giovedì 15 agosto 2019

Essere Jotimisti viva là e po’bon

 Essere Jotimisti 

viva là e po’bon



A leggerlo tutto d’un fiato sembra un nuovo marchio automobilistico giapponese.

Ma visto che la Regione istroveneta oltre a condividere il dialetto ha in comune una buona fetta di tradizioni gastronomiche, si riesce facilmente a dedurre che “Jotamata” è un festival dedicato alla famosa zuppa di fagioli e “capuzi garbi”, tipica a Trieste come a Fiume in Istria. Nel capoluogo giuliano l’hanno definito “edizione zero”, conclusa domenica 9 dicembre dopo una settimana abbondante. È stata una vera e propria festa dedicata alla regina delle zuppe nostrane specialmente nel periodo invernale quando complice la bora il freddo penetra nelle ossa e non c’è meglio di un sostanzioso piatto di jota fumante per ritrovare vigore ed energie.

Nell’intento degli organizzatori la manifestazione era rivolta in primo luogo a tutti gli amanti di questo piatto della tradizione cge conoscono benissimo, ma ha anche cercato di stimolare i palati de non trierstini, turisti soprattutto, presenti in città a cui, a dir il vero molti, la combinazione fagioli/ “capuzi garbi” inizialmente suscitava sorpresa e qualche commento irriverente, fino al primo cucchiaio quando l’espressione si è fatta compiaciuta e gastronomicamente godereccia.

 Circa quaranta locali tra ristoranti, trattorie, caffè storici e buffet tipici sono stati coinvolti nella lodevole iniziativa a cui, lanciamo la proposta, potrebbe nascere un JotaFest internazionale con partecipazione di locali triestini sì, ma di carattere open coinvolgendo partecipanti di tutto il territorio istroveneto, da Fiume, Liburnia e Istria, fino a quei posti in cui la jota è parte del menu della tradizione.
Il termine jota è stato codificato solennemente nel 2003, registrato con atto notarile e depositato presso la Camera di Commercio a cura della Delegazione di Trieste dell’Accademia Italiana della Cucina, che compare fra i partner della manifestazione, allestita fra l’altro con la collaborazione della FIPE, della Pro Loco Trieste e dell’URES – Unione Regionale Economica Slovena.
I locali che hanno aderito alla Jotamata all’ingresso avevano esposto un’etichetta adesiva con riprodotto lo slogan dell’iniziativa, Jotimisti, per identificare da subito l’adesione a Jotamata. Jotimisti è un modo di vedere la vita in positivo nonostante il freddo e la bora, un po’ la sintesi del motto triestino “sempre allegri e mai pasion, viva la e po’ bon”. La gioia di vivere che a Trieste si ritrova naturalmente anche, e soprattutto, a tavola.

ORIGINI

Nella maggior parte di libri gastronomici la jota viene descritta come minestra a base di crauti (“capuzi garbi” in dialetto triestino, “cavolo cappuccio”, in italiano) e fagioli, patate e carne di maiale, deve molto probabilmente il suo nome a jutta, un termine tardolatino che significa “brodo, brodaglia, beverone” forse di origine celtica. Un significato che ritroviamo anche nell’irlandese “it”, e nel gergo del Poitou (Francia dell’Ovest) “jut”. La jota resta la zuppa triestina più popolare, in casa, nei ristoranti di tutte le categorie e nei tipici buffet.
Come scrisse Cesare Fonda, rinomato studioso ed esperto di vicende triestine, nel suo celebre libro “Ocio a la jota” (Storia de Trieste e de la sua cusina), la jota è paragonabile a un prezioso “reperto” storico. La jota racconta la storia, la politica, l’economia, il clima della città e l’estro dei triestini. Secondo Fonda la jota parla di freddo e di inverno, con tutti i fagioli e tutto il maiale che ha dentro e che urla ad alta voce “Mitteleuropa”, con i suoi “capuzi garbi” introvabili nelle altre zuppe sue cugine. In un piatto di jota si può vivere con tutti i sensi un autentico concentrato della città giuliana, quelle anime che la rendono ricca di memorie e di fascino e perché no, unica. I capuzi garbi, ingrediente fondamentale della jota, erano di casa a Trieste già nel Cinquecento e verso la fine del secolo o al più tardi ai primi del Seicento arrivarono da queste parti i fagioli rossi americani. Così si può datare a quel periodo la nascita della jota.
In una jota che si rispetti non vanno usati di certo i crauti precotti in scatola o sotto vuoto, ma quelli che al mercato si vendono ancora sciolti, nelle mastelle di legno, così forti (acidi) da richiedere almeno un lavaggio in acqua fredda. Stesso discorso per i fagioli: la ricetta di una volta prevede l’uso dei “fasioi con l’ocio”, insomma quelli bianchi con la macchiolina. Siccome i tempi cambiano, ecco che nella jota, da una certa data in poi (1492, scoperta dell’America) entrano anche le patate e i fagioli con l’occhio cedono il posto a quelli rossi (borlotti o di Lamn). Come sanno tutti i gourmet la jota risulta più buona se ha riposato almeno un giorno. Essendo vagamente acidula di suo, come vini la jota si sposa bene vol terano o con un refosco.

PIATTO RICCO MI CI FICCO

Nel capoluogo giuliano la jota è realizzata con crauti, fagioli e patate. In provincia e in altre località del Carso, comprende la carne di maiale (talvolta affumicata) e anche la salsiccia,quella di Cragno per dirne una, diventando così un nutrimento corroborante. Ci sono però altre rivisitazioni della jota che si differenziano nell’uso di uno o più ingredienti. Nella zona di Gorizia (ma anche nel Fiumano), ad esempio, si pratica aggiungere dell’orzo. Da evidenziare che come la maggior parte delle zuppe povere di una volta, la jota doveva possedere delle indiscutibili prerogative: piatto impareggiabile, ben “forgiato” e sostanzioso. Ecco spiegato l’uso dei legumi sposati al maiale - per antonomasia carne ghiotta e corposa. In qualche occasione questa pietanza viene confusa con la brovada del vicino Friuli, dove il ruolo dei capuzi viene preso dalle rape acide e poi nella portata friulana, la parte del maiale la recita una specie di cotechino, in dialetto locale detto muset, perché fatto con parti meno nobili, provenienti dal muso del suino.
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FABIO SFILIGOI
PANORAMA EDIT

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