono esser sacrificati perché fanno ingrassare. Negli Stati Uniti il consumo annuo pro capite di dolcificanti passa dalle 5-7 libbre del 1965 a 17 libbre nel 1988, e nel decennio successivo prosegue la sua ascesa vertiginosa e innaturale. La cioccolata è "sinful" peccaminosa e trasgressiva. In America le coppie smettono di chiamarsi "honey" e adottano appellativi con meno calorie.
Quando poi gli zuccheri appaiono nelle analisi cliniche, è allarme rosso. Sembra quasi che il corpo postmoderno non abbia posto per il dolce e gli zuccheri. Li sostituiscono i più vari infusi minerali o capsule -nuovi bon bons- piene di ferro, zinco, magnesio. -, Il dolce far niente è condannato, la Dolce Vita, col suo corollario di Dolci Inganni, ha fatto posto alla Vita Agra. Finiti sono i tempi in cui si diceva 'Dolce il caffè, amare le donne". Ed è anche cambiato il senso di "Casa dolce casa". -
Questo processo naturalmente riguarda anche il vino, che negli ultimi decenni è divenuto sempre più secco, sempre più brut, sempre più amaro. "Vino amaro tienilo caro" ammonisce un proverbio, mentre un altro mette in guardia contro i cattivi effetti di quello dolce "Al vin dolce le brache leste". Nei mass-media assistiamo a una massiccia offensiva pubblicitaria di amari. Ce n'è uno che promette "il gusto pieno della vita", mentre un altro si presenta come "l'amarissimo che fa benissimo". -
In Toscana il vino dolce è relegato a far compagnia, in quel che resta della tradizione popolare, alle castagne che si danno ai bambini per Carnevale, mentre il grande Vin Santo è umiliato a far da zuppa per marmorei Cantuccini, per poi farsi bere impastato di briciole -un'abitudine recente, autentica come il Mulino Bianco.
Invece la tradizione dei grandi vini dolci italiani è solida, profonda e merita i nostri sforzi per riportarla a nuova vita.
Nel suo grande catalogo dei vini d'Italia un amico recentemente scomparso, Riccardo Di Corato, elencava 2214 vini, dei quali 317 da fine pasto di tutte le regioni italiane.
Basta questo dato a provare l'indescrivibile importanza dei vini dolci della nostra tradizione e la loro indispensabile presenza nella nuova cucina italiana paradossalmente sempre più regionale ed internazionale insieme.
Dobbiamo far uscire i grandi vini dolci d'Italia dalle "nicchie" di mercato di gusto ove sono ingiustamente relegati.
Dobbiamo ricordare, e insegnare a chi pare ignorarlo o averlo dimenticato, che il buon mangiare all'italiana resta un delicato e armonioso percorso tra il salato, l'amaro, l'acido e il dolce.
Alessandro Falassi

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