giovedì 21 novembre 2019

MA ESISTE POI DAVVERO UNA «CUCINA TIPICA»?

MA ESISTE 
POI DAVVERO
UNA «CUCINA TIPICA»?


       
Ma esiste poi davvero una «cucina tipica»? 
E se sì, in che senso? 
La definizione la troviamo ovunque, nei libri di gastronomia come nei depliant turistici e nei menù dei ristoranti. 
Tutti a dichiararsi «tipici», proponendo con questa formula magica un’immagine di genuinità dei piatti e dei luoghi.
Se è «tipico», quel piatto di pastasciutta o quella bistecca, vorrà dire che la sanno far bene, perché lì è sapienza di secoli, ne conoscono i segreti e le recondite virtù.
Sarà vero? Se per «tipico» intendiamo un modo particolare di preparare i cibi, allora può essere.
E’ «tipica» del territorio non la pecora di Lamon (che ormai è bergamasca), ma il modo di affumicarla o salarla, è «tipico» magari il pendolon, il pastin o la luganega agordina. Ma «tipico», nel senso che non esiste altrove, è il modo di preparare o di speziare.
Ma può dirsi «tipico» il caffè alla napoletana? Ci sarebbe da discuterne, perché in realtà il caffè «buono» è quello che risulta da un infuso tranquillo e deve avere un retrogusto acido. I veri esperti ne sanno riconoscere le qualità e le miscele. Invece agli italiani il caffè piace «bruciato», e più è ristretto e più piace, col risultato che varietà diverse, di maggiore o minore pregio, una volta super-tostate sono tutte uguali con buona pace della qualità. Altro che Italia «patria del caffè». 
Castagne e vin
Ma si sa, lo dice la pubblicità...
E può dirsi «tipica» la polenta? Da noi il mais è arrivato solo nel XVII secolo e ha preso il posto di polentine di farine di farro, avena, castagne e frumento, ben più «tipiche» e «tradizionali», che arrivavano direttamente dai tempi romani ma che si sono perse. 

Il mais imperversa, e la polenta sarà anche buona. Però quella è, e la preparano diversamente a seconda dei posti. Dura e gialla in montagna, molesela in pianura dove, del resto, almeno col pesce la preferiscono bianca.
Quanto al mais, a ciascuno il suo. Arrivato dall’America, il mais in Italia attecchì dapprima nel Veronese, dove fu presto abbandonato, per poi ritornare decenni dopo. Ma in tutta l’Europa centro-orientale lo si chiama in un altro nome, kukorica, kukuruza. Che deriva da un termine maya (kukuruz; confronta Ceram, «Le civiltà sepolte», pag. 423 nell’edizione 1955 Einaudi). E così abbiamo scoperto l’etimologia, fin qui rimasta oscura (e che indica un’unica origine ma due strade - e due storie - diverse di introduzione del mais in Europa). 
Insomma, nel caso della polenta, altro non è che una contaminazione, magari felice, tra una vecchia cucina e nuovi cibi e consuetudini.
 Si dirà che, magari, c’è quella particolare specie che fa la differenza, non solo il prodotto in sé, e che rende «tipica» la cucina. 
Chissà. Certo è che, per restare al granturco, il mais sponcio, «tipico bellunese» non è affatto. In un vecchio libro di agricoltura ungherese sul mais, abbiamo trovato proprio il tipo di «mais sponcio» bellunese («Magyar kukoricafajtak és termesztésuk», Budapest 1957).
Coincidenze? No. Anche il «pom prussian» è, appunto, «prussian», importato da emigranti bellunesi nel secolo scorso. Sarà poi diventato pure una tradizione, come le balote, ovvero i canederli (i knodel tirolesi) o i casunziei (trentini). Forse cambia il ripieno, rapa rossa a Cortina o zuca santa nell’Agordino con burro fuso e semi di papavero. Questi ultimi, poi, sembrano tanto un relitto della cucina austriaca e ungherese, dove i semi di papavero si usano a chili (tritati, non spruzzati sui piatti) per ricavarne un impasto, molto utilizzato nei dolci.
Cosa dire, alfine? Che la cucina è come la lingua. Si contamina, si mescola, prende in prestito e cede agli altri, sostituisce un ingrediente con un altro senza stravolgere la base. La base in cucina sta agli ingredienti come la sintassi o la morfologia stanno al lessico. Con la differenza che la contaminazione tra cucine è molto più intensa e veloce di quella tra lingue. Se ne volete una prova, leggetevi il bel libro di Carla Coco, «Venezia in cucina» (Laterza 2007), che non è un libro di ricette (qualcuna c’è) ma di storia. Storia densa di storie. Le spezie, le droghe, i viaggi, le scoperte. I pesci, naturalmente, di acqua dolce oltre che di mare e laguna. 



Come si batteva il baccalà negli anni Cinquanta
Il baccalà che viene dalla Norvegia dopo un naufragio di una nave veneziana. Verdure e frutta e viti che crescono (crescevano) negli orti di Venezia prima che fossero fagocitati dall’urbanizzazione, e tuttavia retaggio di un’epoca in cui lì, sopra la laguna di oggi, c’era campagna. Tant’è vero che sotto l’acqua oggi emergono talvolta ville e fattorie romane, e che, tanto per dire, calle lunga San Barnaba ricalca l’antica centuriazione romana (Wladimiro Dorigo, «Origini di Venezia») e dunque era terra coltivata. Venezia, però, importa tutto. Il veneziano non ara e non pascola, non coltiva e non produce: il veneziano commercia e trasforma, come scrive la Coco. E inevitabilmente contamina e mescola.
Piatti arabi, turchi, francesi, dalmati, austriaci, ebrei, greci, veneti di pianura e di montagna. Ne è venuto fuori un irripetibile e fantastico guazzabuglio di castradine s’ciavone, schinali e moronelle magari portati da Alessandria d’Egitto, sardoni ala grega, antremè, fracassè, fricandò e corassan. Fino al moderno spritz che è il nome di un vino austriaco.
Non si vorrebbe dar qui l’idea paradossale che la «cucina veneziana» sia tutta foresta, certo mantiene la sua vocazione per ortaggi e frutta, come scrive Carla Coco, e naturalmente per il pesce. Però è pur vera e concreta questa fantasmagoria di cibi e di piatti con mescolanze di sapori, adattamenti agli ingredienti, ai modi e agli spazi della cottura, alle ricorrenze e alle feste. Cucina veneziana? Sarà.


Certo è una mescolanza irripetibile: dunque, se vogliamo, «tipica». 
Ma vale per altre contrade? Vale, per esempio, per il Bellunese? Il fagiolo di Lamon, con quella sua scorzetta tenera che lo fa «unico», c’entra con Belluno come, per restare in tema, i cavoli a merenda. C’entra perché fu Pierio Valeriano nel 1532 a portarlo a Belluno da Roma. Dove era arrivato dalla Spagna. Dove era arrivato dalle Indie. Lo sperimentò a Castion ma lì non capirono il miracolo. Finì per attecchire a Lamon. Da dove partì per Venezia «verso altri inevitabili mercati e destini culinari». E adesso sul mercato di Bologna trovate i famosi «lamoni», in barba al marchio doc. Quanto al Phaseolus vulgaris, alias fagiuolo turchesco, arriva a Belluno dalle Americhe nel 1500, e il fagiolo dall’occhio è di origine afro-asiatica. 
Senza di loro, neanche la venetissima pasta e fagioli sarebbe mai esistita.
Il capriolo resiste sulle tavole dei cacciatori, forse: ché il resto è carne in scatola dalla Dalmazia o dall’Ungheria, e non di cacciagione. Di «tipico» c’è forse la pecora dell’Alpago, ma perché si salvò, grazie a una specie di «embargo» del Capitolo di Belluno. A differenza della pecora di Lamon, sostituita dalla bergamasca per motivi di resa economica.
Cosa c’è di «bellunese»? Forse neanche i patugoi. La trota è la fario. I s-cios, per le sagre, se le vanno a prendere in Slovenia. I gamberi? Sono spagnoli. Sono piatti di macro-area se non del mondo. Ed è più facile che un piatto «tipico» faccia il giro del mondo più velocemente di quanto ci metta un forestierismo ad
attecchire nella lingua..

di Toni Sirena

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