Una notizia così strillata: “Quasi 7mila bar hanno chiuso i battenti causa Covid negli ultimi due anni”, ci sia consentita l’irriverenza, può condurre in errore.
Negli ultimi due anni, le due fotografie sono state scattate a fine 2019 e a fine 2021 (fonte InfoCamere), le restrizioni alle attività dei pubblici esercizi ed i lockdown causati dal Covid, hanno colpito tutta l’Italia; ergo, se la causa della chiusura dei 7mila bar fosse stata il Covid, avremmo dovuto assistere alla situazione paradossale della chiusura di tutti i bar!
Pertanto, la domanda da porsi, onde provare a trovare anche ipotesi di soluzione a fronte di scenario prossimo venturo, dovrebbe essere: “Perché su circa 170mila bar, circa 7mila hanno chiuso e circa 163mila non hanno chiuso?”.
Bar chiusi, la situazione italiana
La contrazione a livello Paese è del 4% circa, ma una lettura più articolata mostra differenze territoriali non di poco conto. Il Lazio ha valore percentuale addirittura più del doppio del dato nazionale: circa il 10% (1.860 bar chiusi). Sebbene su numerica minuscola in valore assoluto, parliamo di appena 51 bar che hanno chiuso, anche la Valle d’Aosta subisce decremento vistoso, pari a circa il 9%. Pesante per numerica il decremento della Lombardia, con una riduzione del 5% circa a significare poco meno di 1.500 bar che hanno chiuso. Marche e Friuli-Venezia Giulia sono sull’ordine del 6% circa di decremento. Hanno una tendenza opposta la Campania e la Sicilia, dove in questi due anni si è registrato un aumento del numero dei bar compreso tra l’1 e il 2%.
Proviamo a dirla anche da diverso angolo visuale: nell’anno 2019 c’era un bar ogni 355 abitanti; adesso, in anno corrente, vi è un bar ogni 370 abitanti.
I casi di Lombardia e Lazio
Ritorniamo alla numerica assoluta: l’insieme di Lazio e Lombardia, le due regioni più popolose d’Italia con un numero complessivo di quasi 16 milioni di abitanti, hanno visto la chiusura di quasi la metà del totale dei bar che hanno chiuso in tutta Italia: circa 3.300 su 7mila.
Procediamo con focus su queste due regioni. Entrambe sono connotate dalla prevalenza, per capacità attrattiva di flussi pendolari quotidiani e di cospicui flussi turistici che poco risentono di stagionalità, delle due aree metropolitane: Roma con circa 4 milioni di abitanti e Milano con circa 3 milioni di abitanti. Ovvero, detta diversamente, la metà della popolazione delle due regioni, circa 7 milioni di abitanti su una popolazione complessiva di quasi 16milioni di abitanti, vive nelle aree metropolitane di Roma e Milano. Ponendo prudenzialmente omogenea la densità dei bar per popolazione (ma ovviamente così non è!), possiamo ragionevolmente affermare che circa 1.500 bar sui 3.300 delle due regioni e dei 7mila circa di tutto il Paese, hanno chiuso i battenti nelle suddette due aree metropolitane. Insomma, un bar su cinque tra quelli che hanno chiuso nell’ultimo biennio, esercitava attività nelle aree metropolitane di Roma e Milano.
Perché?
L'effetto smart working
Le concause prevalenti sono due: il fenomeno dello smart working e il calo dei turisti.
Il fenomeno dello smart working, vistoso nelle metropoli ma permeato in tutte le aree urbane, è stato negligentemente sottovalutato dagli esercenti. Si è tardato a capire, per pigrizia mentale, che a causa dello smart working si andava verso un ribaltamento delle occasioni e degli slot orari di consumo al bar. Non si è voluto comprendere che non era più la tradizionale prima colazione (caffè e cornetto) a generare folla al banco e cospicuo cash flow già alle 9, ma ci si doveva adattare con professionalità ed inventiva a quella che sarebbe diventata la “seconda colazione” (la prima si fa in casa, oramai), intorno alle 10:30 quando ci si prende pausa, si va a fare la spesa e ci si incontra con i colleghi. Probabilmente non più a base dolce e caffeina, bensì a gusto salato e con beverage salutista; non più al banco, bensì a ordinato e pulito tavolino situato nel dehors. Dehors che, va detto, dovrebbe costituire anch’esso idoneo site per smart working, con presenza di plug e ovviamente di efficiente rete wi-fi. E il brunch? E aperitivi che siano ben distanti e differenti dalla melanconia del “prosecchino” con noccioline e patatine? E le occasioni di edutainment con incontri in cui si imparano a conoscere gemme ancora poco note del nostro dovizioso patrimonio agroalimentare?
Lo smart working è fenomeno né temporaneo e né reversibile: esso andrà a connotare lo scenario prossimo venturo. Evolveranno le destinazioni d’uso dei centri direzionali, delle zone uffici, delle “city”. Si tratta di prenderne atto e di adeguarsi proattivamente a ciò. Talvolta la chiusura potrebbe diventare ricollocazione in area diversa.
Il peso del turismo
Circa i flussi turistici, la Pasqua appena trascorsa lascia sperare che il calo degli ultimi due anni viva un significativo punto di flesso; sì, da calo a crescita. Sarà così ma, attenzione, i turisti non saranno più quelli di prima. In molti sensi: per area di provenienza, se pensiamo ai russi ed agli ucraini che saranno assenti nel termine breve, e per loro comportamento, a partire dai turisti italiani.
Il value for money è divenuto nei due anni pandemici dotazione di tutti noi: non si scialacqua, diciamo così. Il ché non significa il prezzo più basso in assoluto, tutt’altro. Il value for money comporta la ricerca e la conseguente constatazione dell’ossequio al cardine fondamentale dato dal miglior rapporto prezzo/qualità. Tutto ciò mai disgiunto dall’attenzione alla “vera” pratica della sostenibilità ambientale.
La tempesta perfetta: il costo della vita
Così ci spieghiamo, sebbene parzialmente, perché ha chiuso il 4% dei bar ed anche perché non ha chiuso il 96% dei bar.
Sì, ma il mare non è per niente calmo e la navigazione permane ardua a causa di due altri fattori: il caro bollette e la guerra Russia – Ucraina. Fattori, ahinoi, in buona parte concomitanti e qui così analizzati. Il caro bollette è generatore di quello che comunemente si chiama “il costo della vita”. Per forza: se aumenta il costo a monte per produrre il manufatto a valle... pago di più il costo a monte ed il costo a valle, ed il maggior costo ha conseguenza sul rincaro del prezzo all’acquirente.
Ne consegue la tempesta quasi perfetta. Dunque, è aumentato il costo della vita, faccio un taglio alle spese voluttuarie e al bar ci vado una volta in meno rispetto al passato. Ecco, questa è la volta che ci vado. Ci vado, consumo e mi accorgo che sono aumentati i prezzi delle consumazioni. Ah, e allora ci vado “due” volte in meno! L’esercente: non posso non aumentare i prezzi del listino, i miei costi sono aumentati considerevolmente. Devo studiare modalità atte a non farmi perdere giro di clientela e valore complessivo dello scontrinato quotidiano.
Queste modalità esistono e non è difficoltoso né individuarle, né attuarle. Il grande ostacolo è uno solo: non le vedo, mi sono invisibili, non mi si palesano. Tali permarranno, così nocivamente invisibili, fino a quando non ci sarà la svolta e vogliosi anziché timorosi delle novità che incombono, ci si chiederà il “perché no” delle cose e non banalmente il “perché”.
Crolla il paradigma “faccio così perché si è sempre fatto così e mi è andata sempre bene” e sorge il paradigma: “questa cosa ha funzionato in passato? bene, e allora non la faccio più e faccio cosa altra all’ideazione ed attuazione della quale professionalmente mi accingo”.
Il futuro
Hanno chiuso 7mila bar. Di mare non calmo si è detto. E se, soprattutto quando diverranno maledettamente probanti alterando il nostro assetto sociale ed economico, gli effetti della guerra in atto, il mare non si calmasse ed invece, per dirla con il gergo dei bollettini nautici, le previsioni dessero “moto ondoso in aumento”?
Forse assisteremmo ad un fenomeno ben presente in natura: accentuazione di mortalità per il “bar di una volta” e nascita fiorente del bar “nuovo”.
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