domenica 9 marzo 2025

Carlo Cambi: «Fine dining? Se vuoi autenticità vai in trattoria»

 

Intervista a Carlo Cambi: «Fine dining? Se vuoi mangiare autenticità vai in trattoria»

Per il noto giornalista e critico gastronomico, il fine dining ha perso di vista l'essenza della ristorazione, puntando più allo stupore che alla soddisfazione del cliente. Le trattorie, invece, rappresentano la vera autenticità: piatti legati al territorio, accoglienza familiare e cucina sincera. Senza di loro, sostiene, l'alta cucina non esisterebbe nemmeno

di Nicholas Reitano
Redattore

Intervista a Carlo Cambi: «Fine dining? Se vuoi mangiare autenticità vai in trattoria»

Ferran Adrià, uno dei padri e sperimentatori indiscussi dell'alta cucina mondiale, ha recentemente dichiarato che il fine dining è ancora vivoma che i giovani chef «non sognano più le stelle». È una provocazione che ha aperto una riflessione su come stiano cambiando le prospettive nel fine dining e, al contempo, sul possibile rilancio di osterie e trattorie ("sdoganate" da lui stesso). Su questo tema abbiamo avuto il piacere di confrontarci con Carlo Cambi, noto giornalista e critico gastronomico, che da tempo osserva (e racconta) le dinamiche della ristorazione italiana. Ne è nato un dialogo a tutto tondo su costi, accoglienza, autenticità e, naturalmente, sulle parole di Adrià.

Carlo Cambi: «Il ristorante deve soddisfare, non stupire»

Carlo, ovviamente dobbiamo iniziare dalle recenti parole di Adrià sul fine dining. Cosa ne pensa?
Facciamo questo ragionamento. Intanto, premesso che io penso ad Adrià un po' come alle comari di "Bocca di Rosa" di Fabrizio De Andrè - cioè a coloro che, non potendo più dare cattivi esempi, si limitano a dare buoni consigli - c'è da dire che trovo nelle parole di Adrià una parte di verità e una parte di ipocrisia. La verità sta nel fatto che, in Italia, c'è un certo spontaneismo eccessivo nell'aprire ristoranti, spesso incoraggiato anche dalle amministrazioni comunali, convinte che basti riempire il centro storico di “spacci di calorie” per attirare turismo. Questa spontaneità, però, diventa improvvisazione. La parte di ipocrisia sta nel dire: “Fate vivere al cliente un'esperienza”, come se il core business di un ristorante non fosse far mangiare bene in maniera complessiva, ma piuttosto spettacolarizzare il menu. Su questo non sono affatto d'accordo e sono convinto che tra chi offre da mangiare e chi si siede al tavolino debba esserci un rapporto di sincerità e di fiducia. Questi sono i due ingredienti fondamentali per avere successo.

Dunque, al centro di tutto dev'essere sempre il piatto, la sostanza?
La conoscibilità del piatto e la sincerità della proposta. Faccio un esempio personale: domenica scorsa sono andato a pranzo in un ristorante stellato con mia moglie e mia figlia, abbiamo fatto il menu degustazione e bevuto una bottiglia di buon champagne, nulla di eccezionale. Siamo usciti con un conto di 560 euro. È troppo? Poco? Secondo me è sbagliato. Non avevo la tovaglia, non potevo cambiare il menu e dovevo per forza prendere il degustazione. Inoltre, mi avevano chiesto in anticipo 40 euro di penale in caso di no show. Sono tutte cose legittime, ma che misurano una certa distanza tra l'ospitalità e l'ospite, come se il cuoco si sentisse superiore a chi siede a tavola. Ecco, questo è l'esatto contrario di ciò che deve accadere in un ristorante.

Anche Edoardo Raspelli ha notato che la crisi del fine dining non è più solo una questione economica, ma anche di monotonia: si cerca più lo stupore che il far apprezzare davvero il piatto...
Secondo me l'errore che si fa - ed è l'ipocrisia di Adrià - è nel dire che bisogna stupire il cliente, fargli vivere un'esperienza, un'eccezionalità. No, il ristorante deve soddisfare, al massimo livello possibile e con la massima affidabilità possibile, un bisogno alimentare, punto. Se voglio fare un'esperienza, vado altrove. E sa perché lo dico? Perché, se davvero si volesse far vivere un'esperienza, bisognerebbe raccontare gli ingredienti, far immaginare i territori da cui proviene la materia prima, mostrare la preparazione del piatto. Quella sarebbe un'esperienza. Ma se ci si limita alla fruizione del pasto, alla semplice degustazione, occorre che il piatto sia il più affidabile, sincero e corrispondente possibile alla proposta gastronomica e all'aspettativa di chi si siede. Il fine dining, invece, secondo me, ha ecceduto nel “rivestire di festoni di creatività” un atto alimentare fondamentale che è il nutrirsi.

Carlo Cambi: «Si dovrebbe iniziare a raccontare il valore di osterie e trattorie»

In questo contesto, che ruolo potrebbero avere le osterie e le trattorie? Oggi il fine dining sembra in calo, ma l'osteria, la trattoria di quartiere, resiste...
Ho curato per quindici anni una guida alle osterie e trattorie d'Italia. Facevo una cosa che non ho visto fare a nessun altro: non davo giudizi. Nella prefazione scrivevo: “Io vi prometto che tutti quelli che stanno in questo libro sono buoni, ma quanto siano buoni lo stabilirete voi, una volta che vi mettete a sedere”. Perché penso che l'atto alimentare dipenda da un'infinità di fattori, compreso lo stato d'animo di chi mangia. Se sei arrabbiato, posso farti il piatto migliore del mondo, ma il tuo approccio sarà comunque sfalsato. Oppure il cuoco o la cuoca, quella sera, possono avere la luna di traverso. Questa idea di voler emettere giudizi vanifica lo sforzo di ogni cuciniere di soddisfare al meglio il cliente. La trattoria, poi, è il luogo aderente alla cucina di territorio, con un processo di confezionamento dei piatti sostanzialmente familiare e un rapporto col cliente di grande spontaneità. Quando curavo la mia guida, avevo cinque criteri per decidere l'inclusione di un locale: che fosse storico o avesse una storia da raccontare, che la cucina fosse di territorio, che gli ingredienti fossero di prossimità, che i piatti fossero comprensibili e che l'accoglienza fosse familiare. Credo che questi criteri rimangano validissimi come pilastri della grande cucina italiana. E penso che il fine dining, invece di esaltare questi principi, li abbia dispersi, causando la propria crisi.

Ne consegue che fare una guida di recensioni della cucina risulti quasi impossibile, perché ci sono troppe variabili?
La mia idea è un'altra: non devi fare una guida che giudica, ma una guida che appunto guida. Cioè: offrire a chi legge la narrazione più completa possibile dell'incontro che farà. Nelle mie “recensioni” non c'erano voti, ma piuttosto racconti di ristoranti, dove il cibo aveva lo stesso rilievo della personalità del cuoco o della cuoca. L'esperienza della ristorazione non è lo stupore forzato, ma il contatto con un'accoglienza, un livello di comfort, la sensazione di essere accuditi e non impressionati.

Intervista a Carlo Cambi: «Fine dining? Se vuoi mangiare autenticità vai in trattoria»

Trattorie e autenticità: il vero valore della cucina italiana secondo Carlo Cambi

Eppure non vediamo ancora un vero “boom” di osterie e trattorie. Resistono, ma senza quell'attenzione mediatica di cui il fine dining ha goduto a lungo.
Se torniamo ad Adrià e guardiamo il conto economico, è più facile tenere in piedi una trattoria che un fine dining. Eppure non c'è mai stata un'operazione di personalizzazione della trattoria, né si è mai scelto di valorizzarne la storia come invece è successo per i ristoranti stellati. Non è mai esistito un sistema mediatico che si occupasse davvero delle trattorie. Credo, e lo dico con una punta di cattiveria, che questo accada perché la trattoria non ha margini per pagare PR o marchette. Quello che dovrebbe farsi è raccontarne il valore, spiegare che la trattoria è il luogo dove si esaltano al massimo l'agricoltura, il paesaggio, la tradizione e il corredo antropologico di un territorio. Invece, non si è mai parlato abbastanza di quanto sia fondamentale la trattoria per la nostra identità culinaria.

Quindi la comunicazione e la narrazione possono fare molto, ma c'è anche altro?
Sì, bisognerebbe anche riportare in vita alcuni piatti scomparsi. Prendiamo la galantina di pollo: oggi la trovi solo fatta dall'industria, perché raramente ci sono giovani che sappiano disossare un pollo per farla. Anche la cucina del quinto quarto - le frattaglie, il rognone, lo sformato, il polpettone - è praticamente sparita dalle nostre tavole, eppure sono capisaldi della civiltà gastronomica italiana. Ecco, dovremmo costruire scuole di cucina che recuperino questi valori, rendendoli fruibili in versione contemporanea. Un altro tema su cui sto ragionando, e su cui forse scriverò un libretto, è se la trattoria debba essere ancora considerata come “somministrazione” o se invece non vada inserita nella categoria dell'artigiano, cioè di chi fa tutto in proprio trasformando la materia prima in un'opera artigianale, unica. L'idea della semplice “somministrazione” ci ha portato a ristoranti che, con un paio di forni a microonde e buoni fornitori di piatti pronti, risolvono il menu e mortificano l'anima più profonda della trattoria: saper fare da mangiare per far star bene chi entra.

Carlo Cambi: «Senza la trattoria non esisterebbe il fine dining»

In un certo senso, oggi le osterie e le trattorie vengono considerate una sottocategoria del ristorante, ma in realtà sono la vera culla della tradizione.
Sono assolutamente d'accordo. Anzi, dirò di più: senza la trattoria non esisterebbe il fine dining, mentre non è vero il contrario. La trattoria esisteva molto prima di Adrià, mentre Adrià - e tutto il mondo del fine dining - affonda le radici proprio lì, in quelle cucine “povere” ma autentiche.

C'è anche chi sostiene che la Guida Michelin, col tempo, sia diventata più un veicolo di marketing che di vera cucina. Da qui, il declassamento del ruolo e dell'importanza di osterie e trattorie. È d'accordo?
Sì, e credo che la Michelin abbia tradito la propria origine. È nata per consigliare a chi comprava gomme dove fermarsi a mangiare durante i viaggi, una cosa semplice: “Se vai lì, mangi bene”. Con gli anni, però, è diventata un business a sé, comprando anche The Fork e trasformandosi in uno strumento di prenotazione. A quel punto sorge la domanda: se io guadagno una percentuale sulle prenotazioni, ho interesse a parlare di chi ha prezzi bassi o di chi pratica prezzi alti? E se faccio promozione, non rischio di perdere quel rapporto di neutralità che dovrei garantire? La Michelin si è messa al centro di un circo Barnum di protagonismi, dove l'attenzione è sul cuoco e non più sul cliente. Ma la guida dovrebbe servire a chi mangia, non a chi cucina.


Ultimissima domanda: un messaggio per restituire dignità alle osterie e alle trattorie?
È molto semplice: se vuoi mangiare autenticità, l'indirizzo giusto è la trattoria. Punto.

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