Ordinari
e straordinari
Parlando con conoscenti (non definiamoli amici, perché sarebbe troppo), si registrano spesso e volentieri espressioni di disagio, talvolta addirittura indignate, verso questo o quel ristorante.
“E’ troppo caro!” o “Quello chef è insopportabile, si dà un sacco di arie” o “Una cucina con dei piatti insulsi e incomprensibili”. O, ancora: “Mi hanno addirittura chiesto il numero della carta di credito all’atto della prenotazione” e molte altre espressioni che evidenziano una forte contrarietà verso modi e comportamenti di un certo segmento di ristorazione.
Sul difficile rapporto fra cliente e ristoratore, cliente e chef o cliente e sommelier, si è scritto molto, anche su queste pagine. Ricordo un mio editoriale, che volutamente titolai “Il cliente (non) ha sempre ragione” che mi attirò consensi dall’universo dei professionisti, ma anche critiche da parte del “popolo” dei clienti. Il quesito comunque, è sempre attuale, considerate certe resistenze. Vedo, infatti, sempre più ristoranti in cui vige la “dittatura del cliente”, in una logica di totale liberismo, e altre strutture che, invece, avrebbero pretese didattiche, per non dire educative, verso il cliente insubordinato, portatore di richieste ritenute fuori luogo (dalla “carne ben cotta” fino alla “pasta e fagioli, ma senza fagioli”, sic!).
Qual è dunque l’atteggiamento giusto da tenere di fronte a richieste demenziali? La materia è complessa, e spesso certi atteggiamenti potrebbero avere ripercussioni significative sui risultati economici di questo o di quel locale. Mi viene in aiuto Gualtiero Marchesi (nella foto con Canzian e Molteni) e che, in una lectio magistralis all’Università di Parma, passata alla storia, disse: “La prima regola resta quella di accontentare il cliente, ed è abbastanza facile nel caso di un cuoco ordinario, anche professionale. Tuttavia, in presenza di cuochi straordinari, ciò può avvenire solo entro certi limiti. Quando viene servito Riso e Oro (uno dei piatti iconici del Maestro) non si può chiedere del formaggio grattugiato, e comunque abbiamo il dovere di non darlo”. Ci sono dei limiti invalicabili alla discrezionalità del cliente: i piatti tra cui scegliere sono diversi e vari, ma ognuno di questi lo finisce lo chef, sulla base di esperienza, tecniche, visione.
“Un cliente che va in un grande ristorante deve sapere di non poter chiedere qualunque cosa” –continua Gualtiero. “Può ordinare una pasta semplice per un bambino, con il pomodoro, ma non può pretendere lo stravolgimento di un piatto. Si viene da me per mangiare in un certo modo, e io devo far gustare il mio piatto, frutto di una precisa ricerca”. Ho voluto citare Marchesi perché ritengo che ci debbano essere sempre delle regole, che non dovrebbero essere imposte ma, semmai, far parte del patrimonio comportamentale degli individui nel loro agire quotidiano. Non soltanto nell’alta ristorazione e nel mondo del fine dining. In quest’epoca di deregulation totale e consolidata, nel senso che ognuno tende a fare ciò che gli fa più comodo, disinteressandosi del prossimo (salvo poi ergersi a difensore globale dell’umanità afflitta) non farebbe male riscoprire antichi valori sempre attuali, come il rispetto, la correttezza, il riconoscimento dei ruoli, che non nascono a caso ma sono acquisiti grazie a cultura, esperienza, intuizione e molto altro. Insieme a valori come la conoscenza, la disciplina e il rispetto, sono i cardini fondamentali per vincere ogni sfida. Imparando finalmente a distinguere tra ordinari e straordinari. C’è una bella differenza.
ALBERTO SCHIEPPATI
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