Altro che sacrificio: per Alajmo la cucina è gioco, eredità e futuro
Massimiliano Alajmo, 3 stelle Michelin a Le Calandre, ribalta l’idea dello chef martire: «Il sacrificio c’è, ma diventa leggerezza se lo vivi con passione». L’eredità di famiglia diventa trampolino per innovare e guardare avanti. Tra gioco, spiritualità e attenzione al commensale, emerge una visione che unisce radici profonde e sguardo al futuro
Redattore
Nonostante quanto affermato dallo chef tristellato spagnolo Dani García, che afferma di non voler che le sue figlie entrino in cucina a causa dei troppi sacrifici richiesti dal mestiere, la presenza in Italia di ristoranti tristellati come Le Calandre della famiglia Alajmo (o come Dal Pescatore della famiglia Santini) dimostra che i figli d’arte della ristorazione italiana non solo hanno ereditato la passione, ma hanno ulteriormente elevato il livello dei ristoranti ereditati dai loro genitori.
Massimiliano Alajmo è infatti cresciuto in un ambiente di grande spessore: Le Calandre, aperto dai genitori Erminio Alajmo e Rita Chimetto, è diventato un punto di riferimento dell’alta cucina. I genitori di Massimiliano erano già protagonisti della scena gastronomica veneta: il padre Erminio, gran maestro di sala, mentre sua madre Rita Chimetto fu una delle prime donne a ricevere una stella Michelin nel 1992. Dal '94, i fratelli Max e Raffaele Alajmo, pur giovanissimi, hanno preso la gestione del locale arrivando alla seconda stella nel 1996 e alla terza nel 2002, quando Massimiliano, a soli 28 anni, diventò il più giovane chef al mondo a raggiungere questo risultato. La familia Alajmo ha costruito un gruppo che oggi conta numerosi locali in Italia e all’estero, partendo da una forte identità familiare.
In questa intervista Massimiliano Alajmo racconta come l’eredità di famiglia abbia plasmato il suo stile, cosa significhi conciliare passione, benessere personale e successo, come si traduce la cucina in gesto, in arte, in esperienza sensoriale, nel percorso che da Rubano è diventato internazionale.
L’eredità familiare come fondamento
Il valore più grande che Massimiliano Alajmo riconosce alla sua famiglia è l’esempio. Un’eredità che non si limita alla gestione del ristorante, ma che si traduce in un insegnamento costante sul valore del lavoro, sull’impegno quotidiano e sul rispetto della materia prima. Nonostante le tre stelle Michelin, Alajmo non dimentica il ruolo fondamentale dei genitori.
«I miei genitori ci hanno trasmesso principi solidi, educandoci al gusto inteso come ricerca costante del buono, del bello e del ben fatto. Ci hanno insegnato a vedere nella cucina non solo tecnica e creatività, ma anche educazione alimentare, attenzione alla salute e piacere nella pietanza».
Sacrificio e passione: il lavoro come sogno da vivere
Molti, come Dani García, hanno sottolineato quanto il mestiere dello chef possa richiedere sacrifici enormi, arrivando perfino a scoraggiare i figli dal seguirne le orme. Per Alajmo, però, la questione è più complessa e riguarda ogni professione che nasce da una vera passione.
«Qualsiasi professione - spiega - può richiedere energie e dedizione in misura diversa. E ogni passione richiede sacrificio: non esiste conquista senza impegno. Non si tratta solo del tempo che vi si dedica, ma soprattutto dell’intensità e della qualità con cui lo si vive. La ristorazione comporta senza dubbio delle complessità, ma ognuno può modellarle a modo proprio. Personalmente, sento di cucinare anche quando non sono fisicamente ai fornelli. È un lavoro impegnativo, certo, ma non più di altri. Molto dipende da come si sceglie di vivere il proprio sogno e da come ci si relaziona con il proprio mestiere».
Il consiglio ai figli e alle nuove generazioni
Quando si parla di trasmettere il mestiere, Alajmo non ha dubbi: la priorità deve essere sempre il benessere personale. «ll benessere personale dovrebbe essere sempre la motivazione che guida la scelta di un mestiere. Quando manca la gratificazione, spesso significa che non si è ancora trovato il percorso giusto. In cucina, come in qualsiasi altra professione, il segreto è affrontare il lavoro con passione e con il sorriso: solo così anche le sfide più complesse diventano sostenibili».
Lei afferma che un cuoco dovrebbe cucinare come se lo facesse per un figlio. Come questa idea guida le sue scelte quotidiane in cucina?
«Immagino sempre di avere le mie figlie sedute a tavola. Questo pensiero mi ricorda che cucinare non significa solo offrire un’emozione attraverso un piatto, ma trasmettere anche l’intenzione e la cura che ci sono dietro a ciò che faccio. È un modo di donare qualcosa di autentico, che va oltre il gusto e diventa un gesto di attenzione e affetto».
I maestri e le influenze
Accanto ai genitori, l’incontro con Michel Guérard, Marc Veyrat e Alfredo Chiochetti ha rappresentato tappe decisive della formazione dello chef veneto. «Ho scelto di lavorare con Marc Veyrat perché era considerato un innovatore straordinario - spiega -. Autodidatta, mi ha insegnato a cucinare fuori dagli schemi e a creare abbinamenti sorprendenti».
«Michel Guérard mi ha trasmesso l’eleganza e la poesia della cucina francese, mentre Alfredo Chiochetti, quando ero giovanissimo, mi ha mostrato la forza dell’umiltà e della dedizione assoluta al mestiere, producendo tutto da sé. Sono insegnamenti diversi che, intrecciandosi, hanno contribuito a dare forma al mio stile personale».
La filosofia della “cucina fluida”
Il concetto distintivo che meglio rappresenta l’approccio di Alajmo è quello di cucina fluida. Un’idea che mette al centro l’ascolto e il rispetto della materia. «Sono al centro della nostra attività di ricerca e la principale fonte d’ispirazione. Ad esprimersi sono la materia e la sua personalità: noi siamo solo il mezzo che ne permette il disvelarsi. La verità è ben nascosta ma la cucina, che è uno dei mezzi per tentare di farla venire alla luce, è semplice. Nel mistero di ciò che è così ben celato e che comunque reclama semplicità e leggerezza, si trova la radice dello stupore che si ritrova quando assaggio un piatto. È fluida, nel senso che si lega all’acqua in quanto portatrice di memoria nel suo percorso e forza rigenerante. L’acqua trasforma le cose, dà la possibilità di rigenerarsi e di immergersi. Ma la cucina deve essere anche gioco. Cucinare significa spogliarsi di tutto ciò che è superfluo e recuperare la semplicità. È un viaggio alla ricerca dell’origine, dove l’autenticità respinge il futile. La cucina è gioco, spontaneità, ironia: ha, insomma, una forte componente fanciullesca».
L’estetica e il design come linguaggio parallelo
A Le Calandre, l’esperienza inizia ancora prima di assaggiare i piatti. Tavoli in legno antico, bicchieri soffiati a mano, luci studiate con cura: ogni elemento è parte integrante di un progetto sensoriale. «Non è ricerca estetica fine a sé stessa - sottolinea Alajmo - ma un “bello assoluto” che mette l’ospite a proprio agio. La sala diventa un prolungamento della cucina: l’estetica è un linguaggio parallelo, che influenza e viene influenzato dai piatti. Creare armonia tra ciò che si mangia e ciò che si respira è fondamentale, perché l’esperienza gastronomica è fatta di ascolto, tatto, percezione. Ogni dettaglio - dai tavoli alle luci, dai bicchieri ai materiali - contribuisce a ridurre la distanza tra la persona e la materia, favorendo un’esperienza totale fatta di ascolto, tatto, percezione. Anche le relazioni e il contesto sono parte integrante di questo percorso, perché solo così la cucina può essere vissuta in tutta la sua intensità».
La cucina come arte e linguaggio universale
Piatti come il Risotto Passi d’Oro o il Cappuccino Murrina dimostrano la capacità di Alajmo di trasformare ingredienti e tecniche in veri e propri omaggi all’arte.
«Non ci consideriamo autori, ma interpreti della materia - afferma -. Ogni piatto è uno specchio che riflette un ordine superiore: la materia offre infinite possibilità espressive e diventa un linguaggio capace di trasformarsi in immagini e simboli. In questo senso, la cucina è una forma d’arte che parla attraverso il gusto. Nel Risotto Passi d’Oro, ad esempio, gli elementi fermentativi richiamano la sofferenza e la macerazione, evocando significati che appartengono sia alla natura degli ingredienti sia a un linguaggio più universale».
L’esperienza del commensale e il coinvolgimento dei sensi
Un altro tratto distintivo della cucina di Alajmo è il coinvolgimento diretto dell’ospite. Esperienze come il “Gioco al cioccolato” coinvolgono tatto, olfatto, gusto e persino l’ascolto.«Più una persona si abbandona al percorso - spiega - più ha la possibilità di viverlo intensamente».
La sua cucina viene spesso descritta come un esercizio spirituale, in cui sensibilità e tecnica si fondono. Come coltiva questa dimensione interiore nel lavoro di ogni giorno?
«Attraverso l’intenzione. Ogni gesto in cucina è guidato rispetto all’obiettivo che ci poniamo. Coltivare questa dimensione significa anche saper filtrare le tante distrazioni che ci circondano e mantenere una forte coerenza con i propri valori e con il senso profondo del nostro lavoro».
Il ruolo dei sensi oltre al gusto
Ha esplorato il tema del tatto come senso fondamentale del gusto. In che modo la percezione tattile può cambiare l’esperienza gastronomica?
«Il gusto non è mai il semplice risultato di un sapore, ma di un’elaborazione complessa che coinvolge più sensi. Il tatto, in particolare, gioca un ruolo fondamentale: immaginiamo la differenza tra un frutto fresco e la sua versione disidratata. Nel primo caso l’acqua libera immediatamente i profumi, nel secondo è la saliva a dover riattivare la materia, modificando così tempi e intensità della percezione. Questo dimostra come la consistenza e la geometria di un alimento incidano direttamente sull’esperienza gustativa. Il tatto non si limita alle mani: è un senso che coinvolge tutto il corpo, e in particolare la bocca, dove interagisce con il gusto, l’olfatto e persino l’udito in una rete di relazioni sottili. Ogni stimolo tattile diventa così un messaggio al cervello che contribuisce a definire l’identità e la memoria di un sapore».
Il tatto e la gastro-fisica
Le sperimentazioni sui contrasti nascono anche dalle esperienze con i grandi maestri. «Le mie prime ispirazioni sui contrasti di temperatura e consistenza risalgono al periodo trascorso con Michel Guérard. Ricordo le sue zuppe straordinarie, in cui inseriva un elemento freddo, spesso una mousse vegetale o alle erbe, che creava un gioco sorprendente con il caldo della pietanza. Anche Marc Veyrat mi ha influenzato molto: nei suoi piatti i contrasti erano fortissimi, dall’acidità alla dolcezza, fino a esplosioni aromatiche intense. Un’altra grande lezione l’ho ricevuta da mia madre, che amava abbinare ingredienti apparentemente distanti, come la barbabietola e il Roquefort. Un accostamento con cui sono cresciuto, ricco di consistenze diverse - la cremosità, la porosità - unite a dolcezza e sapidità. Credo che queste esperienze siano un percorso condiviso con tanti colleghi e amici cuochi, e con chiunque abbia un’attenzione alla tavola».
Da qui nasce l’interesse per la gastro-fisica, disciplina che studia il ruolo dei sensi nell’esperienza culinaria. «Non parlerei di “quanto” influisca, piuttosto di “come” possa essere utile. La gastro-fisica rappresenta un’opportunità per comprendere meglio ciò che accade quando viviamo un’esperienza gastronomica. Non è necessario applicarla in modo sistematico o scientifico in cucina, ma resta uno strumento prezioso per indagare quel grande mistero che i sensi e la tavola custodiscono».
Il cliente come persona, non come consumatore
Per Alajmo, il rapporto con chi siede ai tavoli è centrale e va oltre la logica del consumo. «Viviamo in una società che parla molto di sostenibilità - osserva - ma continua a definire le persone “consumatori”. Io credo che il cliente debba essere visto come una persona, con cui instaurare un dialogo autentico. Significa ascoltare le parole, ma anche i gesti, le percezioni. Solo così si può offrire un servizio realmente dedicato e costruito attorno all’esperienza individuale».
Il sodalizio con il fratello Raffaele. La complementarità che dà forza al gruppo.
Accanto a Massimiliano, il fratello Raffaele Alajmo gioca un ruolo fondamentale. «Non esiste un vero segreto - spiega lo chef - se non la fiducia reciproca. Abbiamo ruoli diversi, ma complementari. La famiglia è il nostro punto di forza: condividere responsabilità e visione ci dà solidità e ci permette di affrontare insieme anche le sfide più complesse».
Quanto al futuro della cucina italiana, Alajmo preferisce non fare previsioni. «La cucina è un organismo vivo - afferma - che cambia continuamente. Quello che possiamo fare è restare fedeli ai nostri principi, unendo leggerezza, essenzialità e rispetto della materia. Questo, credo, è il contributo più autentico che possiamo offrire alla cucina italiana nel mondo».
Infine, un consiglio a chi si avvicina oggi all’alta cucina: «Di cercare di andare in profondità e non restare in superficie».
L’eredità familiare come motore della cucina italiana d’eccellenza
In un mondo in cui molti grandi chef - come Dani García - arrivano a scoraggiare i propri figli dall’entrare in cucina, la storia di Massimiliano Alajmo dimostra che l’Italia ha una via diversa: la continuità familiare non è una gabbia, ma un motore. L’eredità non significa ripetere, ma rilanciare, innovare, costruire futuro sulle fondamenta del passato.
È questa la lezione che Le Calandre trasmette ogni giorno: sacrificio sì, ma trasformato in leggerezza, sorriso e bellezza. Una strada che può diventare modello per le nuove generazioni della ristorazione italiana.
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