Dopo un’etichetta
seria per il latte
serve quella per l’olio
Non più solo per il latte fresco: anche tutti gli altri
prodotti lattiero-caseari, dal latte a lunga conservazione, ai formaggi, senza dimenticare burro o ricotta, dovranno indicare la provenienza della materia prima e consentire al consumatore di sapere dall’etichetta dove il latte è stato munto, confezionato e trasformato. Quella che potrebbe sembrare una normale operazione di trasparenza, è invece una vera e propria rivoluzione che potrebbe aprire scenari per molti versi imprevedibili. A partire dall’Unione europea, dove le grandi industrie e i grandi Paesi produttori di latte sono pronti ad affilare le armi per contrastare l’iniziativa del Governo italiano per fare sul serio sul piano della tracciabilità.
Noi italiani siamo grandi consumatori di latte: ne assumiamo mediamente 48 litri l’anno (sotto varie forme), ma fra le vecchie quote e i pessimi rapporti fra allevatori e trasformatori almeno la metà viene importata. E di quello prodotto in Italia la metà è trasformata in prodotti Dop (che da questo punto di vista rappresentano una tutela), dove la parte del leone la fa il Grana Padano.
Il latte italiano, secondo gli esperti, sarebbe migliore della maggior parte di quello importato. La nostra zootecnia è molto controllata (come tutta la filiera agroalimentare) e ha progressivamente ridotto l’uso (o l’abuso) di farmaci e antibiotici, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, soprattutto dell’est Europa. Il latte “estero” costa però di meno, e le aziende di trasformazione preferiscono utilizzare quello.
La maggior parte delle ricerche confermano però che gli italiani sarebbero disposti anche a pagare di più per un prodotto che sia d’origine italiana tracciata (e certa). Proprio su questo si basa il decreto fortemente voluto dal Ministro Maurizio Martina per dare finalmente più informazioni al consumatore e, indirettamente, valorizzare il lavoro di più di 34mila allevatori.
Mungitura, confezionamento e trasformazione sono le attività per le quali si dovrà obbligatoriamente indicare il Paese dove sono state fatte. Solo nel caso in cui tutte e 3 siano state effettuate in Italia si potrà indicare un’unica voce (che speriamo di vedere bella grande in etichetta) “Origine del latte: Italia”. Ci piacerebbe magari potere leggere anche la zona di provenienza, ma quanto è già stato fatto rappresenta una novità assoluta che potrebbe cambiare le regole del mercato. E ciò spiega l’irritazione dei grandi trasformatori, Lactalis in primo piano, i quali non gradiscono certo questa soluzione che rischia di costringerli a cambiare fornitori e budget.
Ma tant’è, la salute comincia finalmente ad avere la meglio sulle logiche aziendali che non sempre ne tengono conto.
Sulla base di questa novità sarebbe ora importante vedere il governo impegnato anche a valorizzare, sempre con lo stesso criterio dell’“origine italiana”, il mondo dell’olio di oliva. Invece di “mungitura, confezionamento e trasformazione” basterebbe indicare i Paesi di origine per “la raccolta, la frangitura e attività di qualità oggi marginale rispetto alla grande industria che mette sul mercato oli rettificati.
l’imbottigliamento” e il gioco è fatto. Se queste indicazioni fossero chiarissime in etichetta, anche per l’extravergine italiano si potrebbe riaprire una partita davvero seria e rimettere in gioco un’
prodotti lattiero-caseari, dal latte a lunga conservazione, ai formaggi, senza dimenticare burro o ricotta, dovranno indicare la provenienza della materia prima e consentire al consumatore di sapere dall’etichetta dove il latte è stato munto, confezionato e trasformato. Quella che potrebbe sembrare una normale operazione di trasparenza, è invece una vera e propria rivoluzione che potrebbe aprire scenari per molti versi imprevedibili. A partire dall’Unione europea, dove le grandi industrie e i grandi Paesi produttori di latte sono pronti ad affilare le armi per contrastare l’iniziativa del Governo italiano per fare sul serio sul piano della tracciabilità.
Noi italiani siamo grandi consumatori di latte: ne assumiamo mediamente 48 litri l’anno (sotto varie forme), ma fra le vecchie quote e i pessimi rapporti fra allevatori e trasformatori almeno la metà viene importata. E di quello prodotto in Italia la metà è trasformata in prodotti Dop (che da questo punto di vista rappresentano una tutela), dove la parte del leone la fa il Grana Padano.
Il latte italiano, secondo gli esperti, sarebbe migliore della maggior parte di quello importato. La nostra zootecnia è molto controllata (come tutta la filiera agroalimentare) e ha progressivamente ridotto l’uso (o l’abuso) di farmaci e antibiotici, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, soprattutto dell’est Europa. Il latte “estero” costa però di meno, e le aziende di trasformazione preferiscono utilizzare quello.
La maggior parte delle ricerche confermano però che gli italiani sarebbero disposti anche a pagare di più per un prodotto che sia d’origine italiana tracciata (e certa). Proprio su questo si basa il decreto fortemente voluto dal Ministro Maurizio Martina per dare finalmente più informazioni al consumatore e, indirettamente, valorizzare il lavoro di più di 34mila allevatori.
Mungitura, confezionamento e trasformazione sono le attività per le quali si dovrà obbligatoriamente indicare il Paese dove sono state fatte. Solo nel caso in cui tutte e 3 siano state effettuate in Italia si potrà indicare un’unica voce (che speriamo di vedere bella grande in etichetta) “Origine del latte: Italia”. Ci piacerebbe magari potere leggere anche la zona di provenienza, ma quanto è già stato fatto rappresenta una novità assoluta che potrebbe cambiare le regole del mercato. E ciò spiega l’irritazione dei grandi trasformatori, Lactalis in primo piano, i quali non gradiscono certo questa soluzione che rischia di costringerli a cambiare fornitori e budget.
Ma tant’è, la salute comincia finalmente ad avere la meglio sulle logiche aziendali che non sempre ne tengono conto.
Sulla base di questa novità sarebbe ora importante vedere il governo impegnato anche a valorizzare, sempre con lo stesso criterio dell’“origine italiana”, il mondo dell’olio di oliva. Invece di “mungitura, confezionamento e trasformazione” basterebbe indicare i Paesi di origine per “la raccolta, la frangitura e attività di qualità oggi marginale rispetto alla grande industria che mette sul mercato oli rettificati.
l’imbottigliamento” e il gioco è fatto. Se queste indicazioni fossero chiarissime in etichetta, anche per l’extravergine italiano si potrebbe riaprire una partita davvero seria e rimettere in gioco un’
ALBERTO LUPINI
direttore Italiaatavola
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