Moròn: «Innovazione
e conoscenza
contro lo spreco
alimentare»
José De La Rosa Moròn è uno scienziato gastronomico di soli 26 anni, alle prese con la lotta all'anti-spreco, una sfida che può essere vinta solo con la consapevolezza. Consapevoli ad esempio che i piatti della nonna fossero al tempo "innovazione" o che dell'ananas si possono mangiare anche buccia e parte dura centrale.
José De La Rosa Moròn è un cittadino del mondo, un biologo assorbito dalla gastronomia e dalle scienze che lo circondano. Ama la neurofisiologia e la microbiologia. Arriva dal Basque Culinary Center e pensa che la gastronomia possa risolvere tanti problemi sociali. Oggi vive in Italia e lavora al Future Food Institute, a Bologna, dove gestisce il Food Alchemist Lab, coltivando microrganismi. Lui è stato uno dei protagonisti più attesi del Futureshots 2019, il festival di due giorni organizzato da H-Farm a Roncade, in provincia di Treviso, in cui si è parlato di realtà virtuale, musica, design, moda, sostenibilità, diritti civili e soprattutto cucina.
Chi è José De La Rosa Moròn?
Uno scienziato gastronomico, un pazzo che lavora al Future Food Institute, un ecosistema nato a Bologna che fa dell'innovazione alimentare uno strumento chiave per affrontare le grandi sfide del futuro. Il mio background è la biologia, è ciò che ho studiato all’Università di Siviglia. Dopo un’esperienza come cuoco in Inghilterra ho scoperto che il mio mondo era la gastronomia, senza dimenticare mai la mia formazione scientifica. Volevo introdurre la scienza in cucina. Mentre ero in Inghilterra sono venuto a conoscenza dell’esistenza di un master in “Scienze gastronomiche”, la prima edizione all’interno del Basque Culinary Center: mi ha aperto un mondo. Il mio tirocinio si è svolto al Futur Food Institute e li sono rimasto.
Uno scienziato gastronomico di cosa si occupa?
Che bella domanda! È un termine abbastanza nuovo che non va confuso con uno scienziato del cibo. Lo scienziato gastronomico non guarda solo i numeri, le statistiche e le percentuali, ma focalizza tanto dei suoi studi e della sua attenzione anche sul gusto, i colori, gli odori e tutte le sfumature che ci sono intorno a quel determinato cibo che si prova a modificare, a trasformare, a rendere più sostenibile. Pensiamo in termini di numeri e pensiamo a come rendere più sostenibile tutta una serie di processi per l’industria alimentare. Applichiamo la scienza al cibo, che però deve essere buono e deve essere in grado di avvicinare la gente.
Come è arrivato in H-Farm?
Attraverso Giorgia, una giornalista conosciuta in occasione di un servizio che ha deciso di dedicare agli hamburger di “non carne”, realizzati per Welldone, la catena bolognese di hamburgerie gourmet fondata nel 2013 per la quale lavoro.
Quando parliamo di cibo e di innovazione, di cosa stiamo parlando?
Per fare innovazione si deve guardare al passato per vedere gli errori commessi e non rifarli. Il nostro mantra al Future Food Institute è: “Per diventare tradizione, prima devi fare innovazione”. Ecco, questo concetto in Italia non è facile da far capire. Il pomodoro è arrivato dall’America, il basilico dall’India, e poi stop, è rimasto tutto così. Fermo. Se parli di innovare il cibo, vuol dire che devi provare a pensare a come fare per adattare tutto ciò che oggi sappiamo al futuro, ma in modo sostenibile e per una popolazione mondiale in continua crescita.
Fa parte della categoria di persone considerate “illuminate”, tali da essere in grado di vedere oltre e vedere prima. Come sarà il futuro della gastronomia?
Vorrei sentirmi illuminato come dice lei. Diciamo che siamo, per formazione, abituati a vedere, quando usiamo una determinata materia prima, cosa poi andremo a buttare nella spazzatura. Ecco, lì interveniamo noi e cerchiamo di capire come fare perché ciò non avvenga, che applicazione ulteriore può venir fuori dalla scorza di quel determinato vegetale. Tutto quello che oggi buttiamo via, sarà domani un problema da risolvere. Il nostro compito è trovare una soluzione.
Come possiamo pensare di riuscire a nutrire una popolazione mondiale che continua a crescere?
Su questa domanda è stato costruito il mio intervento in H-Farm. Con la consapevolezza di quello che è una materia prima. Pensiamo ad un ananas: la gente mangia la parte più gustosa, la polpa, ma di quel frutto tutto è edibile, la parte centrale dura e anche la pelle. Ogni parte andrebbe utilizzata in modo diverso. Il problema è che nessuno ti insegna come usare tutte le parti di quell’ananas, neppure quando sei al supermercato davanti alla bilancia a pesare quel frutto che poi verrà a casa con te.
Manca cultura?
Manca cultura, educazione, consapevolezza. Ti faccio un esempio: la gente oggi è in grado di cambiare la ruota di una macchina senza essere un meccanico, al massimo cerca su internet come fare. Perché con il cibo non applichiamo lo stesso metodo? Perché vediamo il supermercato come un negozio che dispensa gioia, colori? Hai tutto in un supermercato, non devi muovere neppure un dito. Ecco cosa manca… Sporcarsi le mani, con consapevolezza.
Ora vive in Italia. Come si trova?
Si, da due anni. Sono arrivato per il tirocinio del mio Master, poi ho iniziato a sviluppare un progetto con il Future Food Institute, mi hanno chiesto di rimanere e per me è stato incredibile. Questo periodo mi ha permesso di diventare un professionista e di essere qui oggi, in H-Farm, a rispondere alle sue domande. È una sfida molto grande, per tutti, anche perché, come detto, l’Italia, come la Spagna, è un Paese molto tradizionalista. Siamo legati ai piatti della nonna, senza renderci conto che c’è stato un momento in cui, prima di farsi tradizione, quella era innovazione. La vera sfida è che siano Paesi come i nostri a dare il via alla rivoluzione tanto attesa.
Prendiamo il suo lavoro e facciamolo a pezzi. In che percentuale parliamo di tecnica, di tecnologia e di conoscenza?
«Un terzo ciascuna. Nulla è più importante di altro, anzi, queste percentuali andrebbero ulteriormente spezzettate: manca l’antropologia, la cultura e tutto quello che impariamo a scuola. Se di tutto ciò che è il mio lavoro ne parlo a livello molecolare o scientifico, o ne parlo in termini numerici è noioso, alla gente non gliene frega nulla. Il mio lavoro consiste nel mettere colore, odore e sapore a quel tipo di esperienza che altrimenti rimarrebbe confinata in un laboratorio. Se faccio del mio lavoro un film, la gente andrà al cinema a vederlo.
La cucina, parliamo di cucina gourmet, stellata, quella delle guide, fatta di lustrini… Possiamo realisticamente pensare che sia sostenibile?
Dipende dallo chef e dal ristorante. Ci sono ristoranti super sostenibili che sanno trasformare il 100% di una mela o di un ananas e ci sono ristoranti che non sono in grado di fare ciò e magari per fare una crema di tuorlo buttano via litri di albume. Quando parliamo di quel tipo di ristorante, in realtà stiamo parlando di una azienda, ognuno con la sua strategia.
Un esempio illuminato?
Un ristorante a Bolzano che si trova all’interno di un hotel, Haselburg. In cucina lo chef, collega e amico Mattia Baroni, appassionato di ricerca applicata in cucina. Sta rivoluzionando il modo di mangiare nella zona. Probabilmente non lo conoscete ancora, ma presto sentirete parlare di lui.
L’Italia è la cucina del ricordo delle nonne. Quel tipo di cucina e i suoi microorganismi quanto sono lontani?
Sono così lontani come lo siamo io e te ora che condividiamo questo divano. Sono vicinissimi. Mia nonna da tutta una vita fa il Jamón ibérico. Lei non sa che faccia abbia un microorganismo, ma sa che deve mettere pepe nero e sale per evitare certe muffe e tenere lontani certi microorganismi che farebbero male alla nostra salute. È inconsapevole, diciamo, pur sapendo quello che deve fare.
Sostiene che la gastronomica possa risolvere problemi sociali. In che senso?
Tutti mangiamo e tutti ci capiamo intorno ad una tavola, perché il cibo è una lingua comune. Puoi stare seduto a cena o a pranzo con un giapponese, un cinese, un thailandese e non parlare la loro stessa lingua, ma vedrai la loro faccia e capirai se quello che stanno mangiando piace loro o meno. Si possono comunicare tante cose anche senza parlare la stessa lingua. Ci sono tanti modi bellissimi di “usare” la cucina. Pensate ad esempio a chi ha il compito di “rimettere” in società la gente che esce dal carcere, alla quale nessuno vuole dare un lavoro, ma che la sua pena l’ha già scontata. La cucina può essere quella chance!.
Da bambino cosa sognava di fare da grande?
Volevo essere uno scienziato capace di trovare delle cure per guarire le malattie più pericolose, immaginavo di passare la mia vita in un laboratorio. In parte questo poi è diventato il mio lavoro, in parte perché oltre alle ore passate in laboratorio c’è tanto altro. Il cibo è passione, empatia, il cibo ti attrae, contamina e tutto questo di solito lo fanno solo gli artisti, quando disegnano un quadro o fanno della musica. E il cibo è un’arte, ed è bellissimo metterci dentro la scienza e poi… Suonarla!.
Se le chiedessi, oggi che ha 26 anni, cosa vuole fare da grande… cosa mi risponderebbe?
Quello che faccio oggi, ma con maggiore consapevolezza e vestendo anche i panni dell’imprenditore.
Quindi non la vedremo ai fornelli in un futuro prossimo?
Assolutamente no. Non mi vedrete mai in cucina. Con Blanca Del Noval, chef e ricercatrice presso Basque Culinary Center, ho fatto di recente una cena a 4 mani, ma solo per passione. Lei è una mia cara amica ancora prima di essere una collega. Occuparsi di un servizio in un ristorante richiede tanta passione, perché devi essere in grado di dimostrare quello che puoi fare con i prodotti che hai a disposizione. È bellissimo, però tutti i giorni quel copia e incolla… non fa per me.
José De La Rosa Moròn
Chi è José De La Rosa Moròn?
Uno scienziato gastronomico, un pazzo che lavora al Future Food Institute, un ecosistema nato a Bologna che fa dell'innovazione alimentare uno strumento chiave per affrontare le grandi sfide del futuro. Il mio background è la biologia, è ciò che ho studiato all’Università di Siviglia. Dopo un’esperienza come cuoco in Inghilterra ho scoperto che il mio mondo era la gastronomia, senza dimenticare mai la mia formazione scientifica. Volevo introdurre la scienza in cucina. Mentre ero in Inghilterra sono venuto a conoscenza dell’esistenza di un master in “Scienze gastronomiche”, la prima edizione all’interno del Basque Culinary Center: mi ha aperto un mondo. Il mio tirocinio si è svolto al Futur Food Institute e li sono rimasto.
Uno scienziato gastronomico di cosa si occupa?
Che bella domanda! È un termine abbastanza nuovo che non va confuso con uno scienziato del cibo. Lo scienziato gastronomico non guarda solo i numeri, le statistiche e le percentuali, ma focalizza tanto dei suoi studi e della sua attenzione anche sul gusto, i colori, gli odori e tutte le sfumature che ci sono intorno a quel determinato cibo che si prova a modificare, a trasformare, a rendere più sostenibile. Pensiamo in termini di numeri e pensiamo a come rendere più sostenibile tutta una serie di processi per l’industria alimentare. Applichiamo la scienza al cibo, che però deve essere buono e deve essere in grado di avvicinare la gente.
Come è arrivato in H-Farm?
Attraverso Giorgia, una giornalista conosciuta in occasione di un servizio che ha deciso di dedicare agli hamburger di “non carne”, realizzati per Welldone, la catena bolognese di hamburgerie gourmet fondata nel 2013 per la quale lavoro.
Quando parliamo di cibo e di innovazione, di cosa stiamo parlando?
Per fare innovazione si deve guardare al passato per vedere gli errori commessi e non rifarli. Il nostro mantra al Future Food Institute è: “Per diventare tradizione, prima devi fare innovazione”. Ecco, questo concetto in Italia non è facile da far capire. Il pomodoro è arrivato dall’America, il basilico dall’India, e poi stop, è rimasto tutto così. Fermo. Se parli di innovare il cibo, vuol dire che devi provare a pensare a come fare per adattare tutto ciò che oggi sappiamo al futuro, ma in modo sostenibile e per una popolazione mondiale in continua crescita.
José è uno scienziato gastronomico, studia come rendere i cibi più sostenibili
Fa parte della categoria di persone considerate “illuminate”, tali da essere in grado di vedere oltre e vedere prima. Come sarà il futuro della gastronomia?
Vorrei sentirmi illuminato come dice lei. Diciamo che siamo, per formazione, abituati a vedere, quando usiamo una determinata materia prima, cosa poi andremo a buttare nella spazzatura. Ecco, lì interveniamo noi e cerchiamo di capire come fare perché ciò non avvenga, che applicazione ulteriore può venir fuori dalla scorza di quel determinato vegetale. Tutto quello che oggi buttiamo via, sarà domani un problema da risolvere. Il nostro compito è trovare una soluzione.
Come possiamo pensare di riuscire a nutrire una popolazione mondiale che continua a crescere?
Su questa domanda è stato costruito il mio intervento in H-Farm. Con la consapevolezza di quello che è una materia prima. Pensiamo ad un ananas: la gente mangia la parte più gustosa, la polpa, ma di quel frutto tutto è edibile, la parte centrale dura e anche la pelle. Ogni parte andrebbe utilizzata in modo diverso. Il problema è che nessuno ti insegna come usare tutte le parti di quell’ananas, neppure quando sei al supermercato davanti alla bilancia a pesare quel frutto che poi verrà a casa con te.
Manca cultura?
Manca cultura, educazione, consapevolezza. Ti faccio un esempio: la gente oggi è in grado di cambiare la ruota di una macchina senza essere un meccanico, al massimo cerca su internet come fare. Perché con il cibo non applichiamo lo stesso metodo? Perché vediamo il supermercato come un negozio che dispensa gioia, colori? Hai tutto in un supermercato, non devi muovere neppure un dito. Ecco cosa manca… Sporcarsi le mani, con consapevolezza.
Ora vive in Italia. Come si trova?
Si, da due anni. Sono arrivato per il tirocinio del mio Master, poi ho iniziato a sviluppare un progetto con il Future Food Institute, mi hanno chiesto di rimanere e per me è stato incredibile. Questo periodo mi ha permesso di diventare un professionista e di essere qui oggi, in H-Farm, a rispondere alle sue domande. È una sfida molto grande, per tutti, anche perché, come detto, l’Italia, come la Spagna, è un Paese molto tradizionalista. Siamo legati ai piatti della nonna, senza renderci conto che c’è stato un momento in cui, prima di farsi tradizione, quella era innovazione. La vera sfida è che siano Paesi come i nostri a dare il via alla rivoluzione tanto attesa.
Contro lo spreco alimentare mancano cultura, educazione, consapevolezza
Prendiamo il suo lavoro e facciamolo a pezzi. In che percentuale parliamo di tecnica, di tecnologia e di conoscenza?
«Un terzo ciascuna. Nulla è più importante di altro, anzi, queste percentuali andrebbero ulteriormente spezzettate: manca l’antropologia, la cultura e tutto quello che impariamo a scuola. Se di tutto ciò che è il mio lavoro ne parlo a livello molecolare o scientifico, o ne parlo in termini numerici è noioso, alla gente non gliene frega nulla. Il mio lavoro consiste nel mettere colore, odore e sapore a quel tipo di esperienza che altrimenti rimarrebbe confinata in un laboratorio. Se faccio del mio lavoro un film, la gente andrà al cinema a vederlo.
La cucina, parliamo di cucina gourmet, stellata, quella delle guide, fatta di lustrini… Possiamo realisticamente pensare che sia sostenibile?
Dipende dallo chef e dal ristorante. Ci sono ristoranti super sostenibili che sanno trasformare il 100% di una mela o di un ananas e ci sono ristoranti che non sono in grado di fare ciò e magari per fare una crema di tuorlo buttano via litri di albume. Quando parliamo di quel tipo di ristorante, in realtà stiamo parlando di una azienda, ognuno con la sua strategia.
Un esempio illuminato?
Un ristorante a Bolzano che si trova all’interno di un hotel, Haselburg. In cucina lo chef, collega e amico Mattia Baroni, appassionato di ricerca applicata in cucina. Sta rivoluzionando il modo di mangiare nella zona. Probabilmente non lo conoscete ancora, ma presto sentirete parlare di lui.
L’Italia è la cucina del ricordo delle nonne. Quel tipo di cucina e i suoi microorganismi quanto sono lontani?
Sono così lontani come lo siamo io e te ora che condividiamo questo divano. Sono vicinissimi. Mia nonna da tutta una vita fa il Jamón ibérico. Lei non sa che faccia abbia un microorganismo, ma sa che deve mettere pepe nero e sale per evitare certe muffe e tenere lontani certi microorganismi che farebbero male alla nostra salute. È inconsapevole, diciamo, pur sapendo quello che deve fare.
La cucina della nonna oggi è tradizione, ma tempo fa era innovazione
Sostiene che la gastronomica possa risolvere problemi sociali. In che senso?
Tutti mangiamo e tutti ci capiamo intorno ad una tavola, perché il cibo è una lingua comune. Puoi stare seduto a cena o a pranzo con un giapponese, un cinese, un thailandese e non parlare la loro stessa lingua, ma vedrai la loro faccia e capirai se quello che stanno mangiando piace loro o meno. Si possono comunicare tante cose anche senza parlare la stessa lingua. Ci sono tanti modi bellissimi di “usare” la cucina. Pensate ad esempio a chi ha il compito di “rimettere” in società la gente che esce dal carcere, alla quale nessuno vuole dare un lavoro, ma che la sua pena l’ha già scontata. La cucina può essere quella chance!.
Da bambino cosa sognava di fare da grande?
Volevo essere uno scienziato capace di trovare delle cure per guarire le malattie più pericolose, immaginavo di passare la mia vita in un laboratorio. In parte questo poi è diventato il mio lavoro, in parte perché oltre alle ore passate in laboratorio c’è tanto altro. Il cibo è passione, empatia, il cibo ti attrae, contamina e tutto questo di solito lo fanno solo gli artisti, quando disegnano un quadro o fanno della musica. E il cibo è un’arte, ed è bellissimo metterci dentro la scienza e poi… Suonarla!.
Se le chiedessi, oggi che ha 26 anni, cosa vuole fare da grande… cosa mi risponderebbe?
Quello che faccio oggi, ma con maggiore consapevolezza e vestendo anche i panni dell’imprenditore.
Quindi non la vedremo ai fornelli in un futuro prossimo?
Assolutamente no. Non mi vedrete mai in cucina. Con Blanca Del Noval, chef e ricercatrice presso Basque Culinary Center, ho fatto di recente una cena a 4 mani, ma solo per passione. Lei è una mia cara amica ancora prima di essere una collega. Occuparsi di un servizio in un ristorante richiede tanta passione, perché devi essere in grado di dimostrare quello che puoi fare con i prodotti che hai a disposizione. È bellissimo, però tutti i giorni quel copia e incolla… non fa per me.
di Nadia Afragola
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