lunedì 13 gennaio 2014

VIVA GLI AUTOCTONI...

VIVA GLI AUTOCTONI
MA NON ESTREMIZZIAMO


www.umbertocesari.it
Per lavoro degusto di tutto: non solo vino ovviamente.

Distillati per esempio, in purezza così come sapientemente miscelati in fantastici cocktail, o anche acque minerali, the, caffé. Quello della degustazione è un mondo fantastico, ricco di mille sfaccettature, che si complica e aumenta il suo grado di precisione, quando va poi abbinato al cibo. Tutto si può fare, tutto è possibile, basta non esagerare. In tutti gli ambiti della degustazione si parla sempre più di terroir e sempre più spesso di varietà autoctone.
Due elementi inscindibili, fondamentali, ma che spesso vengono estremizzati e rischiano di allontanare appassionati e futuri consumatori, più che avvicinarli.
Non sono mai stato un talebano, anche se ovviamente riconosco il ruolo fondamentale di molte varietà tipiche del nostro panorama vitivinicolo. Da romagnolo ho sempre amato il sangiovese, che nella mia regione è un vanto e trova una delle sue espressioni, dal mio punto di vista, più sanguigne e caratteriali. E il merito arriva proprio da questo connubio. Non ho mai, però, disdegnato né i blend, né tanto meno quelli che vedono un autoctono unirsi magari ad un vitigno “internazionale” o alloctono che dir si voglia. Oggi si fa un gran parlare dei vitigni autoctoni: nascono fiere dedicate, rubriche su molte riviste. Tutto interessante, linfa vitale spesso per piccole varietà che, altrimenti, sarebbero destinate all’anonimato se non proprio all’estinzione. Però è bene non farsi accecare dell’estremismo. Basta leggere la stessa storia vitivinicola italiana e osservare come il nostro paese, per tanti motivi, sia storici che sociali, sia diventato anche l’habitat ideale di vitigni, spesso di origine francese, che da noi hanno trovato ugualmente grandi terroir e relativi interpreti. Il Veneto ne è un esempio o, andando in Toscana, basti pensare alla storica denominazione del Carmignano, dove l’uva francesa è parte integrante del blend con il sangiovese da più di un secolo e rappresenta un saldo fondamentale per conseguire quella trama e quel tocco al naso così inconfondibile. Il blend, in fondo, tra vitigni diversi, è un’arte, storica, che appartiene a molti nostri areali ed esalta il lavoro sia del viticoltore che dell’enologo: saper unire vini che arrivano da parcelle diverse, ma con caratteristiche differenti, seppur dello stesso vitigno, è un già un lavoro affascinante e una sfida. Se aggiungiamo l’unione di vitigni differenti scopriremo un mondo che può donare emozioni di grande valore, sia per chi il vino lo fa, sia per il consumatore finale.
Luca Gardini

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