Dalle aste
al ribasso
al crack
dei buoni
pasto
Il fallimento di Qui!Group ha riaperto una questione annosa, quella dell'assegnazione di bandi che passano attraverso gare d'appalto al ribasso e che non tengono conto della solidità delle imprese che vi partecipano
Che lo Stato debba cercare di pagare il giusto per le forniture è più che corretto. È un dovere a cui non ci si può più sottrarre dopo troppe ruberie e bustarelle. Basti solo pensare al caso delle siringhe per insulina acquistate dagli ospedali, che hanno costi enormemente diversi da Regione a Regione, nonostante dall’anno scorso Consip, la centrale di acquisti della pubblica amministrazione, abbia uniformato i prezzi di quelle comuni con risparmi in media del 50%.
È però inaccettabile che, in nome di una finta moralizzazione delle gare d’appalto, si persegua il criterio del ribasso senza tenere conto della qualità dei lavori e delle garanzie offerta dalle imprese. Il risultato sono spesso tetti di scuole che crollano o viadotti che si sbriciolano senza che nessuno, salvo rarissime eccezioni, paghi il prezzo di quello che alla fine è sempre un imbroglio realizzato utilizzando materiali scadenti o società inaffidabili.
Grazie ai ribassi si è creato un sistema immorale nel quale sguazzano spesso imprese legate alla criminalità (che hanno spesso usato subappalti e catena…) che non si limita però solo ai lavori pubblici. È di attualità quanto sta succedendo ad esempio nel mondo dei pubblici esercizi, dove 23mila fra bar e piccoli ristoranti si trovano in ginocchio per l’insolvenza di uno dei più importanti gestori di buoni pasto dei pubblici dipendenti, Qui! Group. Il crac della società ha colpito aziende che di fatto hanno svolto un ruolo di supplenza come mense nei confronti di quello Stato che ora non le tutela e che ha causato questa insolvenza limitandosi, attraverso Consip, ad ottenere sconti del 15% in sede di asta, ma senza controllare la solidità di quel gestore e sul rispetto delle regole.
Su 7 euro di buono pasto, uno andava a Qui! Group, ma in realtà a bar e ristoranti (e supermercati) non è più andato nulla per l’insolvenza. E i buoni pasto sono rimasti di fatto carta straccia, tanto che la Fipe, il maggiore sindacato del settore, si è attivata in autotutela con un fondo di 100 milioni a fronte dei 200 milioni di debiti della società fallita.
Servono contratti chiari e trasparenti, un monitoraggio e un rating sulle società che emettono buoni pasto, nonché commissioni fisse uguali per tutte. In Francia sono del 3% in alcuni casi da noi arrivano anche al 20%. di gestione. Un tema che il Ministro Di Maio non può non affrontare con urgenza visto che i buoni pasto rappresentano un pagamento su 4 nel fuori casa. Certo parliamo di lavoratori occupati, ma anche questi, al pari dei pubblici esercizi, hanno diritto ad una tutela, non solo chi aspetta il promesso reddito di cittadinanza.
di Alberto Lupini
direttore
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