Dove va il bar italiano? Alla luce della nostra esperienza quotidiana, che ci vede impegnati sul territorio a 360 gradi, possiamo dire con sufficiente certezza che il bar-caffé “tradizionale”, che un tempo era un vanto della nostra grande bellezza, segna il passo. E non va da nessuna parte. Forse, sta ripensando se stesso, a fronte di un mondo che cambia alla velocità della luce. Sicuramente l’arrivo in Italia di un brand temuto come Starbucks, orientato verso il nostro mercato e sensibile verso le nostre abitudini alimentari (il loro “espresso” è l’item più venduto), dovrebbe stimolare il rinnovamento, offrendo possibilità di iniziativa e di affermazione a chi, su altri fronti, sa lavorare bene. Insomma, gli spazi per fare impresa ci sono, nonostante cassandre e soloni ci parlino di scenari devastanti (calo dei consumi, crisi ecc.) . Però, però… Pur essendoci molti spazi, lo scenario fatica a uscire dalle criticità: fatta eccezione per le caffetterie/pasticcerie storiche dei centri cittadini, espressione di storia- atmosfera- professionalità(quest’ultima non sempre) e spesso diventate terra di conquista di multinazionali, le piccole gestioni familiari annaspano, tentano in tutti i modi di vendere le attività, cercando di capitalizzare le fatiche di una vita dedicata al lavoro. Non è un caso se molte gestioni vengo- no acquisite da esercenti cinesi, talvolta dotati di liquidità considerevole: grandi lavoratori, talvolta riescono a ridare impulso a bar stantii, che non hanno voluto o potuto rinnovarsi (ma che con la licenza “tabacchi” sono più appetibili).
Le altre tipologie di offerta, ovvero le segmentazioni di cui si compone l’universo bar, viceversa, cercano di attrezzarsi per affrontare le tendenze del mercato, soprattutto di quello giovanile. Sempre più frequente vedere bar o pub o ex paninerie trasformarsi in “bar del vino”: luoghi di convivialità, punti di aggregazione, riferimenti temporanei per molti millennial, che occupano gli spazi antistanti al locale con in mano il calice di bollicine (al 90% spritz). In altri casi la contaminazione etnica crea nuove suggestioni di consumo, a metà fra il bar e il ristorante, che attraggono e respingono allo stesso tempo… Spesso però, al di là di location vantaggiose (davvero magiche per l’ubicazione), la professionalità è carente e il cassetto resta il principale obiettivo. Quelli che si chiamano lounge o bistrot, rappresentano formule non codificabi- li e non meglio definibili, nonostante le idee chiarissime (così dice qualcuno) di chi se le inventa. Fatte le debite eccezioni, ovviamente.
Spenderò solo poche parole per citare quei bar “aspirazionali”, in genere mediocri, che vorrebbero dare al momento dell’aperitivo una dignità accettabile, trasformandolo in occasione di consumo per “apericena”, un termine orribile che fatico a pronunciare e che spesso nasconde solo riciclo di piatti, piattini e panini datati in via di ossidazione definitiva. Ma a parte questo dato negativo inequivocabile, lo scenario competitivo non è mai stato così vivace. Molti, con estrema competenza e conoscenza del settore, si dedicano alla cosiddetta mixology, accompagnandola a creazioni gastronomiche di tutto rispetto, stimolando la clientela a fare esperienze nuove, sia di food che di beverage. Si moltiplicano le proposte cocktail all’in- terno di ristoranti di livello, con appositi corner dedicati a vini, spiriti e distillati, che opportunamente posizionati diventano ingredienti di drink nonché protagonisti di food pairing di qualità, in cui la mano dello chef si avvale dell’esperienza del bartender per soddisfare e fidelizzare il cliente (un caso per tutti, il milanese Carlo e Camilla). Poi ci sono i locali “modello Ceresio” (dove operano due grandi professionisti, lo chef Elio Sironi e il bartender Guglielmo Miriello), nei quali la cultura di base è alta, il servizio elevato, i prodotti utilizzati ottimi, con prezzi e clientela conseguenti.
Quando abbiamo deciso di estendere al Bar il nostro raggio d’azione, aggiungendo ad Artù la B per trasformarlo in BARtù, pensavamo proprio a quei professionisti dell’offerta che, per competenza e passione, interpretano il mercato sotto il comune denominatore della qualità: dei prodotti, del servizio, del rispetto verso il cliente, dell’atmosfera. Un po’ come succede nella ristorazione di alta gamma. Come se bartender e chef fossero (e spesso lo sono) attori della stessa scena, pur con ruoli diversi. Quando il palcoscenico è quello della qualità, del talento, della conoscenza approfondita del settore, gli obiettivi sono raggiungibili. E,di lavoro, ce n’è ancora parecchio da fare.