Massari choc sul pampapato: «Una porcheria». Ferrara divisa tra orgoglio e voglia di cambiare
Il maestro pasticcere Iginio Massari a Ferrara non ha avuto esitazioni: «Il pampapato è una porcheria». Parole che hanno inevitabilmente acceso la polemica tra i pasticceri della città estense. C'è chi difende il dolce simbolo della città e chi vede nella provocazione uno stimolo a innovare la tradizione
AFerrara toccare il pampapato è come toccare un’icona. Lo ha scoperto Iginio Massari, il più noto dei pasticcieri italiani, che dalla città estense ha definito «una porcheria» il dolce simbolo del territorio. Parole che hanno fatto il giro del web e scatenato un piccolo terremoto tra chi il pampapato lo produce e lo vende ogni giorno.
Tra questi Cristiano Pirani, titolare della Pasticceria Chocolat nella città estense: «Non credo che il maestro Massari abbia assaggiato tutti i pampapati che vengono prodotti a Ferrara» racconta a Italia a Tavola. «Generalizzare così lo trovo abbastanza scorretto».
Pirani: «Non si può stravolgere una ricetta secolare»
Per lui, infatti, il punto non è solo la critica in sé, ma il modo: «A prescindere da quello che può essere il suo pensiero, è un dolce che viene venduto soprattutto ai turisti, che vengono qua appositamente per assaggiarlo. Fa parte della nostra tradizione, e secondo me va valorizzato con prodotti di prima qualità».
Pirani non nega che le ricette possano essere migliorate, ma sulle parole di Massari resta critico: «Va rivisto? Secondo me il rivisto è relativo. È un dolce speziato, con un gusto molto particolare, a base di cioccolato. Non ha paragoni. Sono d’accordo sul lavorare al meglio con le materie prime, sul perfezionare i processi produttivi… ma stravolgere la ricetta perché una persona dice che è una porcheria non lo trovo corretto».
Paiato: «È un invito a fare meglio, non un’offesa»
Più morbido invece Nicola Paiato, maestro Apei - la stessa associazione di cui Massari è presidente - e titolare della Pasticceria Le Follie. «Il momento è stato un po’ forte», ammette, «ma penso che non l’abbia fatto con la cattiveria di dire che il prodotto fa schifo e basta». Secondo lui, infatti, l’intento del maestro bresciano è stato soprattutto quello di dare una scossa: «Più che altro è stato un segnale per riprendere in mano il dolce e dargli una modernità. Per esempio, lui è venuto nel mio laboratorio, ha assaggiato il mio pampapato e non mi ha detto che era terribile. Mi ha dato però degli accorgimenti sulla preparazione e sui tempi di cottura».
Paiato racconta di aver seguito quei consigli e di averne visto i risultati: «Ho avuto dei miglioramenti e me lo hanno fatto notare anche i clienti. Io ho rivisitato il dolce usando i suoi suggerimenti senza stravolgere lo statuto della ricetta, e la risposta è stata positiva. Non è un’offesa, è un invito a fare meglio». E ricorda come in passato fosse successa una cosa simile in Sicilia: «Con la cassata era nata la stessa polemica. Poi l’hanno alleggerita, resa più apprezzata. Secondo me è questo il senso delle parole di Massari».
Tradizione e innovazione, il dilemma del pampapato
Massari le sue parole, come detto, le ha pronunciate proprio a Ferrara, città dove ha iniziato a registrare la nuova stagione di Sweet Home. E davanti al pampapato non ha avuto esitazioni: «È meglio che lo rivediate» ha detto senza troppi giri di parole. Per poi spiegare il perché: «Tradizione non vuole dire fare le cose vecchie. Siamo quello che mangiamo oggi. Il principio di base è la curiosità e a Ferrara, evidentemente, come pasticcieri, ci sono pochi curiosi. Tutte le ricette sono da rivedere, non si può restare ancorati alla storia di una volta».
Dichiarazioni che non aprono solo una polemica locale, ma toccano una questione più ampia: fino a che punto un dolce secolare può restare identico a sé stesso senza rischiare di diventare un ricordo polveroso? E quando invece l’innovazione smette di essere un miglioramento e inizia a cancellare la memoria di un territorio? È questo il nodo che la provocazione di Massari, nel bene o nel male, porta al centro del dibattito.
Non è la prima volta che succede. Ogni volta che un piatto della tradizione viene messo in discussione, scatta la difesa d’ufficio: da una parte chi lo considera intoccabile, dall’altra chi vede nella cucina un linguaggio che deve evolvere. La frase di Massari diventa così il detonatore di una tensione che attraversa molte ricette storiche italiane, e non solo quella ferrarese.
La lunga storia di un dolce “del Papa”
Ma, detto ciò, cos’è il pampapato e qual è la sua storia? Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche secolo. Nel ’600 le monache del Monastero del Corpus Domini di Ferrara, ispirandosi a un’antica ricetta del grande cuoco rinascimentale Cristoforo da Messisbugo, crearono un dolce da inviare alle grandi personalità dell’epoca. Il cacao, appena arrivato in Europa dalle mani di Cortes, era un bene di lusso e veniva usato come fosse un gioiello, una polvere preziosa.
A forma di zuccotto, il pampapato era impreziosito da mandorle o nocciole finissime, da gustosi canditi, insaporito con spezie profumate; la calotta veniva infine ricoperta di cioccolato fondente. Così il ricco dolce diventava il Pan del Papa. Facile capire a chi fosse dedicata questa meraviglia. Una lingua antica, poetica e perduta lo trasformò in Pampapato e Pampepato. Da secoli i due nomi convivono e la sostanza non cambia: è il dolce del Natale, delle feste, il dolce che meglio rappresenta la ricchezza e la raffinatezza di Ferrara.
La ricetta del pampapato
Per preparare il pampapato servono 200 g di farina, 100 g di mandorle, 100 g di zucchero - o meglio miele per un gusto più pieno - 100 g di cacao in polvere, 100 g di frutta candita tagliata a pezzetti, 2 g di cannella, 2 g di chiodi di garofano tritati e 80 g di cioccolato fondente per la copertura. Si inizia sciogliendo zucchero o miele in poca acqua tiepida o latte, quindi si uniscono la farina, il cacao, le spezie, la frutta candita e le mandorle. L’impasto va lavorato a lungo, finché non risulta sodo e omogeneo. A questo punto si modella la caratteristica forma a calotta e si cuoce in forno, controllando bene la cottura: se il dolce brucia diventa amaro. Una volta freddo, si ricopre con il cioccolato fondente fuso, lasciando che si asciughi completamente prima di gustarlo.
Tra orgoglio e cambiamento: il futuro
del dolce simbolo di Ferrara
Alla fine il pampapato resta lì, sulla tavola e nel mirino: amatissimo dai turisti, venerato dai ferraresi, indigesto a Massari. E allora? Forse il vero problema non è se sia una “porcheria” o meno, ma che nessuno osi più metterci mano. Perché se la tradizione serve solo a farsi selfie con il dolce in vetrina, allora sì, rischia di diventare più vecchia della glassa che la ricopre.
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