Dolcetto, l’uva
delle terapie curative
per vini morbidi,
freschi e strutturati
Di vitigno a bacca nera autoctono del Piemonte si parla per la prima volta in un documento del Comune di Dogliani (Cn), nel 1593, dove si invitava a non sprecare le uve raccogliendole prima che fossero ben mature.
Le prime notizie scientifiche sono datate 1798, ad opera del Conte Giuseppe Nuvolone Pergamo, allora vicedirettore della Società Agraria di Torino; successivamente nel 1839 viene descritto da Giorgio Gallesio nella Pomona italiana.Tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento fu protagonista delle terapie curative a base di uva, sulle cartoline pubblicitarie dell’epoca si scriveva: “Il Dolcetto contiene ferro, calcio, manganese, solfati e fosfati di potassio e sodio, perciò si può paragonare alle migliori acque purgative, e per la grande quantità di glucosio è buonissimo alimento ed eccitante efficace per il ricambio del sangue”.
La bassa acidità e la dolcezza dei suoi acini, tanto da essere utilizzata come uva da tavola, sono all'origine del nome dato a questa varietà, anche se i vini che se ne ricavano sono tutti secchi. Si è diffuso un po' in tutta la parte sud del Piemonte fino alla Liguria (con il nome di Ormeasco) e nell'Oltrepò Pavese in Lombardia, ma rimane comunque un vitigno autoctono indissolubilmente legato al Piemonte, dove regala le sue migliori espressioni.
Generalmente i vini ottenuti con l'uva Dolcetto cambiano da zona a zona, esprimendo ognuno delle sue peculiarità, ma si può dire che sono tutti accomunati da alcuni fattori principali: un colore rosso rubino intenso, un profumo fruttato di amarena e mora e floreale, pochi tannini, buona struttura, buona morbidezza e buona freschezza.
di Piera Genta
di Piera Genta
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