Dr. Google
non è il medico
di fiducia
App e siti web che ingoiano sintomi e restituiscono diagnosi azzeccano la patologia una volta
su tre (e spesso ci spediscono in pronto soccorso anche se non serve)
Che il dottor Google non possa sostituirsi alla diagnosi di un medico in carne e ossa è un fatto
evidente. Eppure sono molti gli utenti della rete che cercano una risposta ai loro sintomi di
malessere e malattie. Il fenomeno, che nei casi di persone ansiose con tendenze ossessive, è
noto come cybercondria, in questo momento storico sta subendo un’impennata: il lockdown,
la paura del contagio da Covid-19, le incertezze lavorative e sul futuro hanno messo a dura
prova la reazione emotiva di molti. Ed ecco che cresce il consulto digitale dei siti sul web, o
di applicazioni, alla ricerca di una diagnosi, elencando i sintomi avvertiti, termine che in
inglese viene definito “symptom checkers”. Negli ultimi anni, il popolare “motore” ha fatto
un forte sforzo per mettere in evidenza, fra i primi risultati che escono dalle ricerche, quelli
più affidabili. Purtroppo, però, non basta. L’autodiagnosi, cioè cercare online le ragioni e le
possibili cause di certi sintomi, è quasi sempre scorretta.
Dr. Google, insomma, non è il nostro miglior amico, né medico di fiducia. In particolare,
stando a una nuova ricerca della Edith Cowan University di Perth, in Australia, nel 74% dei
casi fornisce alle persone un’idea sbagliata di quali patologie potrebbero avere. Pubblicata sul
“Medical Journal of Australia”, l’indagine ha messo sotto la lente non solo siti e motori di
ricerca ma anche 36 applicazioni per la ricerca fai-da-te di diagnosi in base appunto ai
sintomi. Nel 74% delle occasioni, come detto, quei sistemi hanno fallito nel fornire al primo
colpo una soluzione ai propri disturbi. E fra i primi tre risultati la diagnosi giusta è spuntata
solo nel 52% dei casi. Si tratta di situazioni che secondo Michella Hill, principale autrice e
studentessa di master all’ateneo australiano, dovrebbero spingere le persone a fermarsi un
attimo e pensare, prima di affidarsi acriticamente ai consulti digitali.
I ricercatori hanno preso in analisi 36 tra app per smartphone e siti che offrono diagnosi
gratuite, nelle quali hanno inserito le descrizioni (basate sui sintomi che i pazienti
normalmente comunicano al proprio medico) di 48 diverse condizioni mediche. Dei 27
symptom checkers (SCs, sintomi che specifichiamo) che hanno restituito delle informazioni,
la diagnosi corretta è comparsa al primo posto solo nel 36% dei casi. Paradossalmente, un
errore comune a questi sistemi è l’eccesso di zelo, che li spinge a consigliare una visita
specialistica anche quando non realmente necessaria: adottando la via della prudenza, app e
siti web suggeriscono infatti molto spesso di visitare il pronto soccorso anche quando non è
necessario, “facendo sì che le persone intasino le corsie dell’ospedale anche quando non ne
hanno bisogno”.
“Usare questi strumenti per capire cosa potrebbe causare certi sintomi può essere semplice e
diretto ma la gran parte delle volte sono inattendibili e possono essere pericolosi”, ha spiegato
la ricercatrice. Aggiungendo che la questione di fondo è che Google e compagnia non
possono conoscere la storia sanitaria e personale di un utente, per cui “la realtà è che siti e app
dovrebbero essere presi con grande cautela perché non possono guardare alla situazione
d’insieme” del paziente. In fondo questa ricerca confermerebbe i risultati di uno studio
pubblicato cinque anni fa e condotto dall’Università di Harvard che, su 23 SCs analizzati,
aveva riscontrato una diagnosi corretta solo nel 34% dei casi. Nel complesso (nonostante le
due ricerche, ovviamente, non abbiano testato le stesse app e siti web), questa tendenza
conferma che negli ultimi anni poco è cambiato, e gli SCs non sono diventati più affidabili.
Tuttavia, gli SCs non sono totalmente inutili: la diagnosi corretta compare infatti tra le prime
dieci in elenco nel 58% dei casi. Non proprio infallibili, ma adatti almeno a farsi un’idea di
massima: “Possono rivelarsi strumenti utili, se utilizzati come risorsa educativa o unitamente
a un consulto medico”, precisano gli studiosi. Sarà il disorientamento con cui molte volte ne
usciamo, sarà la paura o il timore che un lessico a cui non siamo avvezzi, quello medico e
sanitario, produce, fatto sta che in qualche maniera questo lavoro di approfondimento
personale in rete ci porta a rivolgerci ai medici che studiano la materia, o almeno il campo in
cui pensiamo di accusare i disturbi.
Un altro problema della ricerca online è spesso legato alla circolazione delle bufale. La salute
è infatti uno degli ambiti più sensibili a fake news, presunte terapie, sciocchezze di ogni tipo e
spesso frodi su ritrovati e farmaci venduti in rete. Il coronavirus ce ne ha dato una prova
evidente, tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dovuto parlare di infodemia
come patologia parallela legata alla produzione di notizie fasulle su sintomi, origini e terapie.
Per quanto riguarda la Covid-19, ad esempio, vale sempre la pena fare riferimento aw fonti
garantite, come il sito del ministero della Salute, dove vengono smentite alcune delle fandonie
di maggior successo circolate a dire il vero nella prima fase dell’emergenza.
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