Mise en place,
a decidere è il ristoratore
Ma il giudizio finale
spetta al cliente
Nell'apparecchiare la tavola la tovaglia oggi è l'elemento più discusso, merito anche della lunga tradizione. Metterla significa prediligere l'igiene, toglierla è adeguarsi ai tempi e sfoggiare l'originalità del locale. La scelta finale deve tenere conto del parere del cliente, il cui giudizio conta di più
Nel lungo tragitto dello scorso anno, ho parlato di ciò che viene messo “sopra il tavolo”, vale a dire le regole per il pranzo, la successione delle portate, le cose da fare o non fare ma sempre riferite al cibo o ai vini da servire. Questa volta, la vera protagonista si chiama “tovaglia”: è indispensabile metterla oppure eliminarla? La tendenza di parte della ristorazione, anche impegnata, stellata, addirittura pluristellata, sceglierebbe la seconda soluzione, cioè eliminarla e lasciare il tavolo pulito dando il ruolo pieno al piatto. È giusto? A mio avviso, forse sì ma anche forse no. Vediamo più da vicino una questione, a prima vista secondaria ma, a conti fatti, di grande importanza. Per farlo, bisogna prenderla “un po’ alla larga” ma è indispensabile.
In periodo medievale, il tavolo per “desinare” doveva essere rustico, di legno spesso e, poiché gli uomini erano “rudi e guerrieri”, l’uso della tovaglia non era nemmeno pensato e i piatti e scodelle, spesso metallici, erano utilizzati solo per le minestre. Nel periodo rinascimentale, specie in Italia, dove le arti trionfavano in ogni settore, la cucina divenne più colta, i cuochi più preparati e, con la celebrazione del banchetto, le tovaglie divennero indispensabili.
Si chiamavano “mantili” e, poiché l’uso delle forchette era ai primordi e le macchie erano molte, se ne mettevano tre o quattro, sovrapposti, togliendoli, di volta in volta, dopo i servizi. In definitiva, lo scopo dei mantili, più o meno preziosi secondo le capacità economiche dei padroni di casa, era quello di proteggere i tavoli, spesso di legno pregiato, per evitare di rovinarli. Nelle locande popolari, tuttavia, i tavolacci, erano assolutamente nudi.
Bisogna inoltre considerare che, da allora e fino a metà ottocento, la sala da pranzo, nei castelli e nelle grandi case patrizie, la sala da pranzo come la intendiamo oggi, non esisteva e si faceva “pranzo”, secondo le circostanze, con tavoli di dimensioni variabili, in ambienti diversi: in biblioteca o nel salotto, per occasioni intime, nei grandi saloni per i banchetti. Mentre, per le prime, si utilizzavano tavoli molto belli con tovaglie che dovevano lasciare scoperte le gambe intarsiate; per i grandi banchetti, si montavano lunghi ripiani di legno sopra cavalletti, come si fa oggi nei grandi eventi gastronomici. In questo caso, i lunghi tavoli erano ricoperti da tovaglie che giungevano fino a terra, per non mostrare proprio i cavalletti. I tovaglioli, considerando tenendo conto dell’uso ancora scarso delle posate, erano di grandi dimensioni, spesso fino ad un metro di lato.
Col tempo e l’avvento della vera “sala da pranzo”, sia in grandi ambienti, sia nelle case comuni, la tovaglia assunse grande importanza e così, nella ristorazione nella quale, sin dal periodo tardo ottocentesco, quando i veri ristoranti erano compresi negli alberghi, frequentati, soprattutto dalla borghesia, la sala da pranzo era il vero “fiore all’occhiello”, elegante, molto ben arredata e, naturalmente, con tavoli ricoperti da bellissime tovaglie, di lino o di Fiandra che venivano lavate e stirate alla perfezione prima di ogni servizio. Nel secolo scorso, con la ristorazione indipendente e cioè anche fuori dagli alberghi, i locali iniziarono a distinguersi in diverse categorie:
Di lusso, davvero pochi in ogni città, arredati in modo perfetto, con grandi cucine, ottimo servizio di sala e, naturalmente, tavoli apparecchiati con tovaglie di grande qualità e tovaglioli di dimensioni non inferiori ai 60-70 cm di lato.
Commerciali, i più diffusi, indubbiamente più sobri (alcuni dicevano i più “squallidi”) con arredi semplici, tavole apparecchiate in modo corretto senza troppi cedimenti all’eleganza poiché si trattava, in molti casi di servizi da ripetere, soprattutto a mezzogiorno, per pranzi più rapidi, e quindi, bisognava cambiare rapidamente l’apparecchiatura. In questa categoria fece la sua comparsa il cosiddetto “coprimacchia”, una tovaglia più piccola, solitamente bianca, lavata e stirata con facilità e minori costi, che consentiva di non dover cambiare spesso quella di base.
Le trattorie, specializzate in occasioni conviviali più popolari e informali, nelle quali la tovaglia poteva assumere colori e decori anche sgargianti proprio a significare la mancanza di “etichetta”, indubbiamente le più frequentate da clienti che non amavano sentirsi vincolati a comportamenti “ingessati”.
Le pizzerie, le più diffuse, nelle quali cominciavano a farsi vedere le tovaglie “usa e getta”, spesso di carta, che sarebbero diventate, nel giro di un decennio e fino ad oggi, anche la nota di arredo della tavola di locali con proposte rustiche con i “taglieri” di salumi e formaggi tuttora in gran voga.
Tornando alla nostra protagonista, la tovaglia, bisogna dire che, proprio negli ultimi anni, sono sorte due scuole di pensiero: mantenerla ed essere “schiavizzati” dal lavaggio, lo stiro, la sostituzione continua, oppure eliminarla del tutto, proponendo il tavolo, preferibilmente di design, “nudo” sul quale appoggiare il piatto, i bicchieri le posate e dare finalmente alle preparazioni di cucina il giusto ruolo? Il dibattito è aperto:
C’è chi dice che la soluzione del “via la tovaglia” sia la migliore perché più pulita e in sintonia con i tempi, mostrando le belle linee dei tavoli che, oltretutto, fanno distinguere proprio per questo, un ristorante dall’altro e non come avveniva prima, con le sale da pranzo appiattite dall’apparecchiatura simile ovunque.
C’è, al contrario, chi dice che, da un punto di vista igienico, la pulizia dei ripiani dei tavoli “nudi” non è pari a quella garantita dalla tovaglia o dal coprimacchia, lavato e sterilizzato e che, in questo periodo di timori per diffusione di batteri in ogni dove, almeno la tavola dovrebbe garantirne l’assenza. Inoltre, qualcuno dice che i tavoli “svestiti” sono spesso segnati da segni di bicchieri, macchie dovute a vino versato, schizzi di salsa e quant’altro.
C’è anche un’ultima fazione, che suggerisce la possibilità di eliminare le tovaglie solo se i tavoli hanno superfici inattaccabili come il vetro, ma vorrebbe trovare sul tavolo almeno un po’ di “calore” almeno con belle tovagliette anche se più ridotte.
Quale il verdetto di questo processo? Come sempre, ricordando “Così è se vi pare” di pirandelliana memoria, il dibattito può essere permanente, lasciando liberi i ristoratori di scegliere la formula a loro più congeniale ma tenendo presente, soprattutto, ciò che sarebbe più gradito ai loro veri “padroni”, la clientela, vera giudice non solo delle prestazioni di cucina poiché, è bene ricordarlo, al ristorante si torna per tutto l’insieme e l’ambiente gioca sempre un ruolo piuttosto importante.
Italiaatavola
In periodo medievale, il tavolo per “desinare” doveva essere rustico, di legno spesso e, poiché gli uomini erano “rudi e guerrieri”, l’uso della tovaglia non era nemmeno pensato e i piatti e scodelle, spesso metallici, erano utilizzati solo per le minestre. Nel periodo rinascimentale, specie in Italia, dove le arti trionfavano in ogni settore, la cucina divenne più colta, i cuochi più preparati e, con la celebrazione del banchetto, le tovaglie divennero indispensabili.
Si chiamavano “mantili” e, poiché l’uso delle forchette era ai primordi e le macchie erano molte, se ne mettevano tre o quattro, sovrapposti, togliendoli, di volta in volta, dopo i servizi. In definitiva, lo scopo dei mantili, più o meno preziosi secondo le capacità economiche dei padroni di casa, era quello di proteggere i tavoli, spesso di legno pregiato, per evitare di rovinarli. Nelle locande popolari, tuttavia, i tavolacci, erano assolutamente nudi.
Bisogna inoltre considerare che, da allora e fino a metà ottocento, la sala da pranzo, nei castelli e nelle grandi case patrizie, la sala da pranzo come la intendiamo oggi, non esisteva e si faceva “pranzo”, secondo le circostanze, con tavoli di dimensioni variabili, in ambienti diversi: in biblioteca o nel salotto, per occasioni intime, nei grandi saloni per i banchetti. Mentre, per le prime, si utilizzavano tavoli molto belli con tovaglie che dovevano lasciare scoperte le gambe intarsiate; per i grandi banchetti, si montavano lunghi ripiani di legno sopra cavalletti, come si fa oggi nei grandi eventi gastronomici. In questo caso, i lunghi tavoli erano ricoperti da tovaglie che giungevano fino a terra, per non mostrare proprio i cavalletti. I tovaglioli, considerando tenendo conto dell’uso ancora scarso delle posate, erano di grandi dimensioni, spesso fino ad un metro di lato.
Col tempo e l’avvento della vera “sala da pranzo”, sia in grandi ambienti, sia nelle case comuni, la tovaglia assunse grande importanza e così, nella ristorazione nella quale, sin dal periodo tardo ottocentesco, quando i veri ristoranti erano compresi negli alberghi, frequentati, soprattutto dalla borghesia, la sala da pranzo era il vero “fiore all’occhiello”, elegante, molto ben arredata e, naturalmente, con tavoli ricoperti da bellissime tovaglie, di lino o di Fiandra che venivano lavate e stirate alla perfezione prima di ogni servizio. Nel secolo scorso, con la ristorazione indipendente e cioè anche fuori dagli alberghi, i locali iniziarono a distinguersi in diverse categorie:
Di lusso, davvero pochi in ogni città, arredati in modo perfetto, con grandi cucine, ottimo servizio di sala e, naturalmente, tavoli apparecchiati con tovaglie di grande qualità e tovaglioli di dimensioni non inferiori ai 60-70 cm di lato.
Commerciali, i più diffusi, indubbiamente più sobri (alcuni dicevano i più “squallidi”) con arredi semplici, tavole apparecchiate in modo corretto senza troppi cedimenti all’eleganza poiché si trattava, in molti casi di servizi da ripetere, soprattutto a mezzogiorno, per pranzi più rapidi, e quindi, bisognava cambiare rapidamente l’apparecchiatura. In questa categoria fece la sua comparsa il cosiddetto “coprimacchia”, una tovaglia più piccola, solitamente bianca, lavata e stirata con facilità e minori costi, che consentiva di non dover cambiare spesso quella di base.
Le trattorie, specializzate in occasioni conviviali più popolari e informali, nelle quali la tovaglia poteva assumere colori e decori anche sgargianti proprio a significare la mancanza di “etichetta”, indubbiamente le più frequentate da clienti che non amavano sentirsi vincolati a comportamenti “ingessati”.
Le pizzerie, le più diffuse, nelle quali cominciavano a farsi vedere le tovaglie “usa e getta”, spesso di carta, che sarebbero diventate, nel giro di un decennio e fino ad oggi, anche la nota di arredo della tavola di locali con proposte rustiche con i “taglieri” di salumi e formaggi tuttora in gran voga.
Tornando alla nostra protagonista, la tovaglia, bisogna dire che, proprio negli ultimi anni, sono sorte due scuole di pensiero: mantenerla ed essere “schiavizzati” dal lavaggio, lo stiro, la sostituzione continua, oppure eliminarla del tutto, proponendo il tavolo, preferibilmente di design, “nudo” sul quale appoggiare il piatto, i bicchieri le posate e dare finalmente alle preparazioni di cucina il giusto ruolo? Il dibattito è aperto:
C’è chi dice che la soluzione del “via la tovaglia” sia la migliore perché più pulita e in sintonia con i tempi, mostrando le belle linee dei tavoli che, oltretutto, fanno distinguere proprio per questo, un ristorante dall’altro e non come avveniva prima, con le sale da pranzo appiattite dall’apparecchiatura simile ovunque.
C’è, al contrario, chi dice che, da un punto di vista igienico, la pulizia dei ripiani dei tavoli “nudi” non è pari a quella garantita dalla tovaglia o dal coprimacchia, lavato e sterilizzato e che, in questo periodo di timori per diffusione di batteri in ogni dove, almeno la tavola dovrebbe garantirne l’assenza. Inoltre, qualcuno dice che i tavoli “svestiti” sono spesso segnati da segni di bicchieri, macchie dovute a vino versato, schizzi di salsa e quant’altro.
C’è anche un’ultima fazione, che suggerisce la possibilità di eliminare le tovaglie solo se i tavoli hanno superfici inattaccabili come il vetro, ma vorrebbe trovare sul tavolo almeno un po’ di “calore” almeno con belle tovagliette anche se più ridotte.
Quale il verdetto di questo processo? Come sempre, ricordando “Così è se vi pare” di pirandelliana memoria, il dibattito può essere permanente, lasciando liberi i ristoratori di scegliere la formula a loro più congeniale ma tenendo presente, soprattutto, ciò che sarebbe più gradito ai loro veri “padroni”, la clientela, vera giudice non solo delle prestazioni di cucina poiché, è bene ricordarlo, al ristorante si torna per tutto l’insieme e l’ambiente gioca sempre un ruolo piuttosto importante.
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