martedì 17 settembre 2019

Troppo Prosecco o nome di troppo? Una bolla a rischio di scoppio

Troppo Prosecco 

o nome di troppo?
Una bolla a rischio 

di scoppio


Lo scontro sulla denominazione ha aperto un dibattito tanto acceso quanto necessario per valorizzare al meglio un prodotto che rappresenta il Made in Italy nel mondo e che non deve essere assolutamente svalutato

«Vorrei un Prosecco di Franciacorta». La richiesta, purtroppo, non è un lapsus, ma quanto capita di sentire troppo spesso in molti locali. Un chiaro esempio dell’enorme confusione che si è creata nel mondo delle bollicine dopo il successo a livello mondiale dello spumante veneto-friulano. D’altra parte 590 milioni di bottiglie prodotte lo scorso anno sono una massa critica capace di confondere e condizionare anche chi dovrebbe saperne più del consumatore medio. È il caso di un ristoratore di Andalo (comune montano del Trentino) che per decantare un ottimo Trentodoc presentato come aperitivo, anni fa lo appellava come un “bel Prosecchino”. Cosa che oggi si fa abitualmente in tutta Italia senza alcuna remora o pudore.

Momento di cambiamenti epocali per il Prosecco (Troppo Prosecco o nome di troppo? Una bolla a rischio di scoppio)
Momento di cambiamenti epocali per il Prosecco
Ormai si fa di tutto un’erba un fascio e si annullano le differenze fra vini come il Prosecco, ottenuti col metodo Martinotti, fermentati in autoclave (come il 96% di tutti gli spumanti italiani), e quelli da metodo Classico con fermentazione in bottiglia (tipo Champagne per intenderci), anche se non sono paragonabili per complessità, tempi di lavorazione, affinamento... e costi. Per molti Prosecco è ormai sinonimo di spumante…

Eppure c’è anche chi, al centro del sistema Prosecco, magari sulle colline che ne sono il simbolo e che non a caso sono tutelate ora dall’Unesco, vuole lasciare quel nome un po’ troppo abusato, per usare solo quello del territorio, Conegliano Valdobbiadene.

Solo partendo da questa stortura di un nome si può cercare di comprendere cosa sta fermentando oggi nel mondo del Prosecco, quello vero, quello oggetto di indagini internazionali come fenomeno da manuale di una crescita che in meno di 8 anni ha visto triplicare bottiglie e filari. E c’è chi, non contento di avere la tipologia di bollicine più venduta al mondo, sogna ancora il tetto del miliardo di bottiglie. Articoli, commenti e polemiche affrontano, forse con troppa cautela, quella che è una sorta di “bolla” che potrebbe scoppiare per eccesso di crescita. Fra i dazi minacciati da Trump o da Boris il biondo, il premier britannico dichiaratamente anti Prosecco, per il vino simbolo del nord est si potrebbero prospettare in effetti giorni bui sui due principali mercati di sbocco delle esportazioni.

Fra vendemmia e vinificazione le cantine del territorio in questi giorni dovrebbero essere più che impegnate e poco disponibili a porsi problemi di nome. E invece, proprio il termine che fino a pochi mesi fa sembrava di per sé simbolo di successo e capace di incorporare tutto il mondo degli spumanti (che è molto più complesso di quanto appare dal perlage in un bicchiere), è il tema del giorno, tanto che c’è chi ha deciso di farne a meno.

Rinunciare in etichetta al termine Prosecco (che fino a ieri avrebbe garantito la vendita di ogni bottiglia prodotta) non è certo facile, ma in giro si avverte aria di bruciato. Ne sono la conferma i prezzi in calo e la rinuncia, anche se non ufficiale, a produrre quest’anno 80 milioni di bottiglie per non comprimere ulteriormente i prezzi a fronte di un mercato che non riesce a distinguere con precisione la qualità in un mare di offerte.

Ora c’è chi lamenta di avere allargato a dismisura l’area di produzione. Contestazioni che riguardano direttamente il Governatore veneto Luca Zaia, "architetto" del sistema Prosecco, che ora non vuole autorizzazione un centimetro quadrato di vigneto in più, ma che per anni è stato osannato dai produttori, soprattutto i più grandi che, salvo lodevoli eccezioni, hanno puntato più sulla quantità che sulla qualità. Troppe bottiglie e troppe etichette senza distinzione vera di valore sono una realtà con cui fare i conti. C’è chi distingue fra Prosecco prodotto in collina o in pianura (e ci si rifà alle divisioni avvenute in un’area più ridotta come quella dell’Amarone), ma sul mercato le bottiglie si trovano bottiglie buone prodotte sia sopra che sotto. C’è il consueto contrasto fra grandi e piccoli. Insomma le ragioni per un rischio crisi che nessuno vuole definire con questo nome, potrebbero essere tante.

Fra queste, però, la principale è forse la confusione fra Doc e Docg, con una sorta di sudditanza di chi rappresenta l’alta gamma nei confronti di chi fa quantità. E infine, forse, l’assenza di una gestione realmente manageriale di un consorzio che, al di là della qualità delle persone, non sembra separare nettamente l’area tecnica da quella di necessaria mediazione e compromesso dei consigli di amministrazione. Ma proprio perché si parla di uomini e gestione non tutto è perduto. La scelta di distinguere l’alta gamma del Prosecco è più che mai irrinunciabile per salvare e valorizzare l’intero sistema. Il non farlo in fretta aprirebbero la strada a soluzioni alternative che relegherebbero il nome Prosecco solo ai prodotti di minor valore. Il che sarebbe l’ultima beffa per chi, osando forse un po’ troppo, aveva l’ambizione si sfidare i francesi, re delle bollicine.
di Alberto Lupini
direttore
Alberto Lupini

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