lunedì 28 settembre 2015

LA VIA ITALIANA AL PIACERE (part one)

La via italiana 
al piacere (part one)


Dolce, amaro, salato, acido. I quattro sapori che Aristotele poneva come punti cardinali del gusto
Vinsanto Carpineto

Quando qualcuno la scriverà, ne uscirà un nuovo importante aspetto della storia della gastronomia, del costume, del gusto, della lingua e della cultura.
E la storia dei nostri vini dolci si troverà a brillare, opportunamente incastonata in quella del "dolce", sapore italico simbolo della nostra culinaria e della nostra enologia come della nostra qualità della vita.
Nei secoli il dolce, sapore principale, si è incontrato nella nostra gastronomia con gli altri tre sapori principali (il secco, il piccante, l'agro ed altri che noi chiamiamo comunemente sapori sono riconducibili, nella teoria di matrice aristotelica, a quelli della quaterna originaria) con importanti risultati, che sono rimasti capisaldi nella storia del gusto.
Dolce più amaro, nel Rinascimento italiano, hanno prodotto gli amaretti e l'amaretto che oggi beviamo nel nome di Saranno Pi amaretti, Pellegrino Artusi (autore del manifesto della cucina per l'Italia unita) propone due ricette: una usa 100 grammi di mandorle dolci e 50 di mandorle amare, l'altra usa rispettivamente 180 e 20 grammi.
Dolci e amari insieme sono anche i famosi ricciarelli senesi, che in antico erano fatti con mandorle dolci e càtere amare, sapientemente miscelate. Artusi propone la proporzione di 200 grammi di mandorle dolci per 20 grammi di mandorle amare.
Dolce e salato, invece, non si sono incontrati con apprezzabili risultati. Forse perché il "sale dolce" in italiano è secolare sinonimo di stupidità.


Già il Boccaccio nel Decamerone (Novella 2, giornata terza) parla di una "Donna 'Zucca al vento, la quale era anzi che no, una poco dolce di sale…". Cinque secoli dopo Niccolò Tommaseo scriveva nel suo vocabolario "Dolce di sale. Uomo di troppa semplicità, segnatamente nella pratica della vita. Eufemismi invece di sciocco."
Dolce e acido, nella tradizione italiana, hanno prodotto le diverse preparazioni in dolce e forte, come quelle della lepre o del 'cinghiale dolce-forte' caro all'Artusi, fatto con una base di zucchero e aceto e poi con cioccolata, uvetta passolina, pinoli e canditi. Possiamo anche ricordare il baccalà dolce-forte e tutte le preparazioni in agrodolce (come le cipolline in agrodolce) e in dolce-piccante come quelle con miele e peperoncino, o zucchero e zenzero, che hanno conosciuto una certa fortuna nella cucina di avanguardia degli ultimi anni.
Recioto della Valpolicella Villa Girardi
Il dolce, avverte il Vocabolario della Crusca del 1612, caposaldo della storia della lingua italiana, "è sapore temperato, rispetto alle qualità prime, e attissimo al nutrire, e grato al gusto".
Apicio (25 a.C.) dà una ricetta per il vino meraviglioso spezziato, e un'altra di vino al miele con spezie per il viaggio, avvertendo che "si conserva a tempo indefinito e di cui possono disporre i viaggiatori per la via. Ecco la ricetta: Metti del pepe tritata con il miele schiumato in una scodella come per il vino alle spezie, e quando si vuole bere, a seconda del bisogno, si aggiunge la quantità miele al vino e si mescola; ma se il recipiente è capiente, si mescola al vino e miele un po' di vino per facilitare la soluzione del miele." Miele, vin cotto e passito, in un equilibrato miscuglio, dolcificavano sempre le salsette di Apicio.
Marco Terenzio Varrone (nella Saturae Menippeae) afferma che "il vino è un dolce vivaio d'allegria". Trasportandolo nella psicologia, e nella religione lo porta Orazio che nelle Odi, saluta "Fonte Bandusia, luce di cristallo, /come vini dolci e corone di fiori/ domani ti consacrerò un capretto…"
In un altro passo, Orazio eleva il dolce alle più alte vette del patriottismo, sentenziando che "Dulce et decorum est pro patria mori". Le antiche preghiere cristiane si rivolgevano a Maria nominandola dolce madre di Cristo; il Patriarca la chiamerà "Vergine dolce e pia".

La valenza semantica, sempre positiva, del "dolce" continuerà ininterrottamente nella nostra letteratura, sacra e profana. Per fare solo alcuni esempi dei più antichi e dei più noti, Caterina da Siena scriveva terribili pontefici intestando "Babbo mio dolce" mentre Boccaccio ricorda in una novella (la prima della prima giornata) "la mamma mia dolce che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte".
Dante (Purgatorio. c I vv. 13-14) presenta il dolce in un'immagine sinestetica che lo rende qualità del più pregiato calore: 'Dolce color d'oriental zaffiro/ che s'accoglieva nel sereno aspetto."
Petrarca che in un famoso sonetto (n. 70) ricorda i capelli d'oro di Laura, avvolti in "mille dolci nodi", e altrove "il dolce riso" della sua donna addirittura dedica con vero virtuosismo poetico un intero sonetto (n.173) alte variazioni sul terna del dolce, scrivendo "Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci./ Dolce mal, dolce affanno e dolce peso/ Dolce parlar, e dolcemente inteso/ Or di dolce ora, or pien di dolci faci/"
Schwarzwaldertorte fatta in casa da Daniela

I vini dolci la fecero da padroni nelle mense medioevali, i moscadelli in quelle rinascimentali, anche e soprattutto perché si abbinavano opportunamente alle pietanze assai dolci e spezziate che si servivano alle corti e banchetti della cucina ricca.
Certo il primato dei vini dolci nel rinascimento era ancora di quelli che provenivano dalle isole greche: "Sopra ogni vino il Greco è divino" diceva un proverbio rinascimentale. E infatti, nel 1435 come narra la tradizione al simposio degli umanisti a Firenze che sotto l'egida dei Medici rilanciò gli studi dei classici greci e latini, il Cardinal Bessarione assaggiò unoS splendido vino toscano da dessert e sentenziò in latino "Hoc Xantos est!!", come a dire "Ma questo è come il famoso vino dell'isola di Xantos". La cattiva traduzione del complimentoso motto fece il resto: era nato il Vin Santo Toscano.

(fine della prima parte)

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