Il covid frena la corsa
di Milano. Troppi ristoranti
non riaprono più
Da città nota per la frenesia e gli uffici pieni di dipendenti workaholic (maniaci del lavoro) a metropoli semivuota per lo smart working. Così il capoluogo si è ritrovato dopo il lockdown. E la ristorazione, che aveva vissuto il boom negli ultimi anni, deve ridimensionarsi tra insegne di fama che chiudono e altre che non hanno mai riaperto.
AMilano la crisi di bar e ristoranti, messi al muro dall’emergenza Coronavirus, si presenta in tutto il suo grigiore. Non hanno più riaperto locali stellati o comunque molto noti, come quelli di Felix Lo Basso, Filippo La Mantia (che chiuderà a gennaio), il recente ‘Attimi’ di Heinz Beck, il recentissimo ‘N.10’ di Del Piero. Ad aprile, in pieno lockdown, l’allarme lanciato da Fipe-Confocommercio esponeva il rischio di 30 miliardi di euro di perdite, 50mila imprese fallite, 300mila posti di lavoro cancellati, per il settore dei pubblici esercizi nel complesso. Ora come ora le previsioni andrebbero aggiornate: il segretario dell’Associazione “Ambasciatori del Gusto”, lo chef Cesare Battisti, ipotizza che un quarto dei locali milanesi possa chiudere i battenti, ma è chiaro che i livelli d’incertezza attuali non sono la base ideale per elaborare grafici e proiezioni.
Una delle principali cause è lo smart working. La Milano frenetica, animata da lavoratori anche di un certo rango che vogliono mangiare alla svelta ma bene non c’è più perché quegli stessi lavoratori sono nel salotto di casa loro a “far girare l’economia” come direbbe il milanese quello imbruttito. E allora vola il cibo a domicilio o altre nuove forme di pranzo, mentre i ristoranti stanno alla porta (se l’hanno riaperta) ad aspettare. Il sindaco Beppe Sala ci sta provando ad invertire la rotta per riportare i milanesi negli uffici e per le strade della città.
«È evidente - aveva detto nelle scorse settimane - che una parte della città è ferma perché qualcun altro non lavora in presenza. Capisco che c’è una necessità di smart working, però, di nuovo, non consideriamola normalità. Se dovessimo considerarlo normalità dovremmo ripensare interamente la città e ripensare la città richiede tempo. Ora molto spesso mi dicono che difendo bar e ristoranti. Certo che li difendo, ma non penso solo a quello. Penso ai taxi o a tutto il mondo dello spettacolo, tra l'altro tutta gente che normalmente non ha un contratto a tempo determinato, vive se lavora. Che fanno questi se la città è vuota?»,
Il suo appello tuttavia non sembra aver sortito un grande effetti. Se le impressioni contano ancora qualcosa, va detto che a settembre il centro-centro della metropoli, per intendersi tutta la zona attorno al Duomo di Milano e vicino Brera, appare strano. Anzi stranito, si direbbe, con un aggettivo che umanizza i luoghi. Lo smart worker (rientrato in ufficio per il suo turno settimanale) che passeggia a ora di pranzo per vie e viuzze nota un silenzio poco confortante, meno gente per strada, traffico automobilistico quasi normale. E poi i negozi, ah quelli sì … c’è qualcosa di diverso, indubbiamente. Quel ristorante dove avevi festeggiato l’agognata promozione non ha più riaperto. Il bar dove prendevi sempre il caffé è chiuso, chissà se e quando riparte. E resistono meglio i bar, rispetto ai ristoranti, almeno questa è la prima impressione, mia e di diversi colleghi e conoscenti.
Come è diversa la Milano post-covid
In questo mortorio si potrebbe tentare un’analisi delle motivazioni della chiusura viste dal lato “come ti comunico telegraficamente”: ossia cosa vogliano dire i cartelli, appesi dai titolari degli esercizi commerciali alle vetrine chiuse. Ed ecco che proprio nel centro-centro, vicino alle più famose sedi di società finanziarie italiane, nel regno delle banche d’ affari e di Mediobanca, ti viene sotto gli occhi il locale che ben conosci, col pezzo di carta sull’ingresso sbarrato. Recita: “Il ristorante XY riaprirà fra qualche giorno”.
E tu sai che no, non riaprirà fra qualche giorno: l’avviso è lì dai primi di Agosto. Lo conoscevo bene il titolare, questo è il primo pensiero. Avevo frequentato le sue cucine, mi ero ritrovato con colleghi e amici a pranzo a cena, avevo perfino pubblicato un’intervista. Bel tipo, quel Vito (nome di fantasia). Esperienza all’estero per diversi anni, come cuoco, uno dei pochi che torna in Italia e spiccica un buon inglese. Poi, dopo le fatiche e le speranze dell’emigrato (ebbene sì, troviamo ancora italiani nella categoria maledetta degli emigrati), rientra in Italia con la voglia di fare impresa.
E così, nell’immediato post-Expo, apre un locale che strizza l’occhio ai bancari e ai professionisti che affollano i vicoli del centro, proprio in quella ristretta area urbana in cui Milano prende a rassomigliare a qualche più vetusta e famosa città d’arte italiana. «Vanno bene le cose - mi raccontava Vito un secolo fa, vale a dire nell’era pre-Covid - Ho una mia idea di cucina mediterranea, una via di mezzo fra il ristorante di classe e il locale ove si serve il panino o il primo veloce. Io e i miei soci vogliamo offrire una ristorazione gustosa ed esclusiva, di gamma medio-alta, senza esagerare con i prezzi. Con un occhio di riguardo ai tempi di servizio, altrimenti non potremmo venire incontro alle esigenze del nostro target, i professionisti e i bancari che vengono qui per la pausa pranzo. Sono gli stessi che poi tornano per cena, convinti dalle nostre proposte». Questo il suo messaggio. In un paio di anni il locale si era affermato, in zona, e lavorava in sinergia con un’azienda di esportazione di prodotti tipici italiani, ideata e tenuta in piedi sempre dallo stesso personaggio.
Ma ora bisogna confrontarsi col presente: “riaprirà fra qualche giorno”, ha scritto Vito. Questo bel tipo, uno tosto, uno che inseguiva i camerieri e gli ripeteva come e quanto a lungo dovevano spiegare il piatto al cliente, se notava un’imperfezione, ha fatto ricorso a una pietosa bugia. O forse immaginava per davvero di riaprire a breve, chi lo sa.
È noto che la comunicazione, anche per chi non lavori nel settore, è composta di tanti piccoli simboli dietro i quali è celato un mondo vasto e complesso. La frustrazione dell’imprenditore, l’angoscia del cuoco che si rimette a inviare curriculum, lo smarrimento del socio che vede svanire il capitale investito in una società sull’orlo del fallimento, a causa del Coronavirus e delle sue inevitabili conseguenze: tutto questo si annida dietro quattro parole, “riaprirà fra qualche giorno”, e ancora chissà quali, quanti universi. Un intero campionario di umanità ferita, ai limiti dell’indescrivibile, perché bisogna pur arrendersi: quel che si vorrebbe raccontare di una crisi così profonda sfugge anche alla comprensione di chi scrive per lavoro o per missione. L’ avvilimento di chi non può più fare si unisce alla tristezza di chi non sa più dire: stenta a trovare, con un minimo di adeguatezza, le parole per dirlo.
E allora vogliamo credere che “riaprirà fra qualche giorno” non sia una pietosa bugia, ma una sfida. Di un pezzetto di umanità talmente resiliente, talmente tosto, che non sa immaginare la sua vita, e con essa il cuore pulsante della Milano finanziaria, senza una riapertura. Anche quando tutto rema contro, anche al di là delll’evidenza. Io riaprirò, voleva dire quel cartello, non so quando e non so come. Non so nemmeno che cosa ci sarà dentro quella riapertura, ma di certo avverrà. L’orgoglio e la testardaggine non bastano, certo, contro un nemico subdolo come il Covid, ma rappresentano condizioni essenziali: senza di quelli non si può neanche respirare. Figuriamoci sfidare, o riaprire.
Milano senza lavoratori penalizza i ristoranti
Una delle principali cause è lo smart working. La Milano frenetica, animata da lavoratori anche di un certo rango che vogliono mangiare alla svelta ma bene non c’è più perché quegli stessi lavoratori sono nel salotto di casa loro a “far girare l’economia” come direbbe il milanese quello imbruttito. E allora vola il cibo a domicilio o altre nuove forme di pranzo, mentre i ristoranti stanno alla porta (se l’hanno riaperta) ad aspettare. Il sindaco Beppe Sala ci sta provando ad invertire la rotta per riportare i milanesi negli uffici e per le strade della città.
«È evidente - aveva detto nelle scorse settimane - che una parte della città è ferma perché qualcun altro non lavora in presenza. Capisco che c’è una necessità di smart working, però, di nuovo, non consideriamola normalità. Se dovessimo considerarlo normalità dovremmo ripensare interamente la città e ripensare la città richiede tempo. Ora molto spesso mi dicono che difendo bar e ristoranti. Certo che li difendo, ma non penso solo a quello. Penso ai taxi o a tutto il mondo dello spettacolo, tra l'altro tutta gente che normalmente non ha un contratto a tempo determinato, vive se lavora. Che fanno questi se la città è vuota?»,
Il suo appello tuttavia non sembra aver sortito un grande effetti. Se le impressioni contano ancora qualcosa, va detto che a settembre il centro-centro della metropoli, per intendersi tutta la zona attorno al Duomo di Milano e vicino Brera, appare strano. Anzi stranito, si direbbe, con un aggettivo che umanizza i luoghi. Lo smart worker (rientrato in ufficio per il suo turno settimanale) che passeggia a ora di pranzo per vie e viuzze nota un silenzio poco confortante, meno gente per strada, traffico automobilistico quasi normale. E poi i negozi, ah quelli sì … c’è qualcosa di diverso, indubbiamente. Quel ristorante dove avevi festeggiato l’agognata promozione non ha più riaperto. Il bar dove prendevi sempre il caffé è chiuso, chissà se e quando riparte. E resistono meglio i bar, rispetto ai ristoranti, almeno questa è la prima impressione, mia e di diversi colleghi e conoscenti.
Come è diversa la Milano post-covid
In questo mortorio si potrebbe tentare un’analisi delle motivazioni della chiusura viste dal lato “come ti comunico telegraficamente”: ossia cosa vogliano dire i cartelli, appesi dai titolari degli esercizi commerciali alle vetrine chiuse. Ed ecco che proprio nel centro-centro, vicino alle più famose sedi di società finanziarie italiane, nel regno delle banche d’ affari e di Mediobanca, ti viene sotto gli occhi il locale che ben conosci, col pezzo di carta sull’ingresso sbarrato. Recita: “Il ristorante XY riaprirà fra qualche giorno”.
E tu sai che no, non riaprirà fra qualche giorno: l’avviso è lì dai primi di Agosto. Lo conoscevo bene il titolare, questo è il primo pensiero. Avevo frequentato le sue cucine, mi ero ritrovato con colleghi e amici a pranzo a cena, avevo perfino pubblicato un’intervista. Bel tipo, quel Vito (nome di fantasia). Esperienza all’estero per diversi anni, come cuoco, uno dei pochi che torna in Italia e spiccica un buon inglese. Poi, dopo le fatiche e le speranze dell’emigrato (ebbene sì, troviamo ancora italiani nella categoria maledetta degli emigrati), rientra in Italia con la voglia di fare impresa.
E così, nell’immediato post-Expo, apre un locale che strizza l’occhio ai bancari e ai professionisti che affollano i vicoli del centro, proprio in quella ristretta area urbana in cui Milano prende a rassomigliare a qualche più vetusta e famosa città d’arte italiana. «Vanno bene le cose - mi raccontava Vito un secolo fa, vale a dire nell’era pre-Covid - Ho una mia idea di cucina mediterranea, una via di mezzo fra il ristorante di classe e il locale ove si serve il panino o il primo veloce. Io e i miei soci vogliamo offrire una ristorazione gustosa ed esclusiva, di gamma medio-alta, senza esagerare con i prezzi. Con un occhio di riguardo ai tempi di servizio, altrimenti non potremmo venire incontro alle esigenze del nostro target, i professionisti e i bancari che vengono qui per la pausa pranzo. Sono gli stessi che poi tornano per cena, convinti dalle nostre proposte». Questo il suo messaggio. In un paio di anni il locale si era affermato, in zona, e lavorava in sinergia con un’azienda di esportazione di prodotti tipici italiani, ideata e tenuta in piedi sempre dallo stesso personaggio.
Ma ora bisogna confrontarsi col presente: “riaprirà fra qualche giorno”, ha scritto Vito. Questo bel tipo, uno tosto, uno che inseguiva i camerieri e gli ripeteva come e quanto a lungo dovevano spiegare il piatto al cliente, se notava un’imperfezione, ha fatto ricorso a una pietosa bugia. O forse immaginava per davvero di riaprire a breve, chi lo sa.
È noto che la comunicazione, anche per chi non lavori nel settore, è composta di tanti piccoli simboli dietro i quali è celato un mondo vasto e complesso. La frustrazione dell’imprenditore, l’angoscia del cuoco che si rimette a inviare curriculum, lo smarrimento del socio che vede svanire il capitale investito in una società sull’orlo del fallimento, a causa del Coronavirus e delle sue inevitabili conseguenze: tutto questo si annida dietro quattro parole, “riaprirà fra qualche giorno”, e ancora chissà quali, quanti universi. Un intero campionario di umanità ferita, ai limiti dell’indescrivibile, perché bisogna pur arrendersi: quel che si vorrebbe raccontare di una crisi così profonda sfugge anche alla comprensione di chi scrive per lavoro o per missione. L’ avvilimento di chi non può più fare si unisce alla tristezza di chi non sa più dire: stenta a trovare, con un minimo di adeguatezza, le parole per dirlo.
E allora vogliamo credere che “riaprirà fra qualche giorno” non sia una pietosa bugia, ma una sfida. Di un pezzetto di umanità talmente resiliente, talmente tosto, che non sa immaginare la sua vita, e con essa il cuore pulsante della Milano finanziaria, senza una riapertura. Anche quando tutto rema contro, anche al di là delll’evidenza. Io riaprirò, voleva dire quel cartello, non so quando e non so come. Non so nemmeno che cosa ci sarà dentro quella riapertura, ma di certo avverrà. L’orgoglio e la testardaggine non bastano, certo, contro un nemico subdolo come il Covid, ma rappresentano condizioni essenziali: senza di quelli non si può neanche respirare. Figuriamoci sfidare, o riaprire.
di Guido Gabaldi
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