Cina, voglia d'Italia
nei ristoranti
I produttori puntino
sull'extra-lusso
L'accordo che la Cia-Agricoltori italiani ha stretto con la piattaforma di e-commerce Alibaba dà una spinta anche alle piccole imprese italiane che vogliono affacciarsi all'estero. L'obiettivo deve essere quello di esportare un marchio, una cultura, un territorio puntando sul mercato del lusso.
L’accordo che la Cia-Agricoltori italiani ha stretto con Alibaba nei giorni scorsi rappresenta una spinta importante per tutta l’enogastronomia italiana che sta cercando ogni modo per rivedere il proprio business e uscire dalle sabbie mobili create dalla pandemia. Un anno di partnership che prevede proprio l’impegno di Alibaba - la più grande piattaforma al mondo di e-commerce B2B - a valorizzare fuori dai nostri confini le eccellenze italiane. Il valore aggiunto di questo modo di fare mercato sta nel fatto che il rapporto non è più tra produttori e consumatori, ma tra produttori e importatori. Ogni azienda ha la possibilità di aprire una sua vetrina virtuale con i propri prodotti acquistabili in modo rapido e digitale.
«Per i nostri produttori è una grande occasione - ha detto il presidente Cia, Dino Scanavino - perché si apre un nuovo modo di fare mercato e facendolo si dà un’impronta internazionale alla propria attività perché è come partecipare ad una fiera virtuale che dura 365 giorni l’anno. È qui che si gioca la partita, chi vende deve essere in grado di fare marketing facendo leva sul made in Italy, sull’artigianalità, sul marchio, tutti aspetti che nel mondo sono assai apprezzati. Gli operatori devono saper promuovere non solo il loro prodotto, ma un intero territorio perché questo genera mercato, magari non diretto, ma con ritorni positivi anche per la propria nicchia».
Alibaba apre le porte soprattutto sul mercato cinese, ma non solo: conta il 30% dei movimenti complessivi, ma la piattaforma è attiva anche nel resto del mondo. Viene da chiedersi se i produttori italiani, storicamente rei di non valorizzare al meglio le proprie eccellenze, siano in grado di sfruttare al meglio questa piattaforma. «Noi stiamo cercando di costruire una rete proprio tra le aziende - ha precisato Scanavino - puntando su quelle che già operano da tempo con modalità di business simili all’estero. Stiamo notando che chi ha un minimo di intuito si sta facendo subito avanti perché comprende le potenzialità, ma l’obiettivo è quello di coinvolgere le realtà più piccole che, per cultura italiana, sono tante. A loro viene data la possibilità di unirsi, di aprire “negozi” in modo condiviso e questo sarebbe un passo avanti decisivo sia da un punto di vista prettamente economico che di spirito di squadra, più che mai utile per farsi valere soprattutto all’estero».
Ma cosa cercano all’estero e in particolare in Cina quando guardano all’agroalimentare italiano? «L’eccellenza, il meglio, la qualità - risponde Scanavino - ed è su questo comparto che il made in Italy deve concentrarsi. Proprio perché la maggior parte delle nostre imprese sono micro-imprese noi non possiamo garantire la quantità, soprattutto per soddisfare l’immenso mercato cinese. Bisogna puntare all’Horeca, agli hotel e ai ristoranti senza impuntarsi con la grande distribuzione e allora c’è possibilità per sfondare».
Vendere in Cina resta comunque un’impresa non semplice e allora vale la pena soffermarsi su quanto sia fertile il mercato cinese per l’agroalimentare italiano. L’export agroalimentare italiano in Cina ha toccato nel 2019 quota 476milioni di euro, a fronte di importazioni cinesi in Italia per 666 milioni. L’interscambio commerciale agroalimentare si è chiuso quindi a favore di Pechino per un valore di 190 milioni di euro nel 2019. Con un giro d'affari di 127 milioni di euro, il vino italiano è stato il prodotto più esportato in Cina nel 2018. Seguono a distanza il comparto lattiero-caseario (33 milioni di euro) e l’olio d’oliva (27 milioni), che insieme valgono circa il 15% del fatturato agroalimentare italiano in Cina.
«In 10 anni - ricorda Scanavino - l’export del made in Italy in Cina è cresciuto del 130%. I volumi tuttavia restano ancora quasi insignificanti. Se pensiamo al vino che è quello che sta crescendo costantemente e con una curva graduale, senza impennate oggi siamo all’8% dell’export in Cina. La Francia è al 50%, ma è in calo proprio perché la nostra grande qualità sta rosicchiando fette di mercato».
Dalla teoria alla pratica. Roberto Damonte della Cantina Malvirà non ha tardato ad accogliere l’occasione data dalla Cia: «Abbiamo aderito - spiega - perché dovevamo trovare nuovi canali per promuoverci. L’annullamento delle fiere non ci avrebbe più consentito di portare i nostri vini a quelle 3-4 fiere alle quali partecipavamo ogni anno e questo avrebbe rappresentato un grosso ostacolo in più al nostro business che è sempre stato votato all’Horeca piuttosto che alla grande distribuzione. La crisi generata dal covid e la conseguente chiusura di bar, ristorante ed hotel ci ha messo in difficoltà e abbiamo dovuto rimboccarci le maniche. Alibaba è lo strumento nuovo sul quale siamo sbarcati per trovare nuovi acquirenti. Del resto l’export per noi rappresenta il 70% del fatturato e il mercato cinese in particolare contribuisce ai nostri bilanci per un decimo. C’è poi una questione di costi che cambiano radicalmente. Partecipare ad una fiera costa 10-15mila, essere su Alibaba tutto l’anno solo 5mila». Italiaatavola
La Cina cerca l'eccellenza italiana
«Per i nostri produttori è una grande occasione - ha detto il presidente Cia, Dino Scanavino - perché si apre un nuovo modo di fare mercato e facendolo si dà un’impronta internazionale alla propria attività perché è come partecipare ad una fiera virtuale che dura 365 giorni l’anno. È qui che si gioca la partita, chi vende deve essere in grado di fare marketing facendo leva sul made in Italy, sull’artigianalità, sul marchio, tutti aspetti che nel mondo sono assai apprezzati. Gli operatori devono saper promuovere non solo il loro prodotto, ma un intero territorio perché questo genera mercato, magari non diretto, ma con ritorni positivi anche per la propria nicchia».
Dino Scanavino
Alibaba apre le porte soprattutto sul mercato cinese, ma non solo: conta il 30% dei movimenti complessivi, ma la piattaforma è attiva anche nel resto del mondo. Viene da chiedersi se i produttori italiani, storicamente rei di non valorizzare al meglio le proprie eccellenze, siano in grado di sfruttare al meglio questa piattaforma. «Noi stiamo cercando di costruire una rete proprio tra le aziende - ha precisato Scanavino - puntando su quelle che già operano da tempo con modalità di business simili all’estero. Stiamo notando che chi ha un minimo di intuito si sta facendo subito avanti perché comprende le potenzialità, ma l’obiettivo è quello di coinvolgere le realtà più piccole che, per cultura italiana, sono tante. A loro viene data la possibilità di unirsi, di aprire “negozi” in modo condiviso e questo sarebbe un passo avanti decisivo sia da un punto di vista prettamente economico che di spirito di squadra, più che mai utile per farsi valere soprattutto all’estero».
Ma cosa cercano all’estero e in particolare in Cina quando guardano all’agroalimentare italiano? «L’eccellenza, il meglio, la qualità - risponde Scanavino - ed è su questo comparto che il made in Italy deve concentrarsi. Proprio perché la maggior parte delle nostre imprese sono micro-imprese noi non possiamo garantire la quantità, soprattutto per soddisfare l’immenso mercato cinese. Bisogna puntare all’Horeca, agli hotel e ai ristoranti senza impuntarsi con la grande distribuzione e allora c’è possibilità per sfondare».
Vendere in Cina resta comunque un’impresa non semplice e allora vale la pena soffermarsi su quanto sia fertile il mercato cinese per l’agroalimentare italiano. L’export agroalimentare italiano in Cina ha toccato nel 2019 quota 476milioni di euro, a fronte di importazioni cinesi in Italia per 666 milioni. L’interscambio commerciale agroalimentare si è chiuso quindi a favore di Pechino per un valore di 190 milioni di euro nel 2019. Con un giro d'affari di 127 milioni di euro, il vino italiano è stato il prodotto più esportato in Cina nel 2018. Seguono a distanza il comparto lattiero-caseario (33 milioni di euro) e l’olio d’oliva (27 milioni), che insieme valgono circa il 15% del fatturato agroalimentare italiano in Cina.
«In 10 anni - ricorda Scanavino - l’export del made in Italy in Cina è cresciuto del 130%. I volumi tuttavia restano ancora quasi insignificanti. Se pensiamo al vino che è quello che sta crescendo costantemente e con una curva graduale, senza impennate oggi siamo all’8% dell’export in Cina. La Francia è al 50%, ma è in calo proprio perché la nostra grande qualità sta rosicchiando fette di mercato».
Roberto Damonte
Dalla teoria alla pratica. Roberto Damonte della Cantina Malvirà non ha tardato ad accogliere l’occasione data dalla Cia: «Abbiamo aderito - spiega - perché dovevamo trovare nuovi canali per promuoverci. L’annullamento delle fiere non ci avrebbe più consentito di portare i nostri vini a quelle 3-4 fiere alle quali partecipavamo ogni anno e questo avrebbe rappresentato un grosso ostacolo in più al nostro business che è sempre stato votato all’Horeca piuttosto che alla grande distribuzione. La crisi generata dal covid e la conseguente chiusura di bar, ristorante ed hotel ci ha messo in difficoltà e abbiamo dovuto rimboccarci le maniche. Alibaba è lo strumento nuovo sul quale siamo sbarcati per trovare nuovi acquirenti. Del resto l’export per noi rappresenta il 70% del fatturato e il mercato cinese in particolare contribuisce ai nostri bilanci per un decimo. C’è poi una questione di costi che cambiano radicalmente. Partecipare ad una fiera costa 10-15mila, essere su Alibaba tutto l’anno solo 5mila». Italiaatavola
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