giovedì 22 giugno 2017

A rischio l’export alimentare

A rischio l’export 

alimentare 
E se vendessimo 

Tipicità italiana

cibo solo ai più ricchi?

Con la Brexit che causa cali commerciali con il Regno Unito dell'8% e con un Trump protezionista deciso a svuotare di valore le Denominazioni d'origine europee, l'alimentare italiano vede davanti un periodo di difficoltà


L’allarme è lanciato dalla Coldiretti e, vista la fonte (Istat), è forse il caso di accendere in fretta qualche riflettore: l’export dei prodotti alimentari italiani in Gran Bretagna (a partire dal vino) in un anno è calato dell’8%. L’effetto Brexit comincia a farsi sentire su tutti i simboli del Made in Italy, dal tessile ai mobili, passando per le auto, ma questa potrebbe essere solo un’avvisaglia… L’incognita di come andranno le trattative per l’uscita di Londra dall’Unione europea apre infatti prospettive preoccupanti, soprattutto se la crisi politica del governo di Sua maestà dovesse portare ad ulteriori svalutazioni della sterlina.ù

A rischio l’export alimentare E se vendessimo cibo solo ai più ricchi?

A pesare è il ritorno del nazionalismo inglese, mai sopito in verità, a cui si aggiungono iniziative demenziali come le etichette a semaforo che quasi solo l’Italia si è trovata a contestare duramente in Europa, e l’aumento delle tasse sugli alcolici che hanno portato ad un aggravio dei prezzi finali del vino. Il tutto nella sostanziale indifferenza delle istituzioni italiane che, a parte qualche progetto per spingere i “soliti” cuochi conosciuti solo in Italia, non ha ancora avviato alcuna iniziativa per sostenere sul serio i prodotti made in Italy a tavola. Una Sopexa verde-bianco-rossa è ancora da immaginare per i politici italiani.

Chi negli anni passati aveva puntato su Londra come il nuovo mercato del vino mondiale, nonché una sorta di paradiso dell’enogastronomia, dovrà ricredersi. Con buona pace di investimenti e progetti avviati.

Ma se in Gran Bretagna potremmo piangere, non è che da Washington giungano notizie che ci potrebbero fare ridere. Anzi. Sull’onda di un protezionismo becero, che potrebbe mettere a rischio anche le tradizionali alleanze internazionali, l’amministrazione Trump vorrebbe cancellare con un tratto di penna le indicazioni geografiche che proteggono i prodotti europei. Come dire che l’Asiago, il Grana Padano o il Chianti potrebbero ora essere prodotti e commercializzati con quei nomi anche negli States. 

Sulla carta ci sarebbe da alzare le barricate o dichiarare una guerra commerciale, se non fosse che come europei non siamo proprio allineati rispetto a questa situazione. Noi potremmo pagare prezzi altissimi, ma più di noi lo farebbero i tedeschi che inondano il mercato americano di autentiche schifezze (salumi e latticini) che vantano qualche denominazione di origine a cui non corrispondono però, come da noi, lavorazioni e qualità delle materie prime. Non dimentichiamo che gli Usa importano dall’Europa ben 1 miliardo di euro in formaggi, esportandone verso la Ue solo per 6 milioni. In compenso noi però importiamo tecnologie che hanno valori aggiunti più alti…

In questo squilibrio commerciale l’Italia potrebbe essere il classico vaso di coccio che va in pezzi. Se da un lato abbiamo infatti produzioni artigianali che potrebbero comunque distinguersi per unicità di territori e materie prime (il Barolo e il Piemonte non sono facilmente replicabili, come la mozzarella e la Campania), dall’altra abbiamo grandi prodotti (dalla pasta ai prosciutti) che di italiano hanno spesso solo la lavorazione, visto che molta parte delle materie prime vengono dall’estero. Da questo punto di vista il nostro è un sistema che dalla globalizzazione ha saputo anche prendere il meglio, ma che è poco difendibile nel caso gli Usa dovessero davvero difendere il loro mercato. 

E tutto questo senza contare il fenomeno dell’italian sounding, per il quale continuiamo a lamentarci di contraffazioni e taroccamenti, ma poi facciamo finta di non sapere che molti dei produttori sono di origine italiana o addirittura sonio aziende controllate da marchi italiani. Qualcuno era stato fatto addirittura cavaliere del lavoro perché faceva parmesan in Australia. Su tutto resta poi un tema di fondo: ma a noi italiani interessa proprio così tanto vendere nel mondo prodotti a basso valore (i nostri vini nella media sono negli scaffali esteri a 2-3 euro…)? Non è forse il caso di ripensare le strategie e puntare su ulteriori incrementi di qualità per fare del cibo e del vino italiano il più ricercato (e il più caro) al mondo? Non possiamo sfamare tutti, ma i più ricchi del pianeta si. E garantire rifornimenti sicuri ai ristoranti italiani all’estero ci garantirebbe vetrine ammiratissime. Ma questa potrebbe sembrare una provocazione.
di Alberto Lupini
direttore

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