Essere Jotimisti
viva là e po’bon
A leggerlo tutto d’un fiato sembra un nuovo marchio automobilistico giapponese.
Ma visto che la Regione istroveneta oltre a condividere il dialetto ha in comune una buona fetta di tradizioni gastronomiche, si riesce facilmente a dedurre che “Jotamata” è un festival dedicato alla famosa zuppa di fagioli e “capuzi garbi”, tipica a Trieste come a Fiume in Istria. Nel capoluogo giuliano l’hanno definito “edizione zero”, conclusa domenica 9 dicembre dopo una settimana abbondante. È stata una vera e propria festa dedicata alla regina delle zuppe nostrane specialmente nel periodo invernale quando complice la bora il freddo penetra nelle ossa e non c’è meglio di un sostanzioso piatto di jota fumante per ritrovare vigore ed energie.
Nell’intento degli organizzatori la manifestazione era rivolta in primo luogo a tutti gli amanti di questo piatto della tradizione cge conoscono benissimo, ma ha anche cercato di stimolare i palati de non trierstini, turisti soprattutto, presenti in città a cui, a dir il vero molti, la combinazione fagioli/ “capuzi garbi” inizialmente suscitava sorpresa e qualche commento irriverente, fino al primo cucchiaio quando l’espressione si è fatta compiaciuta e gastronomicamente godereccia.
Circa quaranta locali tra ristoranti, trattorie, caffè storici e buffet tipici sono stati coinvolti nella lodevole iniziativa a cui, lanciamo la proposta, potrebbe nascere un JotaFest internazionale con partecipazione di locali triestini sì, ma di carattere open coinvolgendo partecipanti di tutto il territorio istroveneto, da Fiume, Liburnia e Istria, fino a quei posti in cui la jota è parte del menu della tradizione.
Il termine jota è stato codificato solennemente nel 2003, registrato con atto notarile e depositato presso la Camera di Commercio a cura della Delegazione di Trieste dell’Accademia Italiana della Cucina, che compare fra i partner della manifestazione, allestita fra l’altro con la collaborazione della FIPE, della Pro Loco Trieste e dell’URES – Unione Regionale Economica Slovena.
I locali che hanno aderito alla Jotamata all’ingresso avevano esposto un’etichetta adesiva con riprodotto lo slogan dell’iniziativa, Jotimisti, per identificare da subito l’adesione a Jotamata. Jotimisti è un modo di vedere la vita in positivo nonostante il freddo e la bora, un po’ la sintesi del motto triestino “sempre allegri e mai pasion, viva la e po’ bon”. La gioia di vivere che a Trieste si ritrova naturalmente anche, e soprattutto, a tavola.
ORIGINI
Nella maggior parte di libri gastronomici la jota viene descritta come minestra a base di crauti (“capuzi garbi” in dialetto triestino, “cavolo cappuccio”, in italiano) e fagioli, patate e carne di maiale, deve molto probabilmente il suo nome a jutta, un termine tardolatino che significa “brodo, brodaglia, beverone” forse di origine celtica. Un significato che ritroviamo anche nell’irlandese “it”, e nel gergo del Poitou (Francia dell’Ovest) “jut”. La jota resta la zuppa triestina più popolare, in casa, nei ristoranti di tutte le categorie e nei tipici buffet.Come scrisse Cesare Fonda, rinomato studioso ed esperto di vicende triestine, nel suo celebre libro “Ocio a la jota” (Storia de Trieste e de la sua cusina), la jota è paragonabile a un prezioso “reperto” storico. La jota racconta la storia, la politica, l’economia, il clima della città e l’estro dei triestini. Secondo Fonda la jota parla di freddo e di inverno, con tutti i fagioli e tutto il maiale che ha dentro e che urla ad alta voce “Mitteleuropa”, con i suoi “capuzi garbi” introvabili nelle altre zuppe sue cugine. In un piatto di jota si può vivere con tutti i sensi un autentico concentrato della città giuliana, quelle anime che la rendono ricca di memorie e di fascino e perché no, unica. I capuzi garbi, ingrediente fondamentale della jota, erano di casa a Trieste già nel Cinquecento e verso la fine del secolo o al più tardi ai primi del Seicento arrivarono da queste parti i fagioli rossi americani. Così si può datare a quel periodo la nascita della jota.
In una jota che si rispetti non vanno usati di certo i crauti precotti in scatola o sotto vuoto, ma quelli che al mercato si vendono ancora sciolti, nelle mastelle di legno, così forti (acidi) da richiedere almeno un lavaggio in acqua fredda. Stesso discorso per i fagioli: la ricetta di una volta prevede l’uso dei “fasioi con l’ocio”, insomma quelli bianchi con la macchiolina. Siccome i tempi cambiano, ecco che nella jota, da una certa data in poi (1492, scoperta dell’America) entrano anche le patate e i fagioli con l’occhio cedono il posto a quelli rossi (borlotti o di Lamn). Come sanno tutti i gourmet la jota risulta più buona se ha riposato almeno un giorno. Essendo vagamente acidula di suo, come vini la jota si sposa bene vol terano o con un refosco.
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