Centri storici
senza locali etnici?
Un errore, ma si punti
sulla qualità
Il vicepresidente di Fipe Aldo Cursano interviene sulla scelta di Vicenza che consentirà solo nuove aperture a imprenditori italiani. «Il mix culturale può essere utile al commercio»E aggiunge: «Deve innescare però una sana competizione all'insegna della ricerca della miglior proposta e non un gioco al ribasso».
Ha fatto discutere non poco la proposta di Vicenza sul nuovo regolamento commerciale nel centro storico. Kebab al bando e “no” a bar, ristoranti e supermercati legati a grandi catene; ma non solo perché anche per gli altri comparti del commercio l’assessore Silvio Giovine ha predisposto norme severe che concedono nuove aperture solo a marchi italiani, meglio se vicentini.
Un tema che ricorre ormai regolarmente negli ultimi anni con le città ad alta vocazione turistica che si sono messe in prima fila per arginare la bassa qualità a favore di attività più locali che diano anche una sterzata al turismo di massa. Si ricorda il caso eclatante di Venezia che ha dovuto mettere un freno all’apertura di take away e simili per non ritrovarsi le calli invase da turisti e di rifiuti; anche Bergamo, in Città Alta, aveva scelto la stessa strada così come Firenze, Genova e Verona. Ormai il turismo di massa è un lontano ricordo in un periodo storico segnato dal covid (anche se qualche caso sporadico ancora ha fatto notizia), ma lo stesso covid con la crisi economica che ha causato porta a ragionare nuovamente sul dibattito “pubblici esercizi italiani vs. stranieri”. Al di là delle idee e ideologie, al di là della politica, l’Horeca può permettersi di escludere alcune attività? E con quali criteri?
I numeri aiutano ad inquadrare l’attuale situazione (gli ultimi dati sono quelli del rapporto Fipe 2019). Sono oltre 45mila le imprese con “titolari” stranieri attive nel mercato della ristorazione, pari all’ 11,6% sul totale delle registrate. Le imprese straniere sono presenti soprattutto nelle tradizionali attività di ristorazione con una quota pari al 13,3%. Il canale bar rappresenta la seconda scelta da parte degli imprenditori stranieri con il 9,8% sul totale delle imprese registrate nel canale. Ancora una volta è tra le ditte individuali che si registra la più alta incidenza di imprese gestite da titolari di origine straniera (15,3%). Incidenza alta al Nord, dove spicca la Lombardia con oltre il 20% delle imprese registrate, e modesta al sud dove merita di essere citato il 3,6% della Campania.
I ragionamenti che si possono fare attorno alla questione sono molteplici. Aldo Cursano, vicepresidente della Federazione italiana pubblici esercizi, prova a mettere ordine e a trovare un punto di equilibrio in un momento in cui l’instabilità, l’incertezza e l’insoddisfazione regnano sovrane.
«Si tende sempre a chiudere i cancelli quando tutti i buoi sono usciti - ha esordito - senza ragionare su un piano di progettazione e pianificazione delle nostre città che invece sarebbe doveroso preparare e mettere in atto. La globalizzazione ha indebolito la cultura del territorio italiano, ne ha indebolito il tessuto commerciale. Il covid ha infierito su questa situazione perché la differenza che da sempre distingue i ristoratori italiani dal business delle grandi imprese sta nel modello famigliare di imprenditoria che si fonda su competenze tramandate negli anni, su conoscenze storiche, sul senso del lavoro, del sacrificio e della cultura che riguarda la tavola, ma che sa andare oltre».
Il principio base sul quale deve fondarsi il mercato tuttavia è sempre quello di una sana competizione ed è su questo che si concentra Cursano nell’entrare nel cuore della questione che ha trovato in Vicenza un nuovo impulso.
«I pubblici esercizi come il resto di tutti gli altri mercati hanno bisogno di un mix - ha spiegato Cursano - a patto che si inneschi una competizione al rialzo e non al ribasso. I centri storici inoltre hanno necessità di una proposta di altissima qualità che si ritrovi nelle proposte enogastronomiche, nei colori, negli stili, nell’estetica e nei contenuti. E tutto questo a prescindere dall’origine del locale; io credo che, ad esempio, si possa aprire un sushi senza problemi, a patto che il ristoratore sia pronto e preparato a portare il meglio della sua cultura nel centro storico scelto. Da tempo invece l’Italia ha aperto le porte ad ogni tipo di proposta e si è innescato un gioco al ribasso, soprattutto sui prezzi, ma di certo ci è andata di mezzo la qualità e ora ci troviamo a mettere dei cerotti su ferite gravissime».
Cursano chiude con un appello anche ai consumatori. «Anche i cittadini devono fare la loro parte - spiega - perché scegliere un locale di qualità piuttosto che un altro significa alimentare o condannare lo stesso centro storico in cui magari si vive. Si tratta di una consapevolezza che deve coinvolgere tutti fatta di contaminazioni e basata sul senso della ristorazione come atto d’amore che si conosce e alimenta in famiglia».
Stop ai locali stranieri nei centri storici?
Un tema che ricorre ormai regolarmente negli ultimi anni con le città ad alta vocazione turistica che si sono messe in prima fila per arginare la bassa qualità a favore di attività più locali che diano anche una sterzata al turismo di massa. Si ricorda il caso eclatante di Venezia che ha dovuto mettere un freno all’apertura di take away e simili per non ritrovarsi le calli invase da turisti e di rifiuti; anche Bergamo, in Città Alta, aveva scelto la stessa strada così come Firenze, Genova e Verona. Ormai il turismo di massa è un lontano ricordo in un periodo storico segnato dal covid (anche se qualche caso sporadico ancora ha fatto notizia), ma lo stesso covid con la crisi economica che ha causato porta a ragionare nuovamente sul dibattito “pubblici esercizi italiani vs. stranieri”. Al di là delle idee e ideologie, al di là della politica, l’Horeca può permettersi di escludere alcune attività? E con quali criteri?
I numeri aiutano ad inquadrare l’attuale situazione (gli ultimi dati sono quelli del rapporto Fipe 2019). Sono oltre 45mila le imprese con “titolari” stranieri attive nel mercato della ristorazione, pari all’ 11,6% sul totale delle registrate. Le imprese straniere sono presenti soprattutto nelle tradizionali attività di ristorazione con una quota pari al 13,3%. Il canale bar rappresenta la seconda scelta da parte degli imprenditori stranieri con il 9,8% sul totale delle imprese registrate nel canale. Ancora una volta è tra le ditte individuali che si registra la più alta incidenza di imprese gestite da titolari di origine straniera (15,3%). Incidenza alta al Nord, dove spicca la Lombardia con oltre il 20% delle imprese registrate, e modesta al sud dove merita di essere citato il 3,6% della Campania.
I ragionamenti che si possono fare attorno alla questione sono molteplici. Aldo Cursano, vicepresidente della Federazione italiana pubblici esercizi, prova a mettere ordine e a trovare un punto di equilibrio in un momento in cui l’instabilità, l’incertezza e l’insoddisfazione regnano sovrane.
Aldo Cursano
«Si tende sempre a chiudere i cancelli quando tutti i buoi sono usciti - ha esordito - senza ragionare su un piano di progettazione e pianificazione delle nostre città che invece sarebbe doveroso preparare e mettere in atto. La globalizzazione ha indebolito la cultura del territorio italiano, ne ha indebolito il tessuto commerciale. Il covid ha infierito su questa situazione perché la differenza che da sempre distingue i ristoratori italiani dal business delle grandi imprese sta nel modello famigliare di imprenditoria che si fonda su competenze tramandate negli anni, su conoscenze storiche, sul senso del lavoro, del sacrificio e della cultura che riguarda la tavola, ma che sa andare oltre».
Il principio base sul quale deve fondarsi il mercato tuttavia è sempre quello di una sana competizione ed è su questo che si concentra Cursano nell’entrare nel cuore della questione che ha trovato in Vicenza un nuovo impulso.
«I pubblici esercizi come il resto di tutti gli altri mercati hanno bisogno di un mix - ha spiegato Cursano - a patto che si inneschi una competizione al rialzo e non al ribasso. I centri storici inoltre hanno necessità di una proposta di altissima qualità che si ritrovi nelle proposte enogastronomiche, nei colori, negli stili, nell’estetica e nei contenuti. E tutto questo a prescindere dall’origine del locale; io credo che, ad esempio, si possa aprire un sushi senza problemi, a patto che il ristoratore sia pronto e preparato a portare il meglio della sua cultura nel centro storico scelto. Da tempo invece l’Italia ha aperto le porte ad ogni tipo di proposta e si è innescato un gioco al ribasso, soprattutto sui prezzi, ma di certo ci è andata di mezzo la qualità e ora ci troviamo a mettere dei cerotti su ferite gravissime».
Cursano chiude con un appello anche ai consumatori. «Anche i cittadini devono fare la loro parte - spiega - perché scegliere un locale di qualità piuttosto che un altro significa alimentare o condannare lo stesso centro storico in cui magari si vive. Si tratta di una consapevolezza che deve coinvolgere tutti fatta di contaminazioni e basata sul senso della ristorazione come atto d’amore che si conosce e alimenta in famiglia».
© Riproduzione riservatadi Federico Biffignandi
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