Food art,
oltre all'estetica
c'è di più? Ce lo dice uno chef food artist
Molti vedono la food art quasi come un esercizio di stile, un manierismo superfluo di vedere e trattare il cibo. Ma che cos'è e in cosa consiste questa “disciplina”? Lo abbiamo chiesto allo chef Stefano Carbone, (nella foto) pugliese d'origine che dopo esperienze all'estero (tra Spagna e Francia) ha legato il proprio nome alla food art
Moda effimera, per certi versi superficiale ed esclusivamente riferita all’estetica del cibo o qualcosa di più? Il mondo della cucina, già per natura divisivo di suo (de gustibus, dopotutto, non est disputandum) è ancor più spaccato per quanto riguarda la cosiddetta food art. Disciplina, se così vogliamo definirla, che consiste nel creare “opere d’arte” (vere, o presunte) con il cibo, attraverso una precisa lavorazione delle materie prime a disposizione, che non ha raccolto in pieno il favore del pubblico. In tanti vedono la food art quasi come un esercizio di stile, un manierismo superfluo di vedere e trattare il cibo, un plus per certi versi non richiesto e non necessario specialmente in un’epoca, questa, in cui tanti clienti sembrano stiano tornando a una ristorazione più “semplice” (che non vuol dire fatta male), per certi versi famigliare, riconoscibile. Sicuramente essenziale. ""
Che cos'è la food art?
La food art in Italia, Paese che di arte storicamente se ne intende, per un motivo o per l’altro non è riuscita ad esplodere, a conquistare i clienti. A convincerli. Vuoi perché specialmente noi italiani abbiamo uno stretto legame, geloso e domestico, con il cibo, al punto che vederlo eccessivamente trasformato, manipolato, non ci piace, o vuoi perché in alcuni casi c’è rischio che concentrandosi troppo sull’estetica si arrivi a sacrificare il gusto, questa disciplina è anche poco nota al grande pubblico.
Per cercare di capirne qualcosa di più abbiamo parlato con lo chef Stefano Carbone, pugliese d’origine che dopo esperienze all’estero (tra Spagna e Francia) ha legato il suo nome a quella manieristica branca della cucina chiamata food art.
Stefano, tu oltre a chef ti reputi un food artist, ma che cos’è la food art?
«In un concetto, è l’esprimere l’arte col cibo, e viceversa. Secondo me il cibo può considerarsi parte di un ramo artistico, quindi io realizzo con il cibo delle immagini che, a seconda dell’ispirazione, possono variare. Si va, per esempio, da scene di film a fantasie naturali o animali, passando per la replica di opere d’arte vere e proprie. La food art non è solamente schizzare colori nei piatti, ma rappresentare un’immagine con il cibo».
E questa è la teoria. Ma in concreto su cosa si poggia la food art?
«Dietro la food art ovviamente ci sono molte tecniche culinarie: la mia cucina infatti sposa tutto ciò che io ho appreso nell’arco della mia carriera. Dal molecolare alle salse che ho imparato in Francia: è tutto un gioco attorno a delle tecniche che alla fine vanno a creare un impatto visivo preciso e studiato. Tutto ruota comunque attorno al concetto di gioco, parliamo di un altro ramo rispetto al filone del gourmet, anche proprio di impiattamento e presentazione estetica. Il gourmet gioca sempre sulla linea dell’eleganza, invece con la food art lo chef ha la possibilità di spaziare come vuole. Rappresentando colori, immagini, forme. Ci si può divertire di più. Ora sto studiando un menu che si ispira a quadri famosi di diversi artisti, quindi il cliente presenteremo allo stesso tempo la fotografia di un’opera d’arte assieme al piatto ispirato».
Con la food art si "svilisce" il cibo?
Forse però così si va a svilire l’essenza del cibo. Probabilmente anche per questo la food art fatica a venir fuori?
«Siamo aperti verso tante cose ma per quanto riguarda il cibo siamo molto tradizionalisti, quindi secondo me il fatto che a tavola ci rimanga questo retaggio rispetto al passato sicuramente frena la crescita della food art. Diventa insomma difficile capire che il cibo sia qualcosa che va oltre il riempirci lo stomaco e ci fa stare bene, ma è anche una forma d’arte. Ma questo abbinamento, arte-cibo, forse spaventa un po’ le persone. In fondo siamo nel 2024, cerchiamo di modernizzarci anche per quanto riguarda il cibo. All’estero, tra Spagna e Francia dove ho lavorato per esempio, sono molto più avanti di noi».
Ma si rischia in questo modo che venga data più importanza all’estetica del piatto rispetto al gusto?
«Si può pensare che l’obiettivo finale e unico sia la resa estetica, invece no. Dietro all’estetica, che rimane fondamentale, rimane comunque l’importanza legata al gusto che è altrettanto fondamentale. Non è solo bellezza, dietro di lei ci sono tecniche di cucina finalizzate alla valorizzazione degli ingredienti utilizzati. La materia prima rimane fondamentale, così come la ricerca e lo studio. E il gusto non va assolutamente sacrificato».
La food art sembra però più un esercizio di stile che altro, tu come rispondi?
«Penso che a suo modo anche il cibo sappia essere una forma d’arte. E penso che la gente dovrebbe venire a scoprire la food art, non fossilizzarsi sul termine. Stiamo parlando alla fine sempre di cucina gourmet, il filone dopotutto è sempre quello, ma in più ha quel tocco estetico, artisticamente accentuato per l’appunto, che secondo me la rende ancor più interessante. Alla ricerca della migliore materia prima possibile c’è anche uno studio per quanto riguarda il suo utilizzo e un impiattamento ben preciso, quindi per certi versi il lavoro, l’impegno, è ancor maggiore da questo punto di vista».
Si scelgono gli ingredienti in base all’idea, o in base a ciò che si ha a disposizione si costruisce il piatto?
«Dietro c’è sempre un’idea di fondo, scelgo gli ingredienti adeguati e in base a tutte le conoscenze che ho vado a lavorarli e assemblarli per dare vita a quell’idea. Poi si gioca molto non solo sui sapori ma anche sulla variazione dei colori. Quindi prima devo pensare bene a cosa voglio ottenere, poi a come lo voglio ottenere, sia per quanto riguarda colore, forma, texture e ovviamente gusto. Per quanto riguarda l’impiattamento può anche essere una questione di ispirazione, ma comunque dietro la creazione del piatto c’è sempre un ragionamento».
Canoni come stagionalità e rispetto della materia prima sono comunque rispettati?
«Certo, io faccio una selezione accurata su tutti i miei tipi di fornitori, pochi ma buoni. Verdure, ortaggi, pesce, è tutto accuratamente selezionato».
Foto di Officina Visiva
© Riproduzione riservataCe lo dice uno chef food artist
Molti vedono la food art quasi come un esercizio di stile, un manierismo superfluo di vedere e trattare il cibo. Ma che cos'è e in cosa consiste questa “disciplina”? Lo abbiamo chiesto allo chef Stefano Carbone, (nella foto) pugliese d'origine che dopo esperienze all'estero (tra Spagna e Francia) ha legato il proprio nome alla food art
Moda effimera, per certi versi superficiale ed esclusivamente riferita all’estetica del cibo o qualcosa di più? Il mondo della cucina, già per natura divisivo di suo (de gustibus, dopotutto, non est disputandum) è ancor più spaccato per quanto riguarda la cosiddetta food art. Disciplina, se così vogliamo definirla, che consiste nel creare “opere d’arte” (vere, o presunte) con il cibo, attraverso una precisa lavorazione delle materie prime a disposizione, che non ha raccolto in pieno il favore del pubblico. In tanti vedono la food art quasi come un esercizio di stile, un manierismo superfluo di vedere e trattare il cibo, un plus per certi versi non richiesto e non necessario specialmente in un’epoca, questa, in cui tanti clienti sembrano stiano tornando a una ristorazione più “semplice” (che non vuol dire fatta male), per certi versi famigliare, riconoscibile. Sicuramente essenziale. ""
Che cos'è la food art?
La food art in Italia, Paese che di arte storicamente se ne intende, per un motivo o per l’altro non è riuscita ad esplodere, a conquistare i clienti. A convincerli. Vuoi perché specialmente noi italiani abbiamo uno stretto legame, geloso e domestico, con il cibo, al punto che vederlo eccessivamente trasformato, manipolato, non ci piace, o vuoi perché in alcuni casi c’è rischio che concentrandosi troppo sull’estetica si arrivi a sacrificare il gusto, questa disciplina è anche poco nota al grande pubblico.
Per cercare di capirne qualcosa di più abbiamo parlato con lo chef Stefano Carbone, pugliese d’origine che dopo esperienze all’estero (tra Spagna e Francia) ha legato il suo nome a quella manieristica branca della cucina chiamata food art.
Stefano, tu oltre a chef ti reputi un food artist, ma che cos’è la food art?
«In un concetto, è l’esprimere l’arte col cibo, e viceversa. Secondo me il cibo può considerarsi parte di un ramo artistico, quindi io realizzo con il cibo delle immagini che, a seconda dell’ispirazione, possono variare. Si va, per esempio, da scene di film a fantasie naturali o animali, passando per la replica di opere d’arte vere e proprie. La food art non è solamente schizzare colori nei piatti, ma rappresentare un’immagine con il cibo».
E questa è la teoria. Ma in concreto su cosa si poggia la food art?
«Dietro la food art ovviamente ci sono molte tecniche culinarie: la mia cucina infatti sposa tutto ciò che io ho appreso nell’arco della mia carriera. Dal molecolare alle salse che ho imparato in Francia: è tutto un gioco attorno a delle tecniche che alla fine vanno a creare un impatto visivo preciso e studiato. Tutto ruota comunque attorno al concetto di gioco, parliamo di un altro ramo rispetto al filone del gourmet, anche proprio di impiattamento e presentazione estetica. Il gourmet gioca sempre sulla linea dell’eleganza, invece con la food art lo chef ha la possibilità di spaziare come vuole. Rappresentando colori, immagini, forme. Ci si può divertire di più. Ora sto studiando un menu che si ispira a quadri famosi di diversi artisti, quindi il cliente presenteremo allo stesso tempo la fotografia di un’opera d’arte assieme al piatto ispirato».
Con la food art si "svilisce" il cibo?
Forse però così si va a svilire l’essenza del cibo. Probabilmente anche per questo la food art fatica a venir fuori?
«Siamo aperti verso tante cose ma per quanto riguarda il cibo siamo molto tradizionalisti, quindi secondo me il fatto che a tavola ci rimanga questo retaggio rispetto al passato sicuramente frena la crescita della food art. Diventa insomma difficile capire che il cibo sia qualcosa che va oltre il riempirci lo stomaco e ci fa stare bene, ma è anche una forma d’arte. Ma questo abbinamento, arte-cibo, forse spaventa un po’ le persone. In fondo siamo nel 2024, cerchiamo di modernizzarci anche per quanto riguarda il cibo. All’estero, tra Spagna e Francia dove ho lavorato per esempio, sono molto più avanti di noi».
Ma si rischia in questo modo che venga data più importanza all’estetica del piatto rispetto al gusto?
«Si può pensare che l’obiettivo finale e unico sia la resa estetica, invece no. Dietro all’estetica, che rimane fondamentale, rimane comunque l’importanza legata al gusto che è altrettanto fondamentale. Non è solo bellezza, dietro di lei ci sono tecniche di cucina finalizzate alla valorizzazione degli ingredienti utilizzati. La materia prima rimane fondamentale, così come la ricerca e lo studio. E il gusto non va assolutamente sacrificato».
La food art sembra però più un esercizio di stile che altro, tu come rispondi?
«Penso che a suo modo anche il cibo sappia essere una forma d’arte. E penso che la gente dovrebbe venire a scoprire la food art, non fossilizzarsi sul termine. Stiamo parlando alla fine sempre di cucina gourmet, il filone dopotutto è sempre quello, ma in più ha quel tocco estetico, artisticamente accentuato per l’appunto, che secondo me la rende ancor più interessante. Alla ricerca della migliore materia prima possibile c’è anche uno studio per quanto riguarda il suo utilizzo e un impiattamento ben preciso, quindi per certi versi il lavoro, l’impegno, è ancor maggiore da questo punto di vista».
Si scelgono gli ingredienti in base all’idea, o in base a ciò che si ha a disposizione si costruisce il piatto?
«Dietro c’è sempre un’idea di fondo, scelgo gli ingredienti adeguati e in base a tutte le conoscenze che ho vado a lavorarli e assemblarli per dare vita a quell’idea. Poi si gioca molto non solo sui sapori ma anche sulla variazione dei colori. Quindi prima devo pensare bene a cosa voglio ottenere, poi a come lo voglio ottenere, sia per quanto riguarda colore, forma, texture e ovviamente gusto. Per quanto riguarda l’impiattamento può anche essere una questione di ispirazione, ma comunque dietro la creazione del piatto c’è sempre un ragionamento».
Canoni come stagionalità e rispetto della materia prima sono comunque rispettati?
«Certo, io faccio una selezione accurata su tutti i miei tipi di fornitori, pochi ma buoni. Verdure, ortaggi, pesce, è tutto accuratamente selezionato».
Foto di Officina Visiva
© Riproduzione riservata
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