domenica 7 settembre 2025

Il pomodoro protagonista assoluto

 

Il menu che fa 

del pomodoro 

il protagonista assoluto in 6 portate 

da non perdere

Al ristorante Opera di Torino, lo chef Stefano Sforza celebra il pomodoro con il menu degustazione Jitomate, tra varietà rare e abbinamenti cromatici e organolettici studiati . Dal Camone verde al tamarillo, ogni piatto esalta freschezza e stagionalità. Precisione, creatività e rispetto della materia prima guidano la cucina dello chef, non solo nel menù vegetariano, ma anche nel percorso creativo Opera

Il menu che fa del pomodoro il protagonista assoluto in 6 portate da non perdere

Il pomodoro diventa protagonista assoluto al ristorante Opera di Torino. Con Jitomate, lo chef Stefano Sforza celebra la biodiversità e le mille sfumature di uno degli ortaggi simbolo della cucina italiana, trasformando ingredienti familiari in piatti sorprendenti. Dal Camone verde al ciliegino giallo, fino al tamarillo peruviano, ogni portata è pensata per stupire occhi e palato, con abbinamenti cromatici e organolettici studiati nei minimi dettagli. Il menu degustazione è servito al prezzo di 80 €, mentre l’abbinamento con quattro calici di vino costa 50 €, e il pairing con tè e decotti 40 €.

Il concept del menu Jitomate: il pomodoro come protagonista

Il nuovo menu Jitomate mette il pomodoro al centro come protagonista assoluto. Da dove nasce l'idea?

Jitomate è il nome originale del pomodoro, in spagnolo, di origine messicana. Abbiamo voluto dare al menu questo nome perché era già il terzo capitolo che dedichiamo al pomodoro: il primo si chiamava semplicemente Pomodoro, il secondo Solanacee, dal nome della famiglia botanica. 

Il menu che fa del pomodoro il protagonista assoluto in 6 portate da non perdere

Dalla tecnica alla perfezione: ogni pomodoro è trattato per esaltarne gusto e colore

menu vegetali funzionano sempre bene e anche questo sta riscuotendo molto interesse. È vero che è il terzo menu dedicato al pomodoro, ma ogni volta i piatti sono completamente nuovi. Anzi, per noi è ancora più stimolante: partiamo dall’esperienza accumulata con le edizioni precedenti per creare qualcosa di diverso, conoscendo già come certi ingredienti reagiscono e potendo spingerci oltre.

Dalla familiarità all’innovazione: reinventare il pomodoro

Mettere al centro un ingrediente così comune, non temi che qualcuno lo legga come una provocazione verso l’alta cucina, che di solito punta su ingredienti più “prestigiosi”?

Sì, lo è. Tutti conoscono il pomodoro, ma c’è differenza tra mangiarlo in insalata e assaggiarlo dopo lavorazioni particolari, tecniche precise e abbinamenti studiati. È un prodotto semplice, certo, ma trattato in questo modo diventa una sfida ancora più interessante. Ti faccio un esempio: la pasta al pomodoro. Tutti ne hanno memoria. Noi cerchiamo di fare due o tre passi in più, senza tradire l’identità del gusto, ma valorizzandolo al massimo.

Il menu che fa del pomodoro il protagonista assoluto in 6 portate da non perdere

I piatti del menu Jitomate: dall’antipasto al dessert, ogni piatto racconta l’estro dello chef Sforza

In più io sono un fanatico delle bucce: praticamente le tolgo sempre. Nei nostri piatti i pomodori sono privati della buccia, che sia bruciata, sbollentata o cotta in forno, ognuno con una tecnica diversa. È anche un modo per far conoscere l’ingrediente sotto forme che a casa difficilmente si provano.

Tecniche e varietà: giocare con colori e sapori

Camone, datterino, cuore rosa, ciliegino giallo, tondo nero, tamarillo: come usi le diverse varietà di pomodoro?

Ogni piatto è declinato su una varietà differente, e in questo menu ogni piatto ha anche un colore diverso. È un’idea che si ricollega a Opera: se la immagini come un’opera visiva, composta da immagini, ogni portata è un colore. Il primo è verde, poi c’è il rosso, il rosa, il giallo, il nero, fino all’arancione che chiude con i dessert.

Abbiamo costruito i piatti a partire dal colore del pomodoro: ad esempio, il primo è il verde, a base di pomodoro camone, che è rotondo e verde non perché acerbo, ma perché è proprio il suo colore naturale. Lo abbiniamo alla rucola, che trovi sia alla base come una crema, sia sopra, con un carpaccio di pomodoro verde condito con succo di kiwi. Poi ci sono salicornia, per dare sapidità e richiamare il mare, rucola wasabi per la parte piccante, olio di canapa e infine il kiwi cotto sotto sale.

Questa è stata una scoperta interessante: pensavamo che il kiwi diventasse molle, invece la cottura sotto sale lo rende molto più sodo, tanto da poterlo affettare sottile. Così è nato il carpaccio di kiwi accostato a quello di pomodoro: un esperimento nato quasi per caso, che abbiamo poi concretizzato nel piatto.

Il Tondo nero: melanzana, fico e profondità di gusto (e colore)

Il Tondo nero, melanzana, fico, latte di bufala è un piatto dalle tonalità scure, come hai usato il pomodoro?

Il protagonista è un pomodoro tondo nero. All’esterno ha già la buccia scura, ma una volta bruciato con il cannello e spellato rivela sotto un rosso intenso. Per mantenere però l’idea visiva del nero, lo glassiamo con una riduzione fatta dalla buccia di melanzane. In questo modo il piatto mantiene la sua coerenza cromatica, evocando subito il colore nero, ma con una profondità di gusto che lega perfettamente verdura e affumicato.

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Tondo nero, melanzana, fico, latte di bufala

Cuore rosa, pitahaya e Parmigiano: abbinamenti sorprendenti

Il piatto “Cuore rosa, sfoglia integrale, pitahaya, Parmigiano” unisce un frutto tropicale e un grande classico italiano..

Il cuore rosa nasce dal cuore di bue rosa, che non ha un colore davvero rosa, ma resta più chiaro rispetto al rosso classico. Per esaltare quella sfumatura abbiamo deciso di abbinarlo a un frutto: la pitahaya o dragon fruit, che con la sua polpa rosa aggiunge il tocco cromatico e aromatico.

Dal dragon fruit ricaviamo un estratto e lo utilizziamo anche a cubetti. L’abbiamo abbinato al Parmigiano Reggiano, perché pomodoro e parmigiano sono una coppia classica, che richiama la pasta al pomodoro. La sfida era bilanciare bene la sapidità del formaggio con la freschezza del frutto e del pomodoro.

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Cuore rosa, sfoglia integrale, pitahaya, Parmigiano

Abbiamo capito che bastano poche quantità: tre piccole sfere di parmigiano nel piatto, non un cucchiaio intero. Così il formaggio si percepisce ma non invade, lasciando spazio anche agli altri sapori. È un lavoro di dosaggio e precisione, che arriva dopo molte prove: il parmigiano è difficile da gestire, se esageri senti solo quello, se ne metti troppo poco sparisce.

Alla fine abbiamo scelto di non usarlo dentro la pasta, perché copriva tutto, ma solo all’esterno come una crema di Parmigiano al 100%, con base acqua, stagionatura di circa 36 mesi. Così diventa un elemento calibrato, che dialoga con gli altri ingredienti senza dominarli.

L’arrabbiata reinventata con pomodorino giallo

Hai anche un piatto con ciliegino giallo, fusillo, peperoncino amarillo e dragoncello. È una tua interpretazione dell’arrabbiata?

Sì, fondamentalmente è una pasta all’arrabbiata, ma costruita sul pomodorino giallo. La salsa parte da pomodori gialli cotti al forno come se fossero confit: da lì otteniamo una base che poi alleggeriamo con il sifone, creando una spuma soffice che mettiamo sul fondo del piatto.

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Ciliegino giallo, fusillo, peperoncino aji amarillo, dragoncello

Il fusillo resta bianco ma, dopo la cottura, lo rifiniamo con l’acqua di pomodoro e infine lo passiamo sulla brace: questo passaggio dà una leggera affumicatura e una croccantezza esterna. A completare ci sono il dragoncello, che aggiunge una spinta vegetale, e la senape, che regala una nota piccante e pungente.

Il peperoncino amarillo - giallo e dolce, non eccessivamente piccante - ci consente di dosare bene la parte speziata, senza renderla invadente. È un piatto molto apprezzato dai clienti, perché mantiene l’anima dell’arrabbiata ma con un volto nuovo.

Pomodori peruviani: lulo e tamarillo nel menu

Ci sono due piatti particolari in cui utilizzi pomodori poco conosciuti qui in Italia…

Sì, sono due varietà che arrivano direttamente dal Perù, coltivate a oltre 3.000 metri di altezza nella selva peruviana: il lulo e il tamarillo, chiamato anche tomate d’arbol. Sono prodotti quasi introvabili qui, ma grazie ai contatti con i negozi etnici di Torino riesco a reperirli e li trovo davvero affascinanti, perché hanno caratteristiche uniche.

Il menu che fa del pomodoro il protagonista assoluto in 6 portate da non perdere

Datterino rosso, lulo, shiso rosso, pinolo

E come li hai inseriti nel menu?

Il lulo lo utilizziamo nel secondo antipasto: è un pomodoro giallo-rosso molto acido, con una bella componente carnosa. Lo abbiniamo a un mix di pomodori datterini gialli e rossi, creando un piatto giocato sull’acidità e sulla freschezza. Il tamarillo, invece, lo usiamo nel dessert arancione. Ha una polpa aranciata intensa che richiama perfettamente il colore del piatto, e lo lavoriamo per valorizzarne la nota fruttata e leggermente aspra. È interessante perché in Italia è quasi sconosciuto, ma regala un finale sorprendente e coerente con il percorso del menu.

Dessert a base di pomodoro: colore e freschezza

Hai parlato del dessert, cosa mi racconti a proposito? Anche lì immagino sia stata una bella sfida…

Sì, assolutamente. All’inizio avevamo pensato a dei cremosi più classici, qualcosa di goloso. Poi ci siamo resi conto che la strada giusta era quella di lavorare con 100% frutta, senza aggiungere altro.

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Tamarillo, albicocca, limone, mandorla

Il piatto finale è composto da tre sfere diverse: una al biancomangiare di mandorle (quindi bianca), una all’albicocca e una al tomate d’arbol, il tamarillo, che ci dà la tonalità arancione. Così nel dessert ci sono tre colori: il bianco e due sfumature diverse di arancione, una più chiara e una più intensa.

In abbinamento c’è anche un sorbetto realizzato con la polpa di tamarillo, che riprende e rafforza il tema. È un finale fresco, fruttato, che chiude in coerenza con l’intero percorso del menu.

Menu Opera: evoluzione e piatti signature

Oltre al menu vegetariano, proponete anche il menu Opera, giusto?

Sì, oltre al menu Jitomate e al menu alla carta, c’è il menu Opera, che è un percorso più lungo rispetto al vegetale. Ha due piatti in più e si articola così: antipasto vegetale, un secondo antipasto di pesce, un terzo antipasto di carne, due primi, un intermezzo e il secondo. In questo momento l’intermezzo è un brodo di topinambur con prugne fermentate, mentre il piatto signature resta il piccione con banana, che proponiamo da quando abbiamo aperto. All’inizio l’avevo abbinato ad altre frutte, poi ho provato con la banana e non l’ho più cambiato: è rimasto un caposaldo del ristorante.

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Piccione, banana e curry

I piatti simbolo del menu Opera

Del menu Opera quali sono i piatti più siginificativi, ce li racconti?

Sì, ti parlo del piccione, un classico del nostro percorso. Lo cuciniamo intero: le cosce vengono cotte con il film, mentre nel piatto trovano spazio anche il cuore e il filetto, servito con una salsa al curry. Abbiamo poi la banana, che accompagna il piatto in tre diverse modalità: carpione, planciata e crema sul filetto, e delle chips di platano. Quindi anche qui lavoriamo su tre tipologie di banana e tre cotture diverse del piccione: è un esempio di evoluzione e cura dell’ingrediente.

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Calamarata, ostrica e catalogna
 

Un altro piatto che mi sento di consigliare è la calamarata con ostrica e catalogna. La pasta è una varietà locale, molto carnosa e di qualità, e viene condita con una salsa a base di ostriche che dona sapidità intensa. Per dare un tocco amaro e bilanciare, utilizziamo la catalogna, che si sposa perfettamente con il pesce. La chiave del piatto è però la foglia ostrica, che ha un gusto potente e marino, e dà un’ulteriore spinta gustativa al piatto.

Il percorso si chiude con il dessert Opera: lo scriviamo proprio così, “opera di dessert”. Lì siamo più liberi, cambiamo spesso in base alla stagionalità: lo abbiamo proposto con i fichi, con le fragole, con la barbabietola. In genere, mentre il menu dura quasi un anno intero (lo rinnoveremo a novembre), il dessert lo aggiorniamo con più frequenza.

La “Mela”: un dessert iconico in continua evoluzione

Tra i dessert c'è la “Mela”, che è diventato un'icona. Ce lo racconti?

Sì, la nostra Mela è ormai un dessert iconico, ma in continua evoluzione. La prima versione, del 2019, era diversa: più ricca, con latticini, cannella, limone. Oggi invece è diventata più essenziale e pulita nei sapori. Abbiamo eliminato il latte vaccino e usiamo solo latte di mandorla e acqua di mela per la crema, oltre al cioccolato bianco.

All’interno c’è un inserto di mele fresche tagliate a cubetti, insieme a un gel preparato con diverse varietà di mele: dalle 4 alle 6 tipologie a seconda della stagione. Questo ci permette di dare croccantezza, morbidezza e sfumature aromatiche diverse. A volte troviamo mele con la polpa rossa, e allora l’inserto assume tonalità più vivaci: anche il colore segue l’evoluzione naturale del frutto.

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Il dessert Mela

Il tutto viene poi ricoperto con un cioccolato allo yuzu, rifinito con una spruzzata dorata, e servito con un crumble di cacao e mandorla. È un dessert che i clienti riconoscono come simbolo di Opera, ma che abbiamo già cambiato tre volte, perché cresce con noi, con le idee della brigata e con le esigenze della clientela. Un altro aspetto per noi fondamentale è l’attenzione alle intolleranze e alle abitudini alimentari: oggi vediamo sempre più persone che non consumano latticini o che hanno allergie, quindi anche quando studiamo i dessert cerchiamo di anticipare queste necessità.

Pairing analcolico e cocktail: cambiamento in sala

Fate pairing non solo con i vini, ma anche con tè, cocktail e analcolici come il Green Bloody Mary. È un modo per intercettare nuove tendenze o nuove generazioni, oppure è una sfida personale?

Il pairing analcolico è diventato molto importante per noi. Siamo partiti dal tè e la risposta dei clienti è stata immediata e molto positiva. Oggi le persone bevono sempre meno vino, quindi dobbiamo adattarci: la mia cucina non richiede grandi rossi o vini importanti, perché è molto pulita, precisa e nitida. La clientela apprezza di più tè, cocktail o analcolici.

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Green Bloody Mary

Il Green Bloody Mary, per esempio, è a base di succo di pomodoro verde e kiwi, un richiamo diretto ai piatti del menu vegetale. È un lavoro stimolante anche per i camerieri: devono proporre qualcosa di nuovo, non banale, ma sempre di qualità. Non diamo succhi di frutta standard, ma prodotti di livello o preparazioni fatte in casa, come estratti o kombucha. Questo pairing va di pari passo con la cucina e con il livello del ristorante.

L’abbinamento funziona anche per coerenza di gusto: i vini rossi importanti possono facilmente sovrastare piatti delicati come quelli vegetali, mentre tè, cocktail o estratti valorizzano il piatto senza coprirlo. Ovviamente ci sono eccezioni: per piatti più strutturati, come la guancia o lo stinco, un vino rosso importante può starci. Ma sulla degustazione vegetale, abbinare il vino diventa sempre più complesso.

Vermouth di produzione propria: dall’uva al bicchiere

Avete introdotto di recente anche una vostra linea di vermouth, corretto?

Sì, abbiamo il nostro vermouth prodotto con le uve della piccola vigna di proprietà. Inizialmente si produceva solo vino bianco, principalmente Chardonnay, una scelta insolita per Chieri, dove lo Chardonnay non è comune. Il proprietario, sin dall’inizio, ha voluto provarci. Dopo due anni di vino, un esperto di vermouth gli ha suggerito di provare a produrre anche il vermouth, ed è così che è nato il vermouth bianco.

C’è stata un’evoluzione importante: all’inizio erano solo quattro grappoli, oggi la vigna è più ampia. In cucina e in sala lo usiamo soprattutto negli aperitivi, mentre lo Chardonnay è più leggero, profumato, e piace come vino da accompagnamento o da portare a casa. Il vermouth è stato un esperimento riuscito ed è anche più facile da vendere rispetto al vino bianco, mantenendo sempre la stessa attenzione e impegno che mettiamo in tutto ciò che produciamo.

Creatività e disciplina: il bilanciamento in cucina

Opera è “ingegno e creatività”: ma nella tua cucina quanto conta la disciplina e quanto l’istinto?

Direi che vanno di pari passo. Se non si padroneggia la tecnica, diventa difficile esprimere davvero la creatività e proporre qualcosa di nuovo. Per noi è fondamentale lavorare con buone tecniche che valorizzino la materia prima, e da lì nasce anche la parte creativa, che non è solo estetica nell’impiattamento, ma riguarda anche gli abbinamenti e le idee.

Allo stesso tempo cerchiamo sempre la soluzione più efficace: non per forza la più rapida, ma quella che porta al miglior risultato senza passaggi superflui. Il lavoro in cucina dipende molto anche dallo staff, dalle materie prime e dalle attrezzature disponibili.

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Ingegno e creatività: lo chef guida il percorso gastronomico con tecnica e passione

Un conto è creare un piatto, un altro è inserirlo in un menu a pieno servizio: lì la difficoltà aumenta. Per questo, quando studiamo un menu, puntiamo a tecniche ampie e replicabili, per poi selezionare quelle che semplificano il lavoro e riducono i tempi senza sacrificare la qualità.

Un esempio: con le capesante servivamo una base di agrumi, ma non volevamo i classici spicchi tagliati. All’inizio pulivamo gli agrumi, li mettevamo in uno stampo, li congelavamo e poi li affettavamo con l’affettatrice, ottenendo dischi sottilissimi e precisi. Poi abbiamo capito che l’affettatrice era troppo lenta: siamo passati al coltello, ma in servizio era complicato. Così abbiamo deciso di preparare i dischi in anticipo, ottimizzando i tempi senza perdere il risultato estetico.

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Precisione e dosaggio: ogni elemento del menu contribuisce all’armonia dei sapori

In sintesi, il nostro lavoro è un continuo bilanciamento tra rigore tecnico e ricerca creativa, con l’obiettivo di rendere ogni procedimento più semplice, replicabile e sostenibile anche per chi entra nuovo in cucina. Perché oggi il vero problema nella ristorazione è soprattutto lo staff: le tecniche devono essere ripetibili da tutti.

Semplificazione consapevole: togliere per esaltare

Tu spesso parli di togliere più che aggiungere nella tua cucina. In un fine dining si cerca spesso l’“effetto wow”: non rischi, con questa visione, di risultare troppo essenziale? 

Si potrebbe pensare così, ma in realtà no. Io parlo di semplificazione, anche se i miei ragazzi in cucina a volte mi odiano perché in verità è una semplificazione finta. Non tolgo per rendere povero un piatto: tolgo il superfluo, ciò che non definisce bene l’identità della materia prima.

Un esempio concreto: abbiamo eliminato quasi del tutto i grassi animali. Niente burro, niente panna. Perché? Se fai una crema di frutta con la panna, alla fine sa solo di panna, mentre la frutta rimane nascosta. Noi invece vogliamo che il gusto sia riconoscibile al 100%.

Nel menu attuale, ad esempio, nel dessert con il pomodoro e sfere di albicocca e tamarillo, all’inizio usavamo panna, anche vegetale, per alleggerire i cremosi. Poi abbiamo capito che non serviva: oggi lavoriamo la frutta in modi diversi, senza coprirne il sapore. Così il piatto è più “semplice” ma in realtà è un’evoluzione: il gusto è più pulito, diretto, autentico.

Quindi no, non credo che il nostro approccio rischi di essere troppo essenziale: è semplificazione solo in apparenza, ma in realtà è un lavoro di precisione e di valorizzazione della materia prima.

Limiti etici e creatività: cucinare con responsabilità

Hai detto che che hai tolto i grassi animali, ma anche foie gras e specie ittiche a rischio. In generale, mettere dei limiti etici alla cucina può essere stimolante dal punto di vista creativo?

Sì, è stimolante, anche se un po’ provocatorio. Siamo abituati a usare sempre gli stessi ingredienti, spesso standardizzati. Limitarsi eticamente, ad esempio eliminando certi grassi animali o specie ittiche a rischio, ti costringe a pensare in modo diverso, a scoprire ingredienti che magari non avevi mai visto o usato.

A volte sono prodotti più economici, a volte più difficili da valorizzare, ma lì entra in gioco la nostra bravura. Ad esempio, un gambero va lasciato quasi al naturale, perché se lo copri con altre lavorazioni ne perdi l’identità. Al contrario, su un pesce meno pregiato puoi intervenire di più, aggiungere la tua firma, rendere il piatto unico.

Questo approccio si collega anche al lavoro sul pomodoro: prendere un ingrediente semplice, valorizzarlo al massimo, e costruire un menu e uno stile di cucina che traspaiono attraverso ogni piatto.

Territorialità e piccoli produttori: l’importanza della materia prima

Parlando dei prodotti, ti appoggi ai piccoli produttori, anche etnici. Che significato ha per te la territorialità?

È fondamentale. Io faccio almeno la spesa al mercato 2-3 volte a settimana, principalmente al mercato di Porta Palazzo, che è enorme e diviso in due parti. Una parte è gestita da piccoli produttori locali, che sono obbligati a coltivare entro un certo perimetro della zona di Torino: lì ci sono contadini con cui ho un rapporto diretto, amici, e grazie a loro capisco come cambia la stagione e quando un prodotto sta per finire.

Poi c’è il mercato più grande, dove trovi tutto, ma questo comporta delle difficoltà: negli ultimi anni c’è sempre di tutto tutto l’anno, quindi diventa complicato capire la stagionalità reale. Ad esempio, le zucchine o i pomodori si trovano 365 giorni l’anno, e perde un po’ il senso del periodo vero della stagione.

Quando capita che un ingrediente stagionale non sia disponibile, devi arrangiarti: una volta avevamo preparato il menu vegetale tutto a base di asparagi e da un giorno all’altro non c’erano più. Abbiamo dovuto modificare tutto in fretta e furia, anche usando asparagi non ancora al picco della stagione.

È un lavoro difficile, stare dietro alla stagionalità di prodotti molto stagionali come piselli, fave, asparagi, funghi, ma fa parte del mestiere: conoscere bene la materia prima, rispettarne il tempo e saper reagire agli imprevisti è essenziale per mantenere la qualità dei piatti.

Il nuove menu degustazione Jitomate non è solo un percorso gastronomico, ma un’esperienza sensoriale completa: colori, profumi e consistenze dialogano tra loro, rivelando il potenziale nascosto di un ingrediente quotidiano. La scelta dello chef Sforza di lavorare solo con prodotti stagionali e varietà rare dimostra come la creatività e la tecnica possano valorizzare materie prime semplici, trasformandole in arte commestibile.

Chi è Stefano Sforza?

Lo chef Stefano Sforza, classe 1986, è oggi executive chef di Opera - Ingegno e Creatività a Torino. La sua cucina è nettaprecisa nel sapore e caratterizzata da una pulizia dei gusti, dove l’approccio è “togliere” piuttosto che “mettere”, come insegnava il maestro Gualtiero Marchesi. Dopo oltre 15 anni di esperienze in ristoranti di eccellenza come Bellevue di CogneDel Cambio a TorinoTrussardi alla Scala a Milano e tre anni al Turin Palace, Sforza ha sviluppato una cucina fatta di territorialitàinnovazione e stagionalità. Dai suoi maestri, tra cui Pier Bussetti e Alain Ducasse, ha appreso rigoredisciplina e rispetto per le materie prime. 

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Lo chef Stefano Sforza

Sei stato allievo di grandi maestri come Marchesi e Ducasse. Oggi cosa ti rimane da quelle esperienze? Qual è la lezione più importante?

Le esperienze che mi hanno fatto capire che volevo dedicarmi a questo tipo di ristorazione sono state soprattutto due. Avevo 18-19 anni, quindi ero molto giovane. La prima con Pier Bussetti, che è stato anche mio professore di cucina e che a Torino aveva un ristorante stellato. La seconda durante uno stage da Ducasse a Monte Carlo.

Vorrei poter rifare oggi quelle esperienze, con l’età e la maturità che ho adesso: all’epoca da stagista non comprendevo fino in fondo cosa stava succedendo, ma ho capito subito cosa significasse la disciplina e cosa volesse dire stare in una cucina di alto livello. Da lì è nata la convinzione che quella sarebbe stata la mia strada, e da allora ho sempre cercato ristoranti con un certo standard.

Non ti nascondo che negli anni ho fatto anche esperienze diverse: villaggi turistici, alberghi, cucine non di fine dining. Tutto è servito, ma alla fine ho capito che il mio percorso era questo. Già al Turin Palace e poi con Opera ho scelto consapevolmente di fare una ristorazione che nessuno ti obbliga a fare, perché il fine dining è complicato, richiede impegno quotidiano. Ma io voglio farlo e ogni giorno cerco di portarlo avanti al meglio.

Via Sant'Antonio da Padova, 3 10121 Torino
Tel +39 011 19507972
Da martedì a sabato: 12:30–14:00 / 19:30–22:00. Chiuso domenica e il lunedì tutto il giorno

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