Il 2021 dei pubblici esercizi
Si sopravvive
con idee o soldi
La situazione del settore non è certo delle migliori, ma adesso è il tempo per gli imprenditori della ristorazione di rimboccarsi le maniche e trovare soluzioni, non problemi o lamentele.
Dal canto suo lo Stato dovrà trovare il modo di fornire aiuti mirati, proporzionati e strutturali invece che interventi a pioggia
L’allarme è sempre più alto e più che giustificato, ma forse bisognerebbe evitare un po’ quello che sembra terrorismo psicologico. Confesercenti parla ad esempio di 90mila imprese che avrebbero chiuso a causa del Covid, ma in realtà siamo solo ad una stima. E peggio è l’Istat che parla di un 67% dei bar e dei ristoranti a rischio chiusura, ma solo sulla base di un sondaggio di opinioni. Più attendibile, ma sempre a livello di previsione, potrebbe essere lo studio della Fipe che indica in 50mila i pubblici esercizi che potrebbero abbassare le saracinesche per la pandemia con la perdita di 350mila posti di lavoro.
Prospettive terrificanti per il mondo dell’accoglienza italiano, che pure soffriva già prima della pandemia di un eccesso di offerta. Ma è davvero così? Pur con questo scenario terribile, e fra mille difficoltà, i bar e i ristoranti italiani in realtà ce la stanno mettendo tutta per tentare quel ritorno alla normalità (o quasi) dopo troppi mesi di crisi. Gli aiuti dello Stato, per molti versi insufficienti e lentissimi, hanno finora garantito a molte aziende di sopravvivere, e hanno spostato un po’ in là nel tempo il conto finale su quanti resteranno sul mercato o saranno costretti a chiudere. Il prolungamento della cassa integrazione e un auspicabile intervento analogo sugli affitti dovrebbero permettere a molti bar e ristoranti di contenere i danni e, in qualche caso, di rimettersi in corsa.
Per il 2021 è però difficile che lo Stato possa ulteriormente intervenire e, come andiamo da tempo sostenendo, i gestori devono trovare per tempo soluzioni capaci di garantire un allargamento delle attività, scontato che almeno per un po’ (Covid permettendo) sarà quasi impossibile riempire i locali come un tempo. Mancano i turisti stranieri e manca tutta la parte di clientela della pausa di mezzogiorno. E non va certo meglio agli hotel se si pensa che ben 5mila non hanno più riaperto dopo il lockdown e altrettanti rischiano di chiudere di nuovo dopo un’estate vissuta in altalena, con fatturati ovunque in calo e in alcune zone precipitati di oltre il 50% rispetto all’anno scorso.
A fare la differenza (al di là degli allarmi) saranno alla fine i criteri con cui lo Stato svolgerà nei prossimi mesi un ruolo di sostegno che non potrà essere a pioggia e indifferenziato. Non si possono aiutare tutte le aziende e si deve abbandonare una logica assistenzialistica che non porta da nessuna parte. Per fortuna alcuni nuovi interventi sembrano legati alla dimostrazione di un effettivo bisogno che può essere dimostrato solo dal calo di fatturato. Una scelta politica che non piace ai soliti furbetti che l’anno scorso avevano magari lavorato con tanto nero e ora non possono dimostrare dei cali di ricavi. Salvo dichiarare che quest’anno non hanno incassato nulla. Nel qual caso la serranda andrebbe abbassata per legge.
Bisogna essere onesti su questo punto: così come in molte grandi industrie, anche in tanti bar e ristoranti si sono messi i dipendenti in cassa integrazione, salvo poi chiamarli comunque a lavorare. Era una situazione d’emergenza assolutamente giustificabile per salvare stipendi famigliari e un minimo di attività. Ora che i momenti più drammatici potrebbero essere passati, non si può però più seguire questa strada. Anche perché sarebbe concorrenza sleale verso chi non usa la Cig. Invece della cassa integrazione, lo Stato potrebbe passare un contributo con cui pagare stipendi regolari a chi ha difficoltà non per incapacità gestionale (pensiamo ai centri storici), così da non disperdere conoscenze e professionalità. Ovviamente dimostrando di avere avuto meno fatturato in calo su base annua.
Le istituzioni devono muoversi per tempo anche per garantire la continuità di molte imprese. In primo luogo per evitare nuovi ingressi della criminalità in questo mondo, e poi per non snaturare la tipologia della nostra offerta che è uno degli asset del turismo. In questo caso chi sta meglio è ovviamente chi possiede i muri del proprio locale. Ma per chi non è in questa condizione è quindi centrale la questione affitti, su cui da tempo la Fipe è in prima linea per ottenere una revisione dei contratti sulla base dei minori ricavi. Non è pensabile che, come è successo a Roma, debba essere un Tribunale a decidere la riduzione di affitto a un ristorante. Deve intervenire la Politica. Un primo segnale positivo viene da Firenze, dove il Comune ha deciso di ridurre l’Imu per i proprietari di immobili commerciali, che applicheranno uno sconto sull’affitto del 30% per almeno 6 mesi. Servirebbe ora una legge nazionale.
Insomma da un lato serve innovazione e dall’altro le istituzioni devono scegliere strumenti adeguati per sostenere chi può farcela. Nei momenti più drammatici si poteva pensare di fare interventi a pioggia. Oggi si devono sostenere le aziende sane e pulite che sono magari in difficoltà per la situazione temporanea. Una cosa è certa, immaginare di continuare con interventi assistenzialistici tipo il reddito di cittadinanza non si può invece più fare. Quasi nessuno dei percettori di questa regalia ingiustificabile ha infatti accettato un nuovo lavoro: quasi tutti per “motivi familiari”, oppure per “scoraggiamento” al momento di mettersi alla prova. Meglio aiutare cuochi, camerieri o baristi a fare il loro lavoro in attesa che si torni alla normalità.
Prospettive terrificanti per il mondo dell’accoglienza italiano, che pure soffriva già prima della pandemia di un eccesso di offerta. Ma è davvero così? Pur con questo scenario terribile, e fra mille difficoltà, i bar e i ristoranti italiani in realtà ce la stanno mettendo tutta per tentare quel ritorno alla normalità (o quasi) dopo troppi mesi di crisi. Gli aiuti dello Stato, per molti versi insufficienti e lentissimi, hanno finora garantito a molte aziende di sopravvivere, e hanno spostato un po’ in là nel tempo il conto finale su quanti resteranno sul mercato o saranno costretti a chiudere. Il prolungamento della cassa integrazione e un auspicabile intervento analogo sugli affitti dovrebbero permettere a molti bar e ristoranti di contenere i danni e, in qualche caso, di rimettersi in corsa.
Per il 2021 è però difficile che lo Stato possa ulteriormente intervenire e, come andiamo da tempo sostenendo, i gestori devono trovare per tempo soluzioni capaci di garantire un allargamento delle attività, scontato che almeno per un po’ (Covid permettendo) sarà quasi impossibile riempire i locali come un tempo. Mancano i turisti stranieri e manca tutta la parte di clientela della pausa di mezzogiorno. E non va certo meglio agli hotel se si pensa che ben 5mila non hanno più riaperto dopo il lockdown e altrettanti rischiano di chiudere di nuovo dopo un’estate vissuta in altalena, con fatturati ovunque in calo e in alcune zone precipitati di oltre il 50% rispetto all’anno scorso.
A fare la differenza (al di là degli allarmi) saranno alla fine i criteri con cui lo Stato svolgerà nei prossimi mesi un ruolo di sostegno che non potrà essere a pioggia e indifferenziato. Non si possono aiutare tutte le aziende e si deve abbandonare una logica assistenzialistica che non porta da nessuna parte. Per fortuna alcuni nuovi interventi sembrano legati alla dimostrazione di un effettivo bisogno che può essere dimostrato solo dal calo di fatturato. Una scelta politica che non piace ai soliti furbetti che l’anno scorso avevano magari lavorato con tanto nero e ora non possono dimostrare dei cali di ricavi. Salvo dichiarare che quest’anno non hanno incassato nulla. Nel qual caso la serranda andrebbe abbassata per legge.
Bisogna essere onesti su questo punto: così come in molte grandi industrie, anche in tanti bar e ristoranti si sono messi i dipendenti in cassa integrazione, salvo poi chiamarli comunque a lavorare. Era una situazione d’emergenza assolutamente giustificabile per salvare stipendi famigliari e un minimo di attività. Ora che i momenti più drammatici potrebbero essere passati, non si può però più seguire questa strada. Anche perché sarebbe concorrenza sleale verso chi non usa la Cig. Invece della cassa integrazione, lo Stato potrebbe passare un contributo con cui pagare stipendi regolari a chi ha difficoltà non per incapacità gestionale (pensiamo ai centri storici), così da non disperdere conoscenze e professionalità. Ovviamente dimostrando di avere avuto meno fatturato in calo su base annua.
Le istituzioni devono muoversi per tempo anche per garantire la continuità di molte imprese. In primo luogo per evitare nuovi ingressi della criminalità in questo mondo, e poi per non snaturare la tipologia della nostra offerta che è uno degli asset del turismo. In questo caso chi sta meglio è ovviamente chi possiede i muri del proprio locale. Ma per chi non è in questa condizione è quindi centrale la questione affitti, su cui da tempo la Fipe è in prima linea per ottenere una revisione dei contratti sulla base dei minori ricavi. Non è pensabile che, come è successo a Roma, debba essere un Tribunale a decidere la riduzione di affitto a un ristorante. Deve intervenire la Politica. Un primo segnale positivo viene da Firenze, dove il Comune ha deciso di ridurre l’Imu per i proprietari di immobili commerciali, che applicheranno uno sconto sull’affitto del 30% per almeno 6 mesi. Servirebbe ora una legge nazionale.
Insomma da un lato serve innovazione e dall’altro le istituzioni devono scegliere strumenti adeguati per sostenere chi può farcela. Nei momenti più drammatici si poteva pensare di fare interventi a pioggia. Oggi si devono sostenere le aziende sane e pulite che sono magari in difficoltà per la situazione temporanea. Una cosa è certa, immaginare di continuare con interventi assistenzialistici tipo il reddito di cittadinanza non si può invece più fare. Quasi nessuno dei percettori di questa regalia ingiustificabile ha infatti accettato un nuovo lavoro: quasi tutti per “motivi familiari”, oppure per “scoraggiamento” al momento di mettersi alla prova. Meglio aiutare cuochi, camerieri o baristi a fare il loro lavoro in attesa che si torni alla normalità.
i Alberto Lupini
direttore
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