Orsola: "far la frittolera
xè na profession"
Ed è con questo “Vu, vu, siora,Vardeve” che Orsola, fra i personaggi femminili della commedia Il Campiello, scritta da Carlo Goldoni in occasione del Carnevale del 1755,
vanta la nobiltà di una professione tutt’altro che disdicevole come
avrebbe voluto invece la “siora” Gasparina. Altro personaggio del
copione goldoniano che oltre alle divertenti caratterizzazioni, de
veneti di un tempo, ancora una volta racconta spaccati di vita e di
antichi usi gastronomici. Come quello di preparare le “frittole” , o
frittelle, nel tempo che precede la Quaresima e che coincide con i
giorni del Carnevale. Quando al suo culmine, nel cosiddetto giovedì
grasso, oggi più di ieri, viene celebrato con chiacchiere, crostoli,i
“galani” del Goldoni, o con le frittelle.
Un cibo da strada, come illustra la descrizione del mestiere della “frittolera” Orsola che la Serenissima Repubblica aveva addirittura codificato, riconoscendone la corporazione. Quella appunto dei fritoleri che durante tutto il Carnevale vendevano per campi, campielli e calli della città lagunare quello che diventò in quei secoli il più tipico e tradizionale dei dolci di Venezia ma anche di tutto il Veneto e del Friuli. Non tardando, con il passar dei secoli, a superare i confini del Nordest per diffondersi in tutte le regioni d’Italia. Dove magari si aggiungeva o si sottraeva qualche ingrediente ma che in ogni caso, si rispettava la procedura che ancora oggi è considerata come quella originale. Farina bianca “00”, uvetta sultanina, zucchero, uova, latte, lievito di birra, zucchero vanigliato, sale, strutto per la frittura e altri aromi quali la buccia di limone o arancio e null’altro se non un fuoco vivo per friggere.
Un cibo da strada, come illustra la descrizione del mestiere della “frittolera” Orsola che la Serenissima Repubblica aveva addirittura codificato, riconoscendone la corporazione. Quella appunto dei fritoleri che durante tutto il Carnevale vendevano per campi, campielli e calli della città lagunare quello che diventò in quei secoli il più tipico e tradizionale dei dolci di Venezia ma anche di tutto il Veneto e del Friuli. Non tardando, con il passar dei secoli, a superare i confini del Nordest per diffondersi in tutte le regioni d’Italia. Dove magari si aggiungeva o si sottraeva qualche ingrediente ma che in ogni caso, si rispettava la procedura che ancora oggi è considerata come quella originale. Farina bianca “00”, uvetta sultanina, zucchero, uova, latte, lievito di birra, zucchero vanigliato, sale, strutto per la frittura e altri aromi quali la buccia di limone o arancio e null’altro se non un fuoco vivo per friggere.
Operazione che i frittoleri, preparatori, friggitori e
venditori al contempo, eseguivano all’aperto dentro grandi padelle
sostenute da tripodi. Come spiega più dettagliatamente un altro storico
veneziano, Giovanni Marangoni, che aggiunge pure gli
altri possibili ingredienti usati in epoca meno antica, pinoli e
cedrini. Ingredienti che insieme con l’uvetta venivano esposti in un
piatto posizionato accanto a quelle delle frittelle a testimoniare quel
che il goloso avrebbe mangiato nell’impasto trasformato in calda
frittella. Una sorta di etichetta degli ingredienti ante litteram che
dimostrava la professionalità del fritolero e delle attenzioni che le
magistrature veneziane deputate al controllo degli alimenti avevano fin
dai primi secoli del Mille. Quando,
attorno al 1300, pare siano comparse le prime “fritoe” vendute appunto
per strada ma anche nelle “malvasie”; le antiche botteghe dove oltre
alle frittelle si vendevano vini e, soprattutto il dolce vino Malvasia
che ben si abbinava alle frittelle calde e appena tolte dalla padella.
Cosparse di zucchero semolato che veniva aggiunto ogni volta che un
qualche avventore scompaginava la montagnola di frittelle poste in bella
vista su grandi piatti decorati. Simboli anch’essi di un’allegria
carnevalesca contagiosa che invadeva tutta la città dei Dogi, le case
dei nobili e dei patrizi ma anche dei popolani meno abbienti. Che a
Carnevale, anche nei tampi più oscuri delle pestilenze, non rinunciavano
a quello che, nel ‘700, fu proclamato “Dolce Nazionale dello Stato Veneto”
per merito dei fritoeri. Altro, dunque, che il “frittolera” lanciato
quasi con spregio dalla Gasparina alla Orsola, per mano della penna di
uno dei più grandi testimoni di Venezia e del Veneto nella sua commedia.
Dedicata appunto al Carnevale.
Orsola:
Chi songio? una massera? Gasparina: Pezo. Una frittolera.Orsola: Vardè!
se fazzo frittole? La xè una profession. Gasparina: Co la ferzora in
ztrada zè par bon. Zorzetto: Via, cavè, destrighève. (ad Orsola) Orsola:
Vu, vu, siora, vardève.
di Mario Stramazzo
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