lunedì 23 settembre 2013

DAL TINO AL VINO

Storia

DAL TINO AL VINO…
SECONDO CHARPENTIER

Dopo il torchio, si versa il vino, o piuttosto l’uva pressata, nel tino. Ma il lavoro non è ancora finito: infatti, si tratta, per ora, soltanto di succo d’uva.
La fermentazione è un’arte. Ed è in quest’arte che il viticoltore dimostra la sua intuizione, la sua abilità e il suo senso della natura. Può darsi che egli rispetti il vino e ami il suo mestiere al punto di farne un’arte, che cerchi di fare il vino nel modo migliore possibile, e che per questo ausculti la sua cantina ogni giorno, con le orecchie, con il naso e anche con la mano.
In un’epoca che sembra lontanissima – ma non lo è poi così tanto – i vecchi vignaioli prendevano la temperatura del tino con la mano. L’orecchio incollato al tino, ascoltavano il corso della fermentazione e sentivano il suo buono stato dall’odore che si sprigionava dal tino. Questo il pensiero di Louis Charpentier nel suo Mistero del vino che continua: Oggi sembra che tutto questo sia andato perduto. I moderni viticultori non conoscono più i segreti degli dèi, e abilità ed esperienza sono state sostituite da termometri, manometri e tanti altri strumenti.
Ma di quale qualità potrà mai essere un vino da cui ogni calore umano, ogni attenzione e ogni tenerezza siano state escluse? Grazie al vitigno e al sole si potrà certamente ottenere un buon vino, ma un grande vino?
Infatti la fermentazione, rappresentando una sorta di purificazione, svolge nella vinificazione un ruolo primordiale: è quasi in se stessa un’operazione alchemica, giacché è in questo stadio che ciò che deve essere eliminato viene separato dal resto.
E’ particolarmente importante che i tini presentino una forma circolare. E’ necessario, per non dire indispensabile, evitare le forme angolose e soprattutto le forme quadrate, poiché la circolazione delle molecole del vino avviene sempre in senso rotatorio, e sempre nello stesso senso di rotazione della terra. Per questioni economiche i tini vengono spesso realizzati in cemento, ma nulla vale, evidentemente, quanto quelli in legno: il cemento è caldo d’estate e freddo d’inverno. Anche i tini di acciaio inossidabile e di alluminio dovrebbero essere eliminati: è una materia morta.
Si sono poi conservate molte altre tradizioni, alla base delle quali vi è un’esperienza secolare dei fenomeni della natura: i vignaioli, per esempio, non esporranno l’imbottigliamento di un vino al capriccio di una luna nuova. Se ne asterranno anche nel caso in cui il vento venisse dal mare o portasse con sè grosse nuvole panciute. E, se possibile, sceglieranno il giorno più secco.
Malgrado tutte le cure che vi si possono apportare, dieci bottiglie di vino tratte dalla stessa botte non saranno mai uguali: ognuna di esse avrà la sua personalità. Se queste dieci bottiglie vengono messe in cantine differenti, ognuna di esse sentirà nondimeno un appello misterioso che le è proprio, e che l’uomo non può cogliere.
Il vino continua a vivere nelle bottiglie, come ha già vissuto nei fusti, e si agita sempre in aprile, quando sul ceppo cominceranno a crescere le piccole foglie ancora fresche. E quando arriva giugno, persino se fossero state trasportate nell’emisfero australe, dove le stagioni sono l’opposto delle nostre, queste bottiglie misurerebbero il tempo con precisione, per essere all’unisono con le sorelle rimaste nella cantina di origine e con la loro vite madre.
Istinto? (è sempre il pensiero di Louis Charpentier)
Direi di no: conoscenza, forse.
Il vino è un liquido sacro, dato dagli dèi e degno degli dèi.
E’ per questo che nella sua fabbricazione, e anche nel luogo dove questa avviene, è necessario creare – e mantenere – un certo particolare clima. Non possiamo immaginare un vigneto costretto a stare al sole senza il canto degli uccelli e senza fiori di campo, per non parlare dell’odore dei conigli e di altri animaletti che vi folleggiano.

Laura De Menech

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