Ristoranti,
ritorno al futuro?
Le vera ripartenza
è in “lock-free”
Dopo la “boccata d’ossigeno” (solo al mare o in montagna) per la ristorazione c’è incertezza sul futuro a breve. Serve nuova mentalità e una riorganizzazione aziendale. Fondamentale attivare nuove attività. Eventi o marketing non salvano più nemmeno i locali stellati. Per la Fipe siamo a 22 miliardi di perdita del comparto.
Se c’era bisogno di una qualche conferma ufficiale ora è giunta l’Istat che certifica che a fine giugno il fatturato dei ristoranti aveva chiuso con un crollo del 64,2% negli ultimi tre mesi, il che equivale ad una perdita di circa 13 miliardi di euro. Numeri che da soli indicano qual è lo stato drammatico della maggior parte delle imprese del comparto che in quel periodo avevano appena cominciato a tentare una ripartenza.
Questi 13 miliardi di perdite, come evidenzia la Fipe, si sommano ai 17 miliardi di rosso segnati fra gennaio e marzo, e pongono una pesantissima ipoteca sul futuro a breve di molte imprese. Difficile immaginare a oggi cosa succederà nei prossimi mesi quando speriamo ci sia la vera “ripartenza”. Se con realismo bisogna considerare che l’attività fra luglio ed agosto è stata positiva in alcune località di mare o di montagna (dove per altro molti locali sono rimasti chiusi), lo stesso non si può certo dire delle città o dei centri storici, dove l’assenza degli impiegati per il lunch o dei turisti stranieri è stata devastante. Si può ipotizzare che la contrazione del fatturato dei ristoranti, mediamente a livello nazionale, durante le ferie possa essersi fermata ad un -40%. Che ovviamente è un dato statistico, perché per molti locali di Milano, invece che a Roma, Firenze o in tanti centri minori, il calo è arrivato anche all’80%. Un trend che, se confermato, porterebbe a oggi ad una perdita prevista di oltre 22 miliardi per tutto il comparto su base annua.
La speranza di tutti è che ci sia una lenta ripresa. Sempre che non si rischi un altro lockdown (che le follie dei negazionisti alla Sgarbi o Briatore potrebbero favorire) e che settembre davvero non segni quella caduta a picco che si teme per la paura dei contagi e dei focolai sparsi per l’Italia, che troppa stampa stupidamente ha forse ingigantito. Ma come garantire una ripresa?
Per ora il dato su cui si può ragionare è quello che spiega il direttore generale di Fipe, Roberto Calugi, secondo cui «sicuramente la parte centrale di agosto e in generale il mese, per i luoghi legati ai posti di villeggiatura, come mare e montagna, non è andata male, è stata solo una boccata di ossigeno per bar e ristoranti, perché c'è stato il turismo italiano, mentre nelle città d'arte, dove è mancato tantissimo il turismo straniero, la situazione è drammatica». E da qui si deve partire.
Se dunque il turismo costiero e montano ha dato una boccata d'ossigeno, che arriva dopo un periodo disastroso, cosa succederà dal 1° settembre, quando non ci sarà più nessuno in vacanza? Questo è il tema che Governo e Regioni dovranno affrontare al più presto. Fin dall’inizio della pandemia avevamo insistito sul fatto che molti ristoranti non avrebbero più riaperto. E in città come Milano, Firenze, Venezia e Roma molti ristoranti e bar non hanno proprio riaperto, soprattutto se troppo piccoli (e quindi nell’impossibilità di garantire il distanziamento obbligatorio) o se da tempo un po’ “snaturati” rispetto alla mission di somministrare cibo. È il caso di molti locali “fighetti” o di tendenza (a volte anche stellati) dove gli eventi e il marketing (attività di fatto azzerate) contribuivano in maniera determinante al fatturato. Se poi i muri non sono nemmeno di proprietà la situazione si complica ancora di più.
La ripresa, o ripartenza vera che sia, in ogni caso non potrà essere come un ritorno al passato.
Sul futuro pesa ad esempio il drastico calo di clienti dovuto al blocco delle frontiere e allo smart working imposto dallo Stato, oggi senza alcuna ragione ma con cui bisogna fare i conti. Cesare Battisti, segretario generale di Ambasciatori del Gusto e chef patron del milanese “Ratanà”, pronostica ad esempio un’ecatombe di locali nella sola Milano. Per la mancanza dei turisti e dei clienti della pausa pranzo (dipendenti pubblici e bancari che “lavorano” da casa) immagina la chiusura di un 20-25% delle 5.865 insegne attive a fine dicembre 2019. Una visione forse un po’ ferma su un passato che non può tornare, anche se magari corretta come previsione. Italia a Tavola indica da tempo il rischio di questo scenario e non a caso insiste sulla necessità di cambiare mentalità e aggiungere alle attività tradizionali (che devono restare il cuore dell’azienda) un po’ di tecnologia, di delivery, di asporto e magari di vendita di prodotti, per essere più competitivi e capaci di restare sul mercato. Quanto fatto sperimentalmente durante il lockdown va irrobustito e organizzato al meglio. Non si può sperare di tornare in fretta al passato e non si può nemmeno affrontare impreparati un’altra possibile chiusura. Serve una mentalità da “lock-free” (non bloccante), un termine mutuato dall’informatica, ma che può essere utile per spiegare come agire senza farsi bloccare dal passato in questa fase di crisi. Attivare nuove relazioni con fornitori, territorio, clienti e associazioni di rappresentanza; usare tutto ciò che il web mette a disposizione. Insomma dare realtà ad una ristorazione 2.0 che sappia andare oltre la fase transitoria del covid-19 e mettere il ristorante al centro di un sistema che è economico e culturale.
La contrazione temuta nel numero dei locali alla fine potrebbe fra l’altro anche essere salutare se si pensa a quante imprese improvvisate (o in mano alla criminalità) sono sorte in questi ultimi anni a Milano sull’onda dell’Expo. Così come in altre parti d'Italia. Non diciamo certo di tornare ai 2.900 ristoranti attivi a fine 2015, ma è indubbio che, ad essere onesti, ultimamente ce ne erano troppi. E il covid-19 ha accelerato l’esplosione di quella che è una bolla che riguarda un po’ tutta Italia. 330mila locali in cui si somministra cibo erano un’esagerazione già prima del coronavirus.
È tempo di porre mano a una riorganizzazione del settore perché il turismo e la promozione del Made in Italy a tavola hanno assolutamente bisogno di contare su ristoranti efficienti, sani e capaci di stare sul mercato e quindi all’insegna del “lock-free”. Ma per fare questo occorrono anche nuove norme valide per tutti coloro che somministrano cibo e tutte le aziende devono avere obblighi uguali in tema di previdenza, fisco e igiene. Tutto il resto è aria fritta e chi si illude che basti ancora barare con TripAdvisor, contare sugli sponsor o qualche nuova ricetta, può anche restare con le saracinesche abbassate. E questo al netto di incentivi o aiuti che le istituzioni non possono non assicurare, pena una drammatica crisi anche sociale.
Questi 13 miliardi di perdite, come evidenzia la Fipe, si sommano ai 17 miliardi di rosso segnati fra gennaio e marzo, e pongono una pesantissima ipoteca sul futuro a breve di molte imprese. Difficile immaginare a oggi cosa succederà nei prossimi mesi quando speriamo ci sia la vera “ripartenza”. Se con realismo bisogna considerare che l’attività fra luglio ed agosto è stata positiva in alcune località di mare o di montagna (dove per altro molti locali sono rimasti chiusi), lo stesso non si può certo dire delle città o dei centri storici, dove l’assenza degli impiegati per il lunch o dei turisti stranieri è stata devastante. Si può ipotizzare che la contrazione del fatturato dei ristoranti, mediamente a livello nazionale, durante le ferie possa essersi fermata ad un -40%. Che ovviamente è un dato statistico, perché per molti locali di Milano, invece che a Roma, Firenze o in tanti centri minori, il calo è arrivato anche all’80%. Un trend che, se confermato, porterebbe a oggi ad una perdita prevista di oltre 22 miliardi per tutto il comparto su base annua.
La speranza di tutti è che ci sia una lenta ripresa. Sempre che non si rischi un altro lockdown (che le follie dei negazionisti alla Sgarbi o Briatore potrebbero favorire) e che settembre davvero non segni quella caduta a picco che si teme per la paura dei contagi e dei focolai sparsi per l’Italia, che troppa stampa stupidamente ha forse ingigantito. Ma come garantire una ripresa?
Per ora il dato su cui si può ragionare è quello che spiega il direttore generale di Fipe, Roberto Calugi, secondo cui «sicuramente la parte centrale di agosto e in generale il mese, per i luoghi legati ai posti di villeggiatura, come mare e montagna, non è andata male, è stata solo una boccata di ossigeno per bar e ristoranti, perché c'è stato il turismo italiano, mentre nelle città d'arte, dove è mancato tantissimo il turismo straniero, la situazione è drammatica». E da qui si deve partire.
Se dunque il turismo costiero e montano ha dato una boccata d'ossigeno, che arriva dopo un periodo disastroso, cosa succederà dal 1° settembre, quando non ci sarà più nessuno in vacanza? Questo è il tema che Governo e Regioni dovranno affrontare al più presto. Fin dall’inizio della pandemia avevamo insistito sul fatto che molti ristoranti non avrebbero più riaperto. E in città come Milano, Firenze, Venezia e Roma molti ristoranti e bar non hanno proprio riaperto, soprattutto se troppo piccoli (e quindi nell’impossibilità di garantire il distanziamento obbligatorio) o se da tempo un po’ “snaturati” rispetto alla mission di somministrare cibo. È il caso di molti locali “fighetti” o di tendenza (a volte anche stellati) dove gli eventi e il marketing (attività di fatto azzerate) contribuivano in maniera determinante al fatturato. Se poi i muri non sono nemmeno di proprietà la situazione si complica ancora di più.
La ripresa, o ripartenza vera che sia, in ogni caso non potrà essere come un ritorno al passato.
Sul futuro pesa ad esempio il drastico calo di clienti dovuto al blocco delle frontiere e allo smart working imposto dallo Stato, oggi senza alcuna ragione ma con cui bisogna fare i conti. Cesare Battisti, segretario generale di Ambasciatori del Gusto e chef patron del milanese “Ratanà”, pronostica ad esempio un’ecatombe di locali nella sola Milano. Per la mancanza dei turisti e dei clienti della pausa pranzo (dipendenti pubblici e bancari che “lavorano” da casa) immagina la chiusura di un 20-25% delle 5.865 insegne attive a fine dicembre 2019. Una visione forse un po’ ferma su un passato che non può tornare, anche se magari corretta come previsione. Italia a Tavola indica da tempo il rischio di questo scenario e non a caso insiste sulla necessità di cambiare mentalità e aggiungere alle attività tradizionali (che devono restare il cuore dell’azienda) un po’ di tecnologia, di delivery, di asporto e magari di vendita di prodotti, per essere più competitivi e capaci di restare sul mercato. Quanto fatto sperimentalmente durante il lockdown va irrobustito e organizzato al meglio. Non si può sperare di tornare in fretta al passato e non si può nemmeno affrontare impreparati un’altra possibile chiusura. Serve una mentalità da “lock-free” (non bloccante), un termine mutuato dall’informatica, ma che può essere utile per spiegare come agire senza farsi bloccare dal passato in questa fase di crisi. Attivare nuove relazioni con fornitori, territorio, clienti e associazioni di rappresentanza; usare tutto ciò che il web mette a disposizione. Insomma dare realtà ad una ristorazione 2.0 che sappia andare oltre la fase transitoria del covid-19 e mettere il ristorante al centro di un sistema che è economico e culturale.
La contrazione temuta nel numero dei locali alla fine potrebbe fra l’altro anche essere salutare se si pensa a quante imprese improvvisate (o in mano alla criminalità) sono sorte in questi ultimi anni a Milano sull’onda dell’Expo. Così come in altre parti d'Italia. Non diciamo certo di tornare ai 2.900 ristoranti attivi a fine 2015, ma è indubbio che, ad essere onesti, ultimamente ce ne erano troppi. E il covid-19 ha accelerato l’esplosione di quella che è una bolla che riguarda un po’ tutta Italia. 330mila locali in cui si somministra cibo erano un’esagerazione già prima del coronavirus.
È tempo di porre mano a una riorganizzazione del settore perché il turismo e la promozione del Made in Italy a tavola hanno assolutamente bisogno di contare su ristoranti efficienti, sani e capaci di stare sul mercato e quindi all’insegna del “lock-free”. Ma per fare questo occorrono anche nuove norme valide per tutti coloro che somministrano cibo e tutte le aziende devono avere obblighi uguali in tema di previdenza, fisco e igiene. Tutto il resto è aria fritta e chi si illude che basti ancora barare con TripAdvisor, contare sugli sponsor o qualche nuova ricetta, può anche restare con le saracinesche abbassate. E questo al netto di incentivi o aiuti che le istituzioni non possono non assicurare, pena una drammatica crisi anche sociale.
i Alberto Lupini
direttore
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