Sfogliando riviste e giornali, ascoltando le notizie sui media e soprattutto parlando con tantissimi colleghi e Operatori del settore food, sento e percepisco grandi preoccupazioni che, aggiunte a quelle dovute alla pandemia, disegnano un quadro generale complesso e a dir poco allarmante. È buona pratica in situazioni simili dare un’occhiata ai numeri e alle diverse previsioni, cosa non difficile da procurarsi in questi tempi, visto che su tutti i media si trovano statistiche e stime di ogni genere che, data la situazione, non fanno altro che confonderci ancora di più. Leggo appunto, alcuni dati, ma anche opinioni di “specialisti” che non necessitano commento… sembra quasi che in Italia non coltiviamo e non disponiamo di materie prime alimentari per comparti cruciali come la produzione di pane e pasta, oltre che i nostrani allevatori saranno costretti di mandare prematuramente il bestiame nelle macellerie, perché mancano pure i mangimi!
Comunicazione satura di opinionisti
E di fronte di queste verità, il governo tace preferendo concentrare e indirizzare l’opinione pubblica sul tema della guerra, che per carità, va condannata e fermata il prima possibile, ma in un certo senso grazie a questa guerra, vengono a galla i problemi economico-gestionali che da molti anni nessuno ha avuto il coraggio di affrontare. Sicuramente tutti rimaniamo un po’ disorientati quando tra i banner e le costose campagne pubblicitari di prodotti di ogni genere garantiti al 100% italiani, troviamo gli articoli e le interviste di esperti che sull’onda del tema bollente affermano con serietà che «nell’attuale scenario di emergenza mondiale, purtroppo l’Italia è un Paese deficitario che è costretto di importare addirittura il 64% del proprio fabbisogno di grano tenero per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais per l’alimentazione del bestiame e nella nuova PAC, ci sono incentivi per non coltivare il suolo». Non metto in discussione i fatti citati, però non posso che notare (e sono convinto che lo facciamo tutti) che sono sempre le solite facce, i soliti esperti che fino a qualche giorno fa erano punti di riferimento per le questioni pandemiche, oggi si esprimono altrettanto autorevolmente sulle tattiche militari e sugli errori dei governi precedenti che hanno causato con politiche sbagliate buona parte dei problemi che dobbiamo affrontare adesso.
Abituati a opinioni strampalate, ora si cambi!
Diciamo la verità: la stragrande maggioranza delle persone arrivano da sole a queste conclusioni che sono più che evidenti. Ed è vero anche, che il mondo della comunicazione da sempre utilizza i cosiddetti opinionisti più o meno conosciuti, per attirare l’attenzione e assicurarsi la share, ma forse è arrivato il momento giusto per cambiare anche questo status quo e dare spazio e voce ai veri esperti, che devono limitarsi ad esprimersi solo sulle proprie matterie. Eviteremo di sicuro tanta confusione, disinformazione e inutili polemiche che non portano mai niente di buono o costruttivo.
Per troppi anni abbiamo continuato a mettere sotto il tappeto alcune amare verità, cavalcando l’onda dei buoni propositi per un futuro green e sostenibile, che i risultati oggi ci mostrano che altro non era che un maestoso camuffo di ambizioni di sempre maggior profitto sulle spalle di persone e terre lontane, dichiarando loro eterna fedeltà nel nome di una globalizzazione a beneficio di tutti. Ma come in ogni storia d’amore, quando viene a mancare il reciproco rispetto oppure emerge il falso rispetto esistito, è inevitabile lo sgretolarsi di tutta la faccenda, pur così buona in partenza. Ed eccoci oggi qua: la guerra nel cuore della pacifica e buona Europa - che ci hanno insegnato a scuola sia la culla della civiltà - profughi e gente in fuga dalle bombe; prezzi alle stelle, mancanza di materie prime e risorse energetiche, speculazione e pericolo inflazione, incertezze, paure, disorientamento.
Se non si cambia rotta, sarà tragedia
Lo scenario è drammatico e mi sembra inutile cercare di ammorbidirlo con parole meno dure, anche se ci sembra quasi surreale. Tuttavia penso, almeno per quanto mi riguarda, che dopo le interminabili giornate del totale lockdown che abbiamo vissuto solo (si fa per dire) due anni fa, non ci può stupire più di nulla e che dobbiamo diventare coscienti che se non cambiamo rotta veramente e non solo a parole, può succedere ancora di tutto. Di fronte di tutto questo, non possiamo non guardare un altro dato statistico che, per quanto riguarda me e la mia professione di tecnologo alimentare è quello più importante: dopo la Seconda guerra mondiale la popolazione mondiale si aggirava intorno a poco più di 2,5 miliardi di persone, a gennaio 2022 ha toccato quota 8 miliardi e secondo le stime dall’ONU, nel 2050 potremmo raggiungere i 10 miliardi di persone.
Questi dati significano semplicemente una cosa e cioè che se la popolazione mondiale continua a crescere a ritmo costante, è evidente la necessità di dover produrre sempre più cibo. I metodi tradizionali di coltivazione/allevamento/produzione non possono essere sufficienti per far fronte ad una crescita così imponente della domanda, ma anche alla sfida climatica, alla carenza di fonti energetiche, materie prime e imballaggi, senza dimenticare la scarsità di manodopera generica e qualificata. Maggior ragione nell’attuale contesto sociale e geopolitico che pur non volendo cadere nel pessimismo, dobbiamo ammettere, forse non è mai stato così complesso e imprevedibile nella storia moderna dell’umanità. Diventerà cruciale quindi sviluppare e introdurre in larga scala tecnologie di filiera alternative e meno impattanti sull’ambiente nelle fasi di lavorazione, trasformazione, conservazione, trasporto e stoccaggio. Da adesso in poi, le parole e i concetti che così tanto abbiamo “sfruttato” negli ultimi anni come: tradizione, territorio, sostenibilità, eccellenze, tecnologie, innovazione, digitalizzazione, novel food, energie rinnovabili, idrogeno, biocarburanti... devono assumere altro significato e devono essere portati avanti con indispensabile rigore, soprattutto assumendosi la responsabilità di ogni azione e misura che prenderemo, perché non abbiamo più alcun margine di errore.
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