Addio trattorie:
la ristorazione italiana perde la sua spina dorsale
Nel 2025 l’Horeca italiano vive una polarizzazione estrema: crescono fine dining e catene fast casual, mentre la ristorazione di fascia media (trattorie e locali indipendenti) si svuota sotto il peso di costi crescenti e consumi in calo. La desertificazione dei ristoranti tradizionali mette a rischio l’identità gastronomica nazionale, tra industrializzazione e perdita di cultura diffusa
La ristorazione italiana sta perdendo la sua spina dorsale. Le trattorie e i ristoranti di quartiere chiudono uno dopo l’altro, schiacciati da costi insostenibili e consumatori sempre più divisi tra lusso e low cost. Nel 2025 la fotografia del settore Horeca italiano è sempre più nitida, e sempre più preoccupante. In alto dominano i ristoranti di alta cucina che spesso faticano a generare margini di profitto. In basso cresce la ristorazione “mordi e fuggi”: fast food, food court e format a basso costo che intercettano i consumatori più attenti al portafoglio. Nel mezzo, quella fascia intermedia che per decenni ha rappresentato l’ossatura dell’ospitalità italiana (trattorie, ristoranti indipendenti di quartiere, locali a conduzione familiare) si assottiglia pericolosamente, risucchiata da un modello di mercato diventato sempre più insostenibile.
La scomparsa della fascia intermedia
I numeri testimoniano il declino delle imprese di ristorazione indipendenti di fascia media. Il 2024 ha registrato un record amaro: oltre 29 mila chiusure a fronte di appena 10.700 nuove aperture, con un saldo negativo di -19.019 imprese; il peggiore dell’ultimo decennio. Si tratta del quarto anno consecutivo di calo nel numero di attività registrate, scese a circa 382.680 imprese (327.850 realmente operative).
Questo trend di desertificazione colpisce in modo particolare le attività a gestione familiare e informali, con margini ridotti e volumi elevati, che non riescono più a reggere l’aumento dei costi fissi. La maggior parte delle chiusure riguarda proprio ristoranti e trattorie di quartiere, bar con cucina, o locali tradizionali di fascia medio-bassa, storicamente cuore pulsante della ristorazione italiana.
Consumi in calo e costi alle stelle:
il pasto fuori casa diventa un lusso
Dietro l’estinzione progressiva dei ristoranti di mezzo c’è anzitutto un problema di costi. Tra caro bollette e inflazione alimentare, gestire un ristorante è diventato molto più oneroso. Nel triennio 2022-2024 i costi operativi medi sono cresciuti sensibilmente, fattore che ha obbligato i gestori ad aumentare i prezzi in menu. Il 2023 ha visto ritocchi dei listini di circa il +6% (con un incremento cumulato del +19% rispetto al 2020).
Parallelamente, il potere d’acquisto degli italiani ha subito contraccolpi. Nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie risultava ancora inferiore del 7-8% rispetto al periodo pre-Covid, aggravato da una nuova fiammata inflazionistica a inizio 2025. Di conseguenza, si esce meno spesso, cercando di contenere le spese discrezionali e si privilegiano uscite con un “valore aggiunto”. La semplice cena fuori “senza pretese” è diventata un lusso occasionale per molti italiani.
L’alta cucina cresce in prestigio ma non nei profitti
Se la ristorazione “di mezzo” arranca, quella di vertice sembra prosperare, almeno in apparenza. Eppure molti ristoranti fine dining, pur affollati di riconoscimenti, non sono affatto redditizi ma sopravvivono grazie al sostegno di investitori, holding di lusso o gruppi alberghieri, oppure grazie ad attività collaterali che finanziano il ristorante principale. Non a caso, anche in Italia molti grandi chef hanno dovuto diversificare; accanto al ristorante aprono bistrot più informali, linee di prodotti o persino fast food gourmet, partecipano a programmi TV o fanno consulenze. È il paradosso di un settore in cui pochi riescono a reggersi solo con l’alta cucina.
La via d’uscita, secondo alcuni chef, potrebbe essere una cucina più “rilassata”, meno ingessata da formalismi e sprechi, più attenta alla sostenibilità economica oltre che alla creatività. Abbassare un po’ l’asticella senza compromettere la qualità, per rendere il modello replicabile e abbordabile da un pubblico più ampio. Su questo fronte qualcosa si muove: Michelin, ad esempio, sta puntando sempre più anche sui Bib Gourmand, segnalando ristoranti di qualità con prezzo contenuto; e Gambero Rosso nella sua guida annuale assegna non solo le Tre Forchette ai gourmet, ma anche i Tre Gamberi alle migliori trattorie tradizionali. Eppure, il grosso dell’attenzione mediatica continua a premiare la cucina d’élite. La narrazione dominante esalta le stelle Michelin e i grandi eventi gourmet, mentre rimane in ombra la fatica quotidiana di centinaia di ristoratori di provincia che mantengono vive le ricette del territorio.
L’avanzata di catene e fast casual
All’altro estremo del mercato, intanto, galoppano le catene della ristorazione commerciale e i format fast casual. Secondo l’ultimo Rapporto Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), i ristoranti in catena hanno ormai conquistato circa l’11% delle visite totali nel fuori casa italiano, generando quasi 10 miliardi di euro di spesa su un mercato di oltre 90 miliardi. È ancora una quota minoritaria, ma in costante crescita. Nel 2024 le visite ai locali di catena si sono attestate stabilmente tra il 9% e l’11% del totale, segno di un’offerta che intercetta bene i bisogni di convenienza e rapidità, soprattutto tra i consumatori più giovani. La conferma della polarizzazione viene dai dati sulle frequenze: mentre i ristoranti indipendenti di fascia medio-bassa (scontrino 25–35 €) hanno visto calare le visite del 2%, e quelli ancora più economici (sotto 25 €) addirittura del 5%, i ristoranti premium hanno registrato un +6% di clientela. Contestualmente, le pizzerie (spesso considerate un’opzione di qualità a prezzi accessibili) crescono di un +2%. Si delinea così un doppio binario: da un lato chi cerca pasti low cost si rivolge sempre più alle offerte standardizzate delle catene o alle pizzerie; dall’altro chi esce lo fa per gratificarsi in locali di fascia medio-alta, magari riducendo la frequenza ma alzando il livello dell’esperienza.
A trainare queste formule è soprattutto la clientela under 45. Una recente indagine YouGov rivela che tra chi frequenta abitualmente le catene, oltre la metà ha meno di 45 anni, e un 20% arriva a mangiare in un locale di catena almeno una volta a settimana. I motivi? Prevedibilità dell’offerta, rapporto qualità/prezzo competitivo, orari flessibili e presenza capillare nei centri commerciali e nelle zone ad alta frequentazione giovanile. Insomma, la domanda premia l’affidabilità e la convenienza organizzata. E le imprese rispondono. Secondo Fipe e l’associazione di categoria Aigrim, nel 2024 il personale impiegato dalle aziende della ristorazione organizzata è aumentato dell’8,5%, mentre i punti vendita affiliati sono passati da circa 2.300 a oltre 2.500 unità. Mentre il piccolo ristoratore fatica a trovare camerieri e cuochi, i grandi marchi riescono ad attrarre forza lavoro con condizioni più strutturate e percorsi di carriera interni.
Standardizzazione contro cultura
Ma fino a che punto può espandersi la scala industriale senza tradire l’identità culturale della cucina italiana? L’Italia ha costruito la sua reputazione culinaria sull’artigianalità diffusa in ogni regione, in ogni città, perfino in ogni borgo, con le sue trattorie tipiche, le ricette tramandate e quell’approccio caloroso e genuino all’ospitalità. Sono valori difficili da replicare in serie.
Sul piano culturale e sociale, la sparizione dei ristoratori di mezzo rappresenta una perdita incalcolabile. È un patrimonio di saper fare, cortesia e tradizione che rischia di dissolversi, soppiantato da format con menu fotocopia presenti in ogni città. Solo trovando un equilibrio tra industrializzazione e artigianalità, tra alta cucina e osteria, l’Italia potrà evitare che i professionisti della tavola vengano definitivamente schiacciati e che la spina dorsale della ristorazione scompaia, portando via con sé un pezzo della nostra identità nazionale.
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