Dal Pescatore sfida
il fine dining dei pentiti: la famiglia
come antidoto
alla fuga dagli stellati
Alberto e Giovanni Santini guidano oggi Dal Pescatore dimostrando che crescere in un ristorante non è una condanna ma un privilegio. Tradizione e innovazione si intrecciano, ribaltando l’idea di fine dining come “incubo” denunciato da Dani García. Proprio Alberto racconta come la sala sia tornata centrale, come la formazione del personale stia cambiando e come innovare restando fedeli a un’eredità di famiglia.
Redattore
La ristorazione in casa Santini è sempre stata una questione di famiglia. Un ristorante con tre stelle Michelin sin dal 1996 e che fin dall’inizio è stato più di un luogo di lavoro: una casa, un’esperienza di vita. Oggi quell’eredità è portata avanti da una nuova generazione: Alberto, che si occupa della gestione e della sala, e Giovanni, chef del ristorante di famiglia che aveva già visto papà Antonio (in sala) e mamma Nadia (in cucina ancora oggi) raccogliere il testimone da nonna Bruna. Un equilibrio di ruoli diversi ma complementari che racconta come tradizione e innovazione possano convivere nella stessa storia familiare, come racconta lo stesso Alberto in questa intervista a Italia a Tavola.
Chi è Alberto Santini
Nato a Mantova nel 1983, Alberto Santini è figlio di Antonio e Nadia Santini, insignita nel 1998 del titolo di Miglior chef del mondo con il Grand Prix de l’Art de la Cuisine. Accanto al fratello Giovanni, Alberto rappresenta la nuova generazione di una delle famiglie più autorevoli della ristorazione italiana.
La famiglia Santini è alla guida del celebre ristorante “Dal Pescatore”, fondato nel 1925 dal nonno pescatore e dalla nonna rientrata dal Brasile. Divenuto Relais Gourmand dei Relais & Châteaux nel 1990, il locale mantiene tre stelle Michelin dal 1996, confermandosi come una delle istituzioni gastronomiche più prestigiose del Paese. Dopo la laurea in Marketing presso l’Università di Parma, Alberto ha scelto di affiancare i genitori e, dal 2013, ricopre il ruolo di sommelier del ristorante, curando la cantina e la carta dei vini.
Crescere in un ristorante: tradizione familiare,
responsabilità e nuove sfide per la sala
Per alcuni il ristorante è un luogo di lavoro, per altri un progetto di vita. Per la famiglia Santini, il ristorante è stato, fin dall’inizio, la casa. Una condizione che ha plasmato generazioni e che oggi si riflette in una gestione fatta di passione, continuità e innovazione. «Il ristorante era casa nostra - racconta Santini -. Era naturale che la nostra famiglia dedicasse tempo al ristorante. Noi stessi, da bambini, abbiamo partecipato alle decisioni, anche con piccole cose, come scegliere i colori del giardino. Per noi era normale vivere lì dentro».
Se da un lato il legame con l’attività non è mai venuto meno, dall’altro la formazione accademica ha rappresentato un passaggio fondamentale per dare strumenti concreti alla nuova generazione. «Mio fratello ha scelto Scienze e Tecnologie Alimentari, io invece Economia e Commercio. Ma anche durante l’università non abbiamo mai smesso di lavorare al ristorante. Nei weekend eravamo sempre lì, e quello che studiavamo lo riportavamo subito in azienda, immaginandolo utile per il futuro». Una scelta quasi inevitabile: «Non abbiamo mai pensato seriamente ad altro. La nostra vita era scandita tra università e ristorante. Era tanto lavoro, ma non lo vivevamo come un peso. Anzi, lo facevamo con passione».
Libertà e futuro delle nuove generazioni
Se il presente è radicato nel lavoro di famiglia, il futuro resta aperto e libero. «Non abbiamo ancora pensato al passaggio successivo. Mio nipote ha undici anni, ed è giusto che abbia la libertà di scegliere. Quello che conta è che qualunque lavoro decida di fare gli piaccia: se non piace, diventa solo un peso».
Gestione del personale: dal nonnismo alla valorizzazione
L’immagine del lavoro in sala e cucina è cambiata radicalmente. Non è più il tempo delle giornate interminabili fatte solo di ripetizione meccanica, ma di intensità e concentrazione. «Oggi si lavora meno con le mani in modo ripetitivo, ma serve più intensità e attenzione. È cambiato il ritmo: non è più facile o più difficile, è semplicemente diverso. Rispetto a quando eravamo ragazzi, adesso ci sono l’euro, la fine delle frontiere, l’Erasmus. Le informazioni corrono veloci, le persone si spostano con più facilità. Tutto questo ha trasformato anche la ristorazione».
Un altro aspetto riguarda la gestione delle persone, sia in cucina che in sala. Santini sottolinea la necessità di abbandonare vecchi modelli autoritari. «Non mi è mai piaciuto il sistema del nonnismo, dove l’anzianità contava più delle competenze. Preferisco valorizzare ciò che ciascuno sa fare. Prima di mandare qualcuno in sala o in cucina bisogna formarlo bene, per evitare errori e frustrazione. E poi è fondamentale capire le passioni di ciascuno: c’è chi ama il vino, chi il pane. Bisogna lasciare che le persone si esprimano in quello che sentono più vicino».
Anche in tema burocrazia l’approccio di Santini è chiaro. «Non ha senso lamentarsi. Le regole ci sono per tutti, e i problemi che affrontiamo sono comuni a tanti ristoranti. Bisogna semplicemente studiarli e risolverli, con un approccio costruttivo».
La sala: oggi il vero cuore del ristorante
Santini ribalta un’idea tradizionale: «Spesso si pensa che la cucina sia il cuore di un ristorante. Per me oggi il vero cuore è la sala. È lì che si crea l’esperienza, il rapporto diretto con l’ospite». La sala diventa così il luogo decisivo dell’esperienza gastronomica: «Bisogna capire chi hai davanti e calibrare l’interazione: alcuni vogliono sapere ogni dettaglio, altri desiderano semplicemente godersi il momento con la famiglia». Anche la clientela, inevitabilmente, è cambiata nel tempo. «Quarant’anni fa il pasto si concludeva quasi sempre con i distillati. Oggi invece l’attenzione è rivolta all’esperienza gastronomica, alla tecnica, alla cultura che stanno dietro a un piatto. Il valore più grande oggi è il tempo libero: chi viene al ristorante lo fa per viverlo come uno spazio di qualità da condividere».
Oggi è difficile parlare di “cliente straniero” come un tempo. Come osserva Santini, «molti viaggiano con facilità e conoscono bene l’Italia: ci sono clienti che arrivano dal Brasile o dagli Stati Uniti, che visitano il Paese da decenni per 2-3 settimane all’anno». «Sono ospiti che conoscono profondamente la nostra cultura e sanno cosa aspettarsi», aggiunge, sottolineando che «il concetto va spostato sull’aspetto culturale più che sulla provenienza». Pur con differenze di gusto, chi sceglie “Dal Pescatore” è spesso «un grande gourmet, appassionato di gastronomia», e questo crea comportamenti simili nel mondo gastronomico, indipendentemente dal contesto. «È un tema importante, da affrontare con entusiasmo e passione», conclude.
Tradizione, innovazione e il ruolo della famiglia
«Il pericolo di un’attività familiare è non cambiare nulla per rispetto del passato. Ma mio nonno ci ha insegnato a non affezionarci agli oggetti, ma alle persone». Piccole innovazioni come l’azienda agricola, le prenotazioni online, gli inviti regalo e il servizio al bicchiere hanno cambiato il modo di lavorare e relazionarsi con i clienti.
«Chi viene da noi percepisce che siamo una famiglia. Con mio fratello ci completiamo: ognuno ha le sue responsabilità. A volte abbiamo visioni diverse, ma trovare spazi e portare risultati concreti è ciò che ci permette di innovare senza tradire la tradizione». Santini guarda al futuro con ottimismo: «La ristorazione è affascinante perché ti permette di incontrare le persone nei momenti di felicità».
Non c'è futuro senza passato
Mentre chef come Dani García ammettono di non voler vedere i propri figli nel fine dining, la famiglia Santini dimostra l’esatto contrario: si può crescere dentro un ristorante e trasformarlo in una scelta di vita, non in una condanna. La differenza sta nel modello: chi si piega a schemi tossici e a ritmi disumani finisce per fuggire, chi invece investe in formazione, rispetto e centralità della sala costruisce un futuro sostenibile. Dal Pescatore, con quasi un secolo di storia, non è un mausoleo della tradizione, ma la prova vivente che il ristorante di famiglia può ancora essere un laboratorio di innovazione. E forse il vero discrimine per l’alta cucina italiana è proprio questo: scegliere se restare prigioniera delle proprie ossessioni o diventare, come i Santini, un’eredità felice capace di parlare alle nuove generazioni.
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