Chi deve fare
ristorazione?
Servono regole
uguali per tutti
La questione della somministrazione di cibo è caldo, urgente e da troppo tempo irrisolta. Urge intervenire per evitare confusione e la generazione di un mercato sleale
Nella Babele giuridica che si è da tempo creata in Italia attorno al “fuori casa”, è ancora una volta la magistratura che interviene con sentenze che rischiano di fare saltare il banco, creando nuovi motivi di confusione e discriminazione visto che la presenza, o meno, di camerieri, non è irrilevante, perché da questa discendono normative da rispettare o meno, nonché garanzie e certezze per i consumatori.
Qualcuno potrebbe chiedersi dove stia il problema se una gelateria artigianale allestisce dei tavoli a self service, e magari aggiunge alla sua offerta anche del prosciutto, delle insalate e qualche birra. Piuttosto che vedere orde di ragazzotti o turisti in ciabatte che banchettano stravaccati sui gradini fuori da qualche chiesa o nelle piazze dei centri storici, meglio che stiano seduti a un tavolino là dove si sono comprati da mangiare.
Peccato che fra acquistare al bancone un prodotto (per essere consumato altrove) e mangiarlo seduti ad un tavolo c’è di mezzo quella che si definisce attività di somministrazione di cibo, che solo in Italia (bizzarria giuridica), può essere anche in forma non assistita, senza cioè servizio al tavolo. Ed è qui che gli artigiani entrano in campo grazie al Consiglio di Stato, occupandosi di attività che la legge riserva solo agli esercizi pubblici (commercianti) sottoposti a precise normative che non valgono certo per una gelateria, una pizzeria d’asporto o un kebab (dove “non si potrebbe” consumare il cibo acquistato).
E per quanto i posti dove si fa a tutti gli effetti ristorazione (da quella più light dei bar a quella dei locali gourmand) sia stata allargata a dismisura in Italia, dove sono almeno 330mila i locali dove si può “mangiare”, ci sono differenze normative che non possono essere annullate da un giorno all’altro da una sentenza, sia pure del Consiglio di Stato. Qualche dato per tutti: un esercizio pubblico è soggetto ad alcuni obblighi che vanno dai più banali accessi su strada (per il facile accesso della pubblica sicurezza in caso di bisogno) a quello del rispetto di pratiche igienico sanitarie sintetizzabili nell’Hccp e nella presenza di lavandini e gabinetti per la clientela. Se un bar dà una birra ad un minorenne rischia una condanna penale e la chiusura del locale, se lo fa una pizzeria d’asporto rischia al massimo una sanzione amministrativa.
Gli artigiani alimentari, se svolgono un lavoro importante anche in linea con le tradizioni del Paese, rispondono solo a normative sulle lavorazioni e non devono garantire alcun servizio.
Inutile dire che quella che si configura è una nuova confusione che aumenta i rischi di concorrenza sleale (che i commercianti già in parte subiscono con i falsi agriturismi, che hanno alte esenzioni fiscali) e che non migliora certo l’offerta e la qualità del comparto dell’accoglienza che è anche la nostra prima linea del turismo. Da tempo come Italia a Tavola sollecitiamo un intervento di semplificazione e chiarimento in tema di somministrazione del cibo, partendo in particolare dalla adozione di regole uguali per tutti. Solo così si può oltretutto fare rete fra i diversi comparti e offrire garanzie ai consumatori.
Ma questo lavoro non lo può fare la magistratura. Tocca alla politica e alle istituzioni scendere finalmente in campo e dare concretezza alle troppe parole spese per decantare i valori che stanno attorno al nostro cibo e alla nostra ristorazione. Ne abbiamo discusso con le associazioni di categoria nei giorni scorsi ad Artimino anche col Ministro Gian Marco Centinaio ed è a lui che rivolgiamo ora l’invito di costituire al più presto un tavolo di confronto per avviare l’attesa svolta.
di Alberto Lupini
direttore
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