Stefano Milioni,
firma storica del vino:
“Il legame col territorio
è fondamentale”
Lo scrittore e comunicatore, premiato con l’“Oscar del Vino” 2022 dalla Fondazione Italiana Sommelier, spiega il legame indissolubile tra la cucina italiana i suoi vini e i suoi territori, così ricchi di storia e fascino
Il vino italiano ai giorni nostri. Ne parliamo con Stefano Milioni, firma storica del vino, vincitore dell’“Oscar del Vino” 2022 come “miglior Scrittore del Vino”.
Noi italiani più o meno esperti, dal nostro privilegiato osservatorio interno possiamo apprezzare le mille sfaccettature (e le ombre di migliaia di campanili che si allungano su migliaia di vigneti, parafrasando una tua recente intervista), ma dall’estero come viene percepito? Quale è il sentiment del cliente straniero?
Il vino italiano è potuto dilagare nel mondo solo perché è stato trascinato da una locomotiva non totalmente italiana ma percepita dal consumatore come italiana al 100%: i ristoranti italiani. Senza il successo e il fascino della cucina italiana veicolata dai tanti emigranti che spesso si sono “inventati” ristoratori non ci sarebbe stato il boom di esportazioni di vino riscontrato nell’ultimo mezzo secolo. Un ristorante italiano (o ad insegna italiana) non può non servire vini italiani: è “obbligatorio”. È vi è obbligato anche se, al di là dell’insegna e del menu, di italiano non ha quasi nulla, dalla proprietà al management, ai cuochi, al personale di sala. Olive Garden è la più grande catena mondiale di “family restaurant” e si presenta come “italiano”. Una quindicina di anni fa ho avuto modo di conoscere la responsabile degli acquisti del vino per la catena e sono rimasto sbalordito quando mi ha detto che ogni anno comprava vino italiano per 500 milioni di dollari! Olive Garden conta quasi mille esercizi ma nel mondo i ristoranti italiani indipendenti sono centinaia di migliaia: solo nell’area di Tokyo/Yokohama ce ne sono oltre 5 mila, negli Usa oltre 70 mila. Questi numeri fanno facilmente comprendere quale montagna di vendite di vino possono generare. Rispetto al mondo della ristorazione, le vendite nel canale retail sono percentualmente esigue. Da ciò ne consegue che il vino italiano è fondamentale quando un consumatore siede al tavolo di un ristorante italiano all’estero ma, al tempo stesso, è sussidiario alla motivazione che lo ha portato lì, ovvero la cucina italiana (o, almeno, spacciata per tale). Se spostiamo l’ottica sui consumi domestici, al di fuori di pochi Paesi europei, il vino non entra quasi mai nella tavola quotidiana dove imperano, invece, acqua, birra e, soprattutto, soft drinks. Si apre una bottiglia solo nelle grandi occasioni, specialmente quando ci sono ospiti. E qui, quasi ovunque, la parte del leone la fanno ancora i vini francesi seguiti a ruota da poche ben precise tipologie di vini italiani: il Prosecco (è uguale allo Champagne ma costa meno), il Chianti (is a must!), il Barolo (il vino dei re), il Brunello (è il vino che invecchia di più al mondo), l’Amarone (is full bodied. Ovvero: dà immediata e grande soddisfazione al palato).
Si parla di vino italiano o di vini italiani?
Nei consumi domestici vince il singolare: “Ci hanno servito un vino italiano!”. Nei consumi al ristorante si parla di vini italiani, anche perché c’è una persona che li propone, dà consigli, spiega le caratteristiche delle varie tipologie, è stimolato a vendere i vini che non si muovono frenando le richieste di quelli che cercano tutti... Insomma, genera informazione.
Il Made in Italy è ancora un marchio potente o ha perso il suo smalto?
La mia sensazione è che, limitandoci ai vini, il “Made in France” sia tuttora un marchio più potente del “Made in Italy”, vincente anche quando si mettono a confronto un mediocre vino francese e un ottimo vino italiano. Si tratta di un fenomeno che non ha riscontri razionali ma è sicuramente il frutto di qualche secolo di un diverso approccio al mercato. In fondo il mercato internazionale dei vini francesi lo hanno costruito dei “négociant”, ovvero dei professionisti della vendita. Il nostro lo hanno costruito dei “vignaioli”, ovvero dei professionisti della produzione che si sono improvvisati venditori. Il “Made in Italy” del vino non ha perso smalto: in realtà non lo ha mai spennellato per bene sulle proprie bottiglie!
Dobbiamo gareggiare con altri mercati? Ad armi pari o impari?
Quando c’è scarsità di armi, esse non sono né pari né impari. Il mercato del vino, in Italia e nel mondo, rappresenta una porzione infinitesimale dell’economia globale. La più grande azienda vinicola italiana, ovvero il Gruppo Italiano Vini, non raggiunge i 400 milioni di euro di fatturato. Con lo stesso fatturato, nel settore della chimica, ti collochi intorno al 50° posto.
In queste condizioni, l’unico modo possibile per gareggiare è investire nella propria intraprendenza, nelle idee, nella capacità e nell’energia necessarie per battere i marciapiedi di tutto il mondo, visitando i clienti uno ad uno, affascinandoli, instaurando un rapporto umano, diventando loro amico. I fatturati del vino non permettono di stanziare fondi per campagne pubblicitarie, azioni di marketing globali e costose. L’investimento che rende di più, in Italia come in Francia, a Napa Valley o nelle zone vinicole di Sud Africa, Nuova Zelanda e Australia, è “ospitare” i clienti, far loro visitare vigneti e cantine, facendo assaggiare i vini abbinati ai piatti della gastronomia locale. È più efficace, costa meno, rende di più e se lo possono permettere tutti. Ma è faticoso, richiede impegno personale e limitazioni alla propria vita privata.
Pensi che le due parole “sovranità alimentare” aggiunte al Ministero dell’agricoltura abbiano ragione di essere?
Questo argomento è viziato da un grande equivoco basato su una diffusa ignoranza. Recentemente, il Ministro Lollobrigida (ero presente) ha dichiarato che “sovranità alimentare” è la rivendicazione di poter produrre a casa nostra come ci pare, ovvero in ossequio alle nostre più antiche tradizioni, e non ubbidendo ai diktat dell’Europa. Forse il Ministro non sa, come troppi non sanno, che gran parte delle regole stabilite dalla Commissione Europea si riferisce alle produzioni destinate all’esportazioni negli altri Paesi comunitari. Ovvero, quando un caseificio produce caciotte in un locale sprovvisto di pavimento e pareti piastrellate, se questo è ammesso dalla vigente legislazione locale, nessuno glielo può vietare e quel formaggio può essere messo tranquillamente (e legalmente) in commercio. Ma non può pretendere di esportarlo negli altri Paesi UE dove le regole che disciplinano quella produzione sono più restrittive.
Quindi, la nostra “sovranità alimentare” è ed era comunque garantita. Il problema nasce quando pretendiamo di far sottostare gli altri alla nostra “sovranità”. In parole povere, non puoi pretendere di essere al tempo stesso sovrano ed esportatore e, se lo fai, metti a rischio una grossa fetta di esportazioni che rappresentano la spina dorsale della nostra produzione agroalimentare.
Puoi darci un commento sul vino biologico?
Fino al 2012 nessun vino prodotto in zona EU poteva scrivere in etichetta che era “biologico”: si poteva solo affermare che era ottenuto "da uve biologiche".
A seguito di una faticosa trattativa, durata oltre 5 anni, si è pervenuti ad un accettabile e realizzabile compromesso che stabilisce norme dettagliate sulla vinificazione biologica (ovvero tipologia e limiti del prodotti chimici utilizzati nella vinificazione). Ovviamente è un compromesso e non la panacea. Però è solo un raggio di sole che ha il vantaggio di illuminare un angolo della stanza ma ha il difetto di lasciare nell’ombra tutto il resto. Perché il problema che andrebbe affrontato seriamente (a livello mondiale e non solo italiano) è quello di cosa viene aggiunto al vino e in che quantità. Mi duole rilevarlo, ma il vino è l’unico prodotto alimentare esente dall’obbligo di elencare in etichetta gli ingredienti utilizzati nella sua lavorazione. Ed è anche l’unico esentato dall’obbligo di indicare una data di scadenza o, almeno, il consiglio “da consumarsi preferibilmente entro il...”. Non ce n’è stato bisogno per secoli ma negli ultimi decenni la tecnologia e la chimica hanno fatto passi da gigante e non possiamo chiudere gli occhi facendo finta che entrambe si siano fermate ai confini del vigneto o sulla porta della cantina. Comunque, è bene ricordarsi che l’attributo di “biologico” non è un riconoscimento di qualità: il fatto che un vino sia biologico non implica che sia “più buono” degli altri, ci indica solo che le procedure impiegate per produrlo sono corrette e rispettose di protocolli certificati.
Una vigna in Sicilia
Un suggerimento per i giovani che pieni di entusiasmo vogliono cimentarsi nella coltivazione della vigna e nella produzione di vino?
Il suggerimento è: cambiate idea! A meno che non siate animati da un forte ego, pronti ad investire capitali senza alcuna certezza che possano rientrare, rassegnati a far la corte a qualunque tipologia di blogger e sedicente opinion leader, disponibili ad aprire la porta della vostra casa e della vostra cantina a qualunque ora di qualunque giorno dell’anno (spesso senza preavviso), convincervi che le visite ai clienti in terre lontane sono vacanze, sopportare la delusione che si prova quando una guida ti assegna una stella, un grappolo o un bicchiere in meno, duttili abbastanza per adattarsi a fare il produttore, il vignaiolo, il contadino, il tecnico e il facchino di cantina, il graphic designer, il PR, il magazziniere, la guida turistica, il contabile e, poco dopo, divenire anche un abile esperto nel recupero crediti.
Osservi una vera innovazione in Italia?
Nel settore alimentare, il mondo del vino è quello che ha prodotto la maggiore innovazione negli ultimi tremila anni. Possiamo tranquillamente dire che la produzione vinicola è stata la punta di diamante dell’innovazione nei processi di coltivazione, crescita, trasformazione, conservazione e distribuzione dei prodotti alimentari. Già alla fine del Seicento l’unico prodotto che arrivava al consumatore esattamente come lo aveva fatto il produttore e nella confezione in cui il produttore stesso lo aveva sigillato era un vino, lo Champagne. Fino alla seconda metà del Novecento, la quasi totalità dei prodotti alimentari veniva venduta sfusa con nessuna garanzia sulla provenienza, i trattamenti intermedi, i passaggi di mano. Il semplice fatto che un vino recasse il nome del suo produttore al momento del consumo ha innescato un processo virtuoso di competizione che poteva essere vinta solo migliorando continuamente il prodotto. E questo era possibile solo attraverso l’innovazione. L’Italia è il leader mondiale nella produzione di macchinari e tecnologie per la vinificazione. Negli ultimi 50 anni, l’innovazione è entrata nelle cantine veicolata dei venditori delle aziende che producono macchinari e questo ha fatto crescere enormemente la qualità media dei vini prodotti nel nostro paese. Magari producendo anche una sorta di appiattimento ma – e di questo non ci possiamo lamentare – verso l’alto. Insomma, limitandoci alla fascia media e bassa potremmo dispiegare la critica “tutti buoni ma tutti uguali”. Però, per chi 30/40 anni fa poteva permettersi solo quei vini, è stato un enorme passo avanti.
Per Stefano Milioni il settore del vino è quello che negli anni ha fatto più innovazione
Un augurio al vino italiano per il 2023?
Per il 2023 auguro al vino italiano di essere un po’ di più figlio di produttori che siano meno poeti, senza per questo perdere la loro capacità di sognare, con i piedi tornati per terra e maggiormente coscienti dello straordinario patrimonio che si trovano tra le mani, sicuramente da arricchire, migliorare, esaltare, ma senza mai dimenticarne il rispetto.
Andiamo sul personale: da alcuni anni vivi all’estero e guardando la tua pagina Facebook con grande soddisfazione. Che cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia?
In realtà ho tenuto il piede in due scarpe fin dagli anni ’80, quando ho aperto una filiale della mia agenzia di comunicazione a New York. Subito dopo essere stato il Project Manager delle promozioni agroalimentari dell’ICE in USA in occasione delle Celebrazioni Colombiane del 1992, ho ottenuto la Green Card e, da allora ho fatto il pendolare tra Roma e New York fino a quando, nel 2008 mi ci sono trasferito definitivamente. La motivazione più forte è stata l’opportunità di operare in un mercato in cui vi è un totale riconoscimento al merito, dove non hai bisogno di corteggiare un giornalista per ottenere una citazione di poche righe. Un esempio illuminante: in almeno 4 occasioni sono stato contattato da giornalisti del New York Times che né io né alcuna persona del mio team conoscevamo. Questo solo perché gli era giunta notizia che stavamo realizzando qualcosa che poteva essere interessante per i loro lettori. E aprire il New York Times trovandoci un articolo a cinque colonne che parla di quello che stai realizzando vale tutti i sacrifici che comporta operare contemporaneamente in due Paesi diversi collezionando centinaia di ore seduto sulla poltrona di classe turistica di un jet.
Perché hai scelto Aruba come tuo buen retiro?
L’idea di ritirarmi in un’isola è maturata in me già quando ero un adolescente. Nel corso della mia vita ne ho visitato decine. Ad Aruba ci sono capitato per caso e, avendo scoperto che il piccolo resort dove alloggiavo era in vendita, ho detto che ero interessato all’acquisto. La decisione finale è arrivata solo un anno e mezzo dopo, quando mi sono trovato di fronte ad una straordinaria opportunità di lavoro. Avevo 65 anni e mi sono detto “chi me lo fa fare?”, pensando che fosse tempo di lasciare il campo a forze più giovani e fresche. Così, in 24 ore ho preso la decisione, ho scoperto che quella proprietà era ancora in vendita, ho fatto la mia offerta e sette giorni dopo eravamo dal notaio.
Tu gestisci un resort piccolo ma a misura di proprietario e di clientela: ce lo racconti?
Il vero punto di forza è l’isola di Aruba, collocata al di fuori della cintura degli uragani, temperatura che cresce di 2/3 gradi tra mesi invernali ed estivi (da 28 a 31 in media), una brezza perenne che spira sempre da est verso ovest e mitiga qualunque calore, il mare della costa ovest sempre calmo, non inquinata, sicura, ordinata, senza traffico. La maggior parte delle strutture ricettive è concepita secondo il gusto occidentale: quando varchi la soglia dell’appartamento che hai affittato esci dai Caraibi ed entri in locali che potrebbero essere in qualunque parte del mondo. Il mio Villa Punta Salina, invece, ti permette di respirare l’atmosfera dei Caraibi anche quando sei accoccolato nel tuo letto. Ovviamente questo non è apprezzato da tutti, ma quelli cui piace diventano clienti fedeli negli anni. Anche perchè non manca nessuno dei comfort che offrono le strutture di profilo occidentale.
Il momento di maggiore soddisfazione è quando vedi che i tuoi clienti passano il primo e il secondo giorno alla scoperta dell’isola e del mare ma, poi, il terzo giorno rimangono qui a godersi la piscina ed il giardino tropicale. E non lo considerano un giorno di vacanza perso...
Chi è Stefano Milioni
Consulente di comunicazione e marketing, Stefano Milioni ha collaborato con importanti aziende ed istituzioni in Italia e negli Usa, tra cui il MIBAC, l’ICE, la Fiera di Milano, la Pfizer Farmaceutici, il Diners Club, TonyMay Group, il Culinary Institute of America, il GRI – Gruppo Ristoratori Italiani USA, Castello Banfi, Feudi di San Gregorio e il Pastificio Rana.
Fin dagli anni ’70 ha iniziato a collaborare con importanti testate occupandosi prevalentemente di gastronomia, vino, viaggi e tempo libero. Per 10 anni ha curato la rubrica gastronomica settimanale de Il Messaggero. È autore di numerosi libri tra i quali varie edizioni del Catalogo Generale dei Vini D’Italia (Union), VPQRD d’Italia (Enoteca Italiana) Vaggio in Usa (Rizzoli), Artigianato in Italia (TCI Editore), Columbus Menu (Italian Trade Commission USA), Terme Italia (E.N.I.T.). Negli Usa, dal 1992 al 1998 è stato editore e direttore del mensile CUCINA, prima rivista americana in lingua inglese, interamente dedicata alla gastronomia e ai vini italiani. È stato docente di Comunicazione Visiva all’Istituto Europeo di Design e di Marketing Management alla Link Campus University. Ha tenuto seminari e conferenze negli Istituti Italiani di Cultura di Tokyo, Berlino, Bruxelles, New York e Los Angeles ed in numerose Università americane. ITALIAATAVOLA
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