Consumo di pesce
in Italia. Un modo
per valorizzare
i mari nostrani
Pesce: se aumentano i consumi aumenta l’import. Ma questo meccanismo può beneficamente alterarsi. Dipende da una nuova consapevolezza della domanda e dell’offerta e dal ruolo della ristorazione di qualità.
Con l’estate si sa, aumentano le occasioni del dine out e, in sintonia con le destinazioni prevalenti delle vacanze (le fasce costiere), aumentano i consumi di pesce. Primo warning: aumentano i consumi di pesce proprio nel periodo in cui si attua, scalettato nelle date, il fermo pesca nei nostri mari.Cosa comporta ciò? Comporta che ad un aumento dei consumi corrisponde un ulteriore incremento dei volumi e dei valori dell’import. È ovvio. Sì, ma non è altrettanto ovvio che mentre ciò avviene, con nocumento economico, nutrizionale ed anche organolettico, nuotano nel mare nostrum specie tipiche rese neglette dal radicamento delle abitudini alimentari che si fossilizza solo su alcune specie.
A fronte di una media europea che stima un consumo annuo di pesce di circa 25 kg, noi italiani di pesce all’anno ne consumiamo 28 kg circa. Ed a questo consumo annuo siamo giunti con una progressione tanto lenta quanto costante, circa il 2% annuo, da circa 20 anni a questa parte. Il fatto in sé lo si colloca tra le buone notizie, dacché mangiare pesce, è autorevole opinione condivisa dai nutrizionisti, fa bene alla nostra salute. Molluschi e pesci sono ricchi di grassi “buoni”, minerali, proteine e vitamine.
All’incirca diciamo che i nostri consumi si dividono metà a metà tra prodotti freschi e decongelati da una parte, e prodotti surgelati confezionati e conserve dall’altro. Nel caso specifico delle conserve, nella maggior parte si tratta di conserve di tonno.
Siamo il Bel Paese circondato dal mare per tre quarti, con due isole grandi e decine di isole minori, i nostri prodotti ittici costituiscono gli ingredienti principali di buona parte delle ricette che fanno riferimento alla Dieta mediterranea. Tuttavia, facendo un rapido conto, ovvero moltiplicando il consumo annuo procapite (28 kg) con la popolazione (60 milioni), arriviamo ad un milione e 700mila tonnellate annue di fabbisogno. Ecco, succede che le 700mila tonnellate riusciamo a trovarle nei nostri mari, grazie al contributo fondamentale dell’acquacoltura, ma non così per il milione.
E pertanto nel 2017 abbiamo importato un milione di tonnellate di pescato, con una crescita del 4% circa rispetto all’anno precedente. Appunto, ribadiamolo qui dopo averlo detto in apertura: è vero che aumentano i consumi ed è altrettanto vero che ancor più aumenta l’import. Ne consegue, e sottovalutare ciò ci porta ad essere miopi nel considerare l’interesse collettivo, il peggioramento del deficit della bilancia commerciale italiana di prodotti ittici, che, già strutturalmente in negativo, è giunta a superare la soglia record dei 5 miliardi di euro.
E quali specie ittiche, dopo il tonno, acquistiamo dall’estero? Seppie e calamari, conserve di palamita e poi i gamberetti ed i polpi. Di sole conserve di tonno e palamita ne abbiamo importate oltre 102mila tonnellate. La “scatoletta di tonno” è la costante presenza salvifica nelle case italiane. Secondo i dati Ancit, se ne consumano circa 3 kg l'anno a testa.
Nel Mediterraneo si possono pescare la palamita, i tombarelli ed il tonno alalunga. Quest'ultimo rappresenta un caso emblematico perchè, pur avendo carni delicate e gustose, è poco noto e poco apprezzato, forse anche a causa del suo colore rosato che il consumatore disdegna in quanto preferisce il colore rosso vivo, che induce a pensare al pregiato tonno rosso.
Il quadro sin qui tratteggiato lascerebbe pensare ad una sorta di rassegnazione, ad una sorta di destino segnato: maggiore diviene la quantità di pesce che consumiamo, maggiore diviene la quantità di pesce che non proviene dai nostri mari.
Ma questo meccanismo potrebbe anche virtuosamente alterarsi a fronte di una consapevolezza, tutta da acquisire, circa le tante specie di pesce nostrano che non sono sfruttate perché apparentemente non incontrano il favore della domanda e perciò non innescano l’offerta. Siamo dunque in uno stallo. Se mai l’offerta si propone sapendosi proporre, come può una domanda ignara richiedere ciò che ignora?
Un caso tra i tanti è rappresentato dalla sogliola. Si preferisce la sogliola atlantica, perché è di dimensioni maggiori, e si scarta la saporita sogliola mediterranea. Insomma, è necessaria una svolta che comporti una scelta sostenibile: consumare il pesce saporito, salutare e relativamente economico che si trova nei nostri mari. Ma nel contempo si deve finalmente introitare un altro sapere, cioè che anche il pesce vive di stagionalità. Ed allora si tratta di abituarsi alla presenza (ed all’assenza) sui banchi delle pescherie, di pesci e molluschi secondo stagione.
Una grande operazione di trasparenza alla quale la ristorazione di qualità non solo non dovrebbe sottrarsi ma dovrebbe a nostro avviso aderire, di essa costituendo parte diligente. Sul menu solo il pescato frutto della scelta sostenibile di cui si è fatto cenno.
Si pensi a cosa comporta ciò in termini di lavoro creativo in cucina: sperimentazioni, nuove ricette, nuovi abbinamenti, emergenti circuiti di approvvigionamento e di filiera corta. Ne consegue una frugalità felice, la consapevolezza della risorsa carente perché a questo mondo, semplicemente e naturalmente, la risorsa a capacità infinita non esiste.
di Vincenzo D’Antonio
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