«La cucina non salva
il mondo, ma può renderlo più giusto»:
la lezione etica di Gennarino Esposito
Lo chef della Torre del Saracino parla di identità, giovani, design, stelle Michelin e avanguardia. Una riflessione a tutto campo su cosa significhi oggi fare ristorazione con etica, studio e passione, sul ruolo della sperimentazione responsabile e della buona formazione, che deve assecondare il talento di una nuova generazione di chef molto preparata
Redattore
In un’epoca in cui la ristorazione vive l’altalena tra creatività spettacolare e ritorno alle radici, Gennarino Esposito sceglie la terza via: quella del rigore, dell’identità, della responsabilità. Con il garbo e la lucidità che da sempre lo contraddistinguono, lo chef due stelle Michelin racconta il mestiere di cuoco come luogo di sintesi tra arte e scienza, ma soprattutto come un impegno quotidiano verso gli altri. Non cerca la polemica, ma invita a riflettere: sulla fragilità dei giovani, sull’arroganza in cucina, sulla necessità di essere parte attiva di un sistema virtuoso. Perché, come dice lui, «la cucina non salva il mondo, ma può renderlo più giusto». .
Identità gastronomica e radici culturali: la cucina parte da chi sei
Lei dice che “e origini di uno chef vanno senz’altro a finire nel piatto”. Cosa pensa di quei colleghi che ignorano le proprie radici per inseguire mode internazionali?
«Credo che, quando si apre un ristorante, sia giusto guardare allo scenario in cui si opera: le opportunità che si presentano, il tipo di clientela, il contesto culturale e sociale. Tutti questi elementi influenzano inevitabilmente le scelte legate alla cucina. Bisogna chiedersi: che cucina voglio fare, dove, quando e per chi?».
«Sono domande fondamentali per costruire una propria identità. È normale che questa identità possa evolversi, modificarsi nel tempo. Ognuno dovrebbe esprimere la cucina che sente propria, quella che sa fare meglio, che riesce a portare in tavola ogni giorno, tenendo conto anche della qualità dei prodotti locali e di ciò che lo ispira. Non trovo giusto giudicare chi rinnega o abbraccia le proprie origini. È una scelta personale, da compiere dopo un’attenta valutazione».
«Certo, è bello vedere uno chef italiano che valorizza il proprio territorio, i propri prodotti, i piccoli artigiani, creando un sistema virtuoso che coinvolge anche chi sta fuori dalla cucina: i produttori, i coltivatori, chi lavora bene e merita un posto nel menu. Credo molto in un approccio così».
Tradizione e avanguardia: quando la sperimentazione ha un senso
Molti parlano di cucina sperimentale “a tutti i costi”. Lei crede siano chef autentici o semplici illusionisti?
«Non vorrei che questo discorso diventasse populista. Capita spesso di sentire diffidenza verso la cucina di avanguardia, quella fatta di studio e sperimentazione. Ma trovo che sia difficile e coraggioso esplorare territori nuovi: chi lo fa merita rispetto. Tutti noi, a un certo punto del percorso, abbiamo provato a sperimentare. Alcuni poi sono tornati indietro, sentendo quella strada poco coerente con la propria personalità; altri sono andati avanti, trovando motivazioni profonde».
«La cosa importante è che, nel processo di esplorazione, uno chef sappia coinvolgere il cliente, sappia emozionarlo, qualunque sia il livello di avanguardia che esprime. Non dev’essere un’ossessione, ma deve essere un sentimento che tu hai dentro e che puoi tirare fuori nel modo giusto. Oggi è difficile essere davvero esploratori puri, perché molto è già stato fatto. Ma ciò che conta è che le nuove proposte siano originali, frutto di studio serio, anche dal punto di vista nutrizionale ed etico, e che rispettino la salute dei clienti».
«Oggi la scienza ci offre dati fondamentali anche rispetto alle tecniche innovative: cotture, conservazioni, fermentazioni... Ecco, chi sperimenta dovrebbe essere preparato, e anche preoccupato della sicurezza di ciò che propone. La salubrità deve venire prima dello spettacolo. Per questo trovo importante che ci sia chi studia, chi esplora, perché così facendo condivide esperienza e aiuta tutti a crescere».
L’arroganza in cucina è un limite, non un segno di forza
Cosa le dà fastidio nel modo di lavorare di molti suoi colleghi, specie in ristoranti “di grido”?
«In ogni settore ci possono essere episodi percepiti come arroganti, ma spesso conoscendo le persone si capisce che non era quello il messaggio. Io credo che uno chef intelligente, oggi, non possa permettersi l’arroganza. Viviamo in un mondo ricchissimo di opportunità e in continua trasformazione: sarebbe presuntuoso pensare di sapere tutto. Io, personalmente, mi sento sempre una formica rispetto alla grandezza della cucina e delle tradizioni che esistono in ogni parte del mondo. L’arroganza non ha senso».
«Certo, a volte chi comunica può sbagliare tono. Ma questo capita in tanti mestieri. L’importante è ricordare che facciamo cucina, non salviamo il pianeta – anche se possiamo contribuire a creare un sistema virtuoso, basato su sostenibilità, etica, educazione, inclusione e formazione dei giovani».
Il cliente è centrale, ma non è un sovrano assoluto
Alcuni chef dicono che “il cliente è re”. Lei cosa ne pensa di chi sacralizza il buongustaio?
«Il cliente è al centro. È lui che decide. Però il concetto di “re” può essere frainteso: ci sono re illuminati, re intelligenti, ma anche re despoti. Dipende dal tipo di cliente. Noi facciamo di tutto per far vivere al cliente un’esperienza memorabile, curando ogni dettaglio: comfort, ospitalità, accoglienza. È bello anche quando il cliente viene da noi curioso di scoprire la nostra storia, non solo per imporre la sua idea di ristorante. E anche noi, da parte nostra, dobbiamo sapere ascoltare e non imporre la nostra linea di ristorante».
«A seconda del tipo di ristorazione questo dialogo è più o meno possibile, ma in generale penso che conti l’educazione: ci sono clienti e chef educati, e altri meno. Questo è sempre stato così. Il concetto di ristorazione, di ospitalità a 360 gradi vuole essere questo, far sentire il cliente al centro del progetto».
Eventi gastronomici: visibilità sì, ma con rispetto e intelligenza
Lei ha fondato Festa a Vico, radunando centinaia di colleghi. Cosa le è rimasto impresso dei cuochi che fanno “gruppo” solo per visibilità?
«Organizzo da oltre vent’anni Festa a Vico, quindi posso parlare per esperienza. Lì ho sempre respirato rispetto, solidarietà, sincerità. C'è una vera e propria comunità di chef, di persone che hanno voglia di parlarsi, di incontrarsi, di confrontarsi. È normale che ci sia una parte di visibilità e di competizione, però anche è vero che tutti noi facciamo cose diverse in posti diversi, in modi diversi. Ma quando ci si incontra davvero, con il piacere di confrontarsi e fare qualcosa per gli altri, questa è la cosa più bella».
«Poi, certo, non si può andare d’accordo con tutti. Succede ovunque, anche in un condominio o in un ufficio. Ma la cosa importante è avere sempre intelligenza ed educazione. E chi partecipa, anche se ottiene visibilità, lo fa mettendosi in gioco, offrendo il proprio lavoro per una causa nobile. E questo è sempre positivo. Offrire il proprio servizio per un'operazione diciamo nobile è sempre una bella cosa, io guarderei più a questo aspetto».
Stelle Michelin: un traguardo, non un’ossessione
Alcuni suoi colleghi inseguono stelle Michelin come trofei. Lei giudica ancora utile questa corsa?
«Sì, penso che sia una motivazione comprensibile. Tutti dovremmo svegliarci ogni mattina per fare il nostro lavoro al meglio, con etica, qualità, ospitalità. Se tutto questo è fatto bene, è normale che uno chef aspiri a una Stella. È un traguardo importante, ma anche un punto di partenza.
«L’importante è che questa ambizione non diventi ossessione. Vivere male per inseguire un riconoscimento può diventare controproducente. Come tutte le ambizioni, non devono generare ossessione, non devono generare squilibri. Ma una Stella Michelin, se conquistata con onestà e passione, è ancora oggi una delle soddisfazioni più grandi per uno chef, e lo sarà ancora per molto tempo. Una grande soddisfazione per un professionista, che viene chiaramente a coronamento di una carriera o di un periodo di tempo di credibilità, di affidabilità che i clienti e la stessa Michelin hanno modo di percepire e di valutare».
La cucina tra arte ed etica scientifica
C’è chi definisce la cucina “arte” e chi “scienza”. Lei da che parte sta?
«Per me la cucina è entrambe le cose. La scienza è fatta di tecnica, studio, chimica, precisione. Ma senza arte, senza ispirazione, emozione, creatività, non ci sarebbe bellezza. E viceversa: l’arte, senza scienza, rischia di essere incompleta. Quindi è la fusione tra le due che rende la cucina qualcosa di straordinario».
I giovani in cucina? Hanno talento, ma serve chi li guida
Quali difetti vede più spesso nei giovani chef di oggi?
«Vedo a volte una certa fragilità emotiva, difficoltà a gestire anche situazioni semplici. Ma per il resto noto tanta dedizione, voglia di imparare, sacrificio. Per questo è fondamentale il ruolo di chi li accompagna: il maestro, come nelle botteghe rinascimentali, che da un lato dà una direzione, ma dall’altro sa valorizzare le qualità individuali. Perché se si tende all’omologazione, si perde il senso dell’identità. Oggi come ieri, i giovani di talento ci sono e hanno voglia di uscire, di emergere. Sta a noi aiutarli a farlo».
Design vs sostanza: non è questione di arredi, ma di equilibrio
Si sente un “nemico” degli chef che puntano tutto sul design del locale anziché sul piatto?
«Non credo che uno chef dica: “preferisco l’arredamento al cibo”. A volte si percepisce uno sbilanciamento, ma penso che chi lavora seriamente voglia fare bene entrambi gli aspetti. Ci sono chef più sensibili all’estetica, altri più concentrati sulla cucina. E ci sono anche trattorie semplici dove si respira bellezza, magari grazie a dettagli curati, fiori freschi, attenzione femminile. Il bello è ovunque. L’importante è cercare equilibrio tra forma e sostanza. Un posto curato nei dettagli secondo me è molto bello ma non penso che non possa anche essere anche un posto dove si mangia bene».
Il vero problema? Chi si nutre del sistema senza alimentarlo
Ultima provocazione: chi nel panorama italiano meriterebbe una “lezione” da parte sua?
«Più che una categoria, direi che esiste un mondo parallelo che si nutre del lavoro di chi si impegna seriamente, ma non fa nulla per alimentarlo. Esistono professionisti che studiano e si migliorano ogni giorno, e altri che fanno solo da zavorra, in ogni settore: ristorazione, artigianato, edilizia...Questa è la parte che mi piacerebbe eliminare: chi trae beneficio da un sistema ma non contribuisce a farlo crescere. In cucina, come altrove».
La carriera e il ristorante Torre del Saracino
Gennarino Esposito, nato a Vico Equense nel 1970, si è diplomato alla scuola alberghiera “Francesco De Gennaro” nel 1988. Dopo uno stage con Gianfranco Vissani, ha perfezionato la sua formazione lavorando con chef di fama internazionale come Alain Ducasse a Parigi e Franck Cerutti a Montecarlo. Nel 1992 ha inaugurato il suo celebre ristorante Torre del Saracino, situato in una suggestiva torre saracena Vico Equense, in Costiera Sorrentina. Qui propone una cucina che unisce territorio, stagionalità e innovazione, con piatti iconici come la pasta mista con pesci di scoglio e il risotto al basilico con succo di prugne. Il ristorante ha ottenuto la prima stella Michelin nel 2001 e la seconda nel 2008, insieme ad altri importanti riconoscimenti come le “Tre Forchette” del Gambero Rosso.
Consulenze televisive e progetti in corso
Oltre alla carriera in cucina, Esposito è noto per le sue consulenze televisive, avendo partecipato come giudice a programmi di successo come Junior MasterChef Italia, Cuochi d’Italia, Piatto Ricco e I Soliti Ignoti. Tra i suoi progetti recenti spicca la guida dei ristoranti dell’Hotel La Palma a Capri, rilanciato dal gruppo Oetker Collection, dove ha aperto i ristoranti Gennaro’s e Bianca. Continua anche a innovare nella Torre del Saracino, con nuove proposte come la schiacciata di patate novelle con granseola o lo spaghetto ai ricci di mare con succo di asparagi. Il suo impegno costante nella valorizzazione del territorio, nella ricerca gastronomica e nella tradizione italiana lo conferma tra i più autorevoli chef del panorama contemporaneo.
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