venerdì 28 dicembre 2018

Scoperta la chiave dell’Alzheimer


Scoperta 
la chiave 
dell’Alzheimer
Un team italiano è riuscito a chiarire i dettagli molecolari della mancata comunicazione tra le cellule nervose, un meccanismo che blocca la memoria e che, nel tempo, provoca la malattia. l risultati potrebbero rivoluzionare diagnosi e cure

Sembra celarsi in una particolare area del cervello la chiave per comprendere meglio l’Alzheimer e riuscire a contrastarlo. In quest’area la perdita di cellule che producono dopamina – il “neurotrasmettitore della felicità”, rilasciato durante le situazioni piacevoli – può infatti causare il malfunzionamento dell’ippocampo, la parte del cervello deputata a creare i ricordi. Per la prima volta in uno studio su pazienti, l’importante ricerca scientifica è stata condotta da scienziati italiani è stata pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease e riguarda nuove scoperte che potrebbero rivoluzionare sia la diagnosi precoce, sia le terapie per questa forma di demenza, spostando l’attenzione su farmaci che stimolano il rilascio di dopamina. L’Alzheimer, il “ladro della memoria”, è una patologia che colpisce oltre 600mila persone in Italia e 47 milioni in tutto il mondo, destinate a triplicarsi entro il 2050.


Autrice dello studio è Annalena Venneri, dello Sheffield Institute for Translational Neuroscience (SITraN) nel Regno Unito, che ha lavorato di concerto con Matteo De Marco, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Proprio dalla capitale italiana sono arrivati i primi risultati dei test condotti sui topi da laboratorio – grazie al lavoro di MarcelloD’Amelio – che sono stati combinati con quelli condotti su un campione di 110 persone nel Regno Unito”. Venneri e Matteo De Marco hanno eseguito test cognitivi e risonanze magnetiche a 3Tesla (hanno il doppio della potenza delle normali risonanze magnetiche e sono in grado di produrre immagini della migliore qualità possibile) su 29 pazienti con Alzheimer, 30 soggetti con declino cognitivo lieve e 51 persone sane, trovando una correlazione tra dimensioni e funzioni dell’area tegmentale-ventrale (VTA) con le dimensioni dell’ippocampo e le funzioni cognitive dell’individuo. Più piccola risulta la VTA, minori le dimensioni dell’ippocampo e la capacità del soggetto di apprendere e ricordare. “La nostra scoperta indica che se la VTA non produce la corretta quantità di dopamina per l’ippocampo, questo non funziona più in modo efficiente”, spiega Venneri, e la formazione dei ricordi risulta compromessa.
Il nuovo legame tra la diminuzione della quantità di dopamina prodotta nella parte profonda del cervello e l’abilità di formare nuovi ricordi potrebbe essere cruciale per riconoscere i primissimi segni della patologia di Alzheimer. “Sono necessari ulteriori studi – avverte Venneri – ma questa scoperta può potenzialmente aprire la strada a un nuovo modo di intendere gli screening per la popolazione anziana in caso di primissimi segnali di Alzheimer, cambiando la modalità in cui vengono acquisite e interpretate le scansioni diagnostiche del cervello e utilizzando differenti test per la memoria. Le nostre ricerche – aggiunge l’esperta – ora si stanno concentrando sull’affinare la metodologia per renderla applicabile clinicamente, inoltre stiamo lavorando per estendere lo studio su campioni più vasti”.
“Un altro possibile beneficio di questa scoperta è che potrebbe portare a un’opzione di trattamento differente della malattia, con la possibilità di cambiarne o fermarne il corso molto precocemente, prima che si manifestino i principali sintomi. Adesso – conclude Venneri – vogliamo stabilire quanto precocemente possono essere osservate le alterazioni nell’area tegmentale ventrale e verificare anche se queste alterazioni possono essere contrastate con trattamenti già disponibili”. Ma la ricerca fa i conti con il nodo dei finanziamenti: insomma, tutto dipenderà da quanto verrà investito per finanziare la ricerca necessaria a portare a questo risultato

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